Dopo l’expo e PRIMA DELLA PARTENZA
Di solito fa freddo. Si vede gente con dei mantelli che non possono rendere calore. Si cerca calore rifugiandosi all’interno e troviamo persone sedute, persone che si spalmano di creme, persone che parlano, persone che si cambiano e persone che cercano di andare in bagno. A Verona è stato l’unico caso nella storia dei bagni in cui la fila per le donne era più breve e scorrevole di quella degli uomini.
In realtà la cosa migliore sarebbe fare un bel po’ di riscaldamento e un altro bel po’ di stretching.
LA PARTENZA
Arriva il momento in cui ci separiamo dalla gente comune. (Eufemismo: è improbabile che la gente comune sia presente alla partenza, a meno che non sia particolarmente mattiniera oppure non abiti proprio là. Soprattutto in Italia). Ognuno ha una griglia di partenza in cui è stato inserito e ci dirigiamo là. Ricordo molto volentieri la partenza della mezza maratona di Amsterdam. Eravamo arrivati in bici e io ero stato capace di franare sulla caviglia di una ragazza che stava facendo stretching. L’unica cosa che si poteva fare era fuggire. Altrimenti lo sguardo omicida della ragazza era stato veramente eloquente. Eravamo diecimila. Gente da tutto il mondo e persone più estroverse di me trovavano il modo di conversare e conoscere tanti amici di corsa.
A Berlino tutto questo c’era come numero, ma il freddo e la pioggia non permettevano tanto di parlare.
In questi momenti, a cosa pensiamo? A niente, se non all’arrivo e forse alla strategia di gara. Partire lenti, tenere dei tempi prestabiliti, stare insieme o inseguire delle ragazze, leggere le migliori magliette, conversare con chiunque (vale per chi ha l’obiettivo di arrivare con i lentissimi e quindi semplicemente finire), pensare a cosa si dirà, ascoltare le proprie sensazioni, ascoltare i battiti e i respiri, fare il proprio record, seguire i pacer. Come sempre: è il viaggio che conta, non la destinazione.
A Verona eravamo pochi, rispetto alle gare internazionali, ma anche rispetto alle dieci chilometri italiane e anche rispetto alla Roma – Ostia. Il senso di vuoto sarebbe rimasto, malgrado l’organizzazione eccellente. Pochi corridori, ma pochissimo pubblico e nessun suono di musica. C’erano bande, e pubblico, sia ad Amsterdam che a Berlino. Lungo la Roma – Ostia, se non altro, c’era una persona che distribuiva arance e qualcuno lungo la strada. La compagnia dei pacer è stata fondamentale.
A Verona, appena partiti, l’obiettivo non poteva che essere “finire la gara”, anche se finora il massimo che avevo corso erano 32 chilometri e anche se avrei dovuto correre solo 34 km. Però, come si fa a smettere quando sei là?
Tra seguire un tempo e seguire delle persone, ha prevalso la seconda. Anche perché non avevo punti di riferimento precisi, visto che la tabella era impostata per i 34km.
DURANTE LA GARA
Si ha un bel dire “punti di riferimento”. Il Garmin mi segnava 6’10”/km. Cioè andavo troppo velocemente rispetto alla tabella di marcia. Ho iniziato a seguire i pacer delle 4h30′ facendo anche qualche calcolo per sapere che tempo avrei dovuto tenere. Poi ho seguito quelli delle 4h45′ anche per la presenza di un’amica di fb. Erano interessanti le loro conversazioni tecniche e le loro battute divertenti. In quel modo ho anche conosciuto una signora ultramaratoneta che mi ha accompagnato per dieci chilometri. Poi ha cercato un bagno. Dove per “bagno” si devono intendersi luoghi riparati lungo la strada o boschetti nei dintorni.
Dicevo dei punti di riferimento. C’era un certo scollamento tra il mio Garmin e quanto dicevano i pacer, che mi parlavano di ritmi diversi. Alla fine il punto scelto sono stati loro, come detto. La mia relazione complicata col Garmin continua.
STOP
Ricordi immediati dei “durante”? (Ho degli appunti scritti dopo ogni gara, ma adesso vado a memoria).
Mezza di Amterdam ’09. Prima fase: parlo, ascolto e osservo le magliette e i comportamenti degli altri runners. L’andatura è lenta. Sto insieme agli altri del nostro gruppo fiorentino, detto “La Fontanina” per motivi intuibili. Mi restano impresse la felicità nei volti delle persone, le chiacchiere amabili (stiamo andando a sette minuti al chilometro), le scritte sulle magliette, l’ambiente veramente internazionale, la musica delle bande lungo il percorso, il pubblico in molti punti e i bambini che danno il cinque. Al decimo chilometro decido di accelerare, ma esagero. I ponti sul finale della gara mi stroncano e faccio un gioco di sorpassi e contro sorpassi con una ragazza con la tenuta della Gazzetta Run.
Roma – Ostia ’10. Parto all’attacco dell’obiettivo di stare sotto le due ore. Inseguo delle ragazze spagnole, penso alle nuove persone conosciute a cui racconterò della gara, mi cibo di arance da un uomo che le distribuiva a cassettate, ascolto la gente che fa dei commenti solitamente ironici, controllo i tempi, raggiungo una del nostro gruppo che al dodicesimo chilometro mi carica dicendomi: “sembra che tu abbia iniziato adesso”. Alla fine troviamo il vento quasi impossibile, ma in realtà dopo il diciottesimo chilometro ho un calo vertiginoso, anche se non percepito a sensazione (è una fissazione dell’allenamento finire cinquecento metri prima e può darsi che questo si rifletta in gara, anche se vado oltre ma risento della pigrizia del…penultimo chilometro per accelerare all’ultimo). Raggiungo l’ora e cinquantanove e sono contentissimo. Sto benissimo anche psicologicamente e fisicamente.
Mezza di Berlino ’10. C’è pubblico e musica lungo tutto il percorso, che segue tutta la città e il centro, a differenza di Amsterdam. In realtà vado troppo forte e ho come riferimento un obiettivo di tempo e perdo tutto il gusto del resto. Le due ore e un minuto mi distruggeranno psicofisicamente.
Verona ’11.
Ci sono tre livelli da considerare: cosa succedeva, cosa pensavo e quali confronti fare con le gare precedenti.
All’inizio tutto bene. Anche perché andavo comunque piano. Mantenevo i 6’35”, facevo conoscenza con qualcuno (una donna, in particolare: Marisa Pengo, ultramaratoneta), ascoltavo le cose che dicevano i pacer e il modo in cui si prendevano in giro. Alina Losurdo parlava del triathlon, della volontà di seguire l’orologio biologico e sposarsi (tenendo conto degli impegni atletici), della droga maratona.
Frasi storiche che ricordo: “Mi hanno chiesto che tempo faccio. Gli ho risposto: “nuvoloso”.
“Vorrei sposarmi sul traguardo di un Ironman”.
La compagnia di altri runner, conosciuti o meno, è molto utile, specialmente ai ritmi lenti. Poi, forse, iniziando a pensare al tempo e acquisendo esperienza, si perdono questi momenti. Ho già notato cose del genere nelle mezze maratone.
Certo. Non eravamo molti in gara e quindi non c’erano ragazze spagnole da seguire come alla Roma – Ostia, sconosciuti con cui parlare o magliette carine da ricordare come ad Amsterdam e nemmeno tempi da raggiungere come a Berlino.
Per quanto riguarda il pubblico sulla strada, erano rimarchevoli le persone che c’erano (“Benvenuti a Chievo”, ha detto un vecchietto con le cesoie), ma la presenza era sporadica.
I primi venti chilometri sono filati in scioltezza, ascoltando chi era con me e pensando che era giusto stare ad un ritmo lento per evitare problemi. Era previsto che dovessi correre seguendo le impostazioni della tabella, ma una volta deciso di finirla, non potevo.
Da segnalare una volta per tutte l’organizzazione eccellente. Ogni cinque chilometri c’erano acqua, thè, sali, banane e biscotti. Due chilometri e mezzo dopo c’erano gli spugnaggi. Molto buoni anche gli appostamenti lungo le strade.
Nelle altre gare, di solito, mi facevo dei film. Cosa avrei potuto dire o raccontare, in base a quello che vedevo. Stavolta pensavo all’idea di finirla in scioltezza e quindi adottare una tattica adeguata. Il tempo non contava. Speravo nelle 4h30′, ma che differenza faceva chiudere in un tempo più alto una gara che non era previsto che facessi?
Al 20k ho perso i pacer, impegnati in funzioni fisiologiche e ho perso completamente i punti di riferimento. Ho provato ad accelerare un po’, perché così avevo previsto. Sentivo molto bene le gambe, lo stomaco e la testa. Tenevo dietro i pacer delle 4h45′ e questo era comunque buono, mentre sul lungadige ho incrociato Sabrina Tricarico e PiedeLibero Leo. Li ho salutati ed ero contento. Piano piano eravamo sempre di meno e questo non era bello. Il Garmin mi dava indicazioni ballerine. Eravamo ancora a metà gara e avevo varie idee: accelerare un po’, finire bene e quindi tenere il ritmo. Non avevo previsto che avrei rallentato da lì in poi di circa dieci secondi al chilometro ogni cinque chilometri. Il bello è che non me ne sono reso affatto conto fino al 37k, quando ho smesso di guardare il Garmin e ho pensato solo a finire la gara correndo. Avevo accelerato poco prima, ma era il canto del cigno.
Non è stato particolarmente emozionante l’ingresso all’Arena e nemmeno il finale, compiuto sorridendo, certo, ed entusiasta, anche perché non avevo avuto crisi o muri in nessuna parte del corpo.
L’emozione più bella è stata arrivare in Piazza dei Signori: eravamo in città e avevamo lasciato il Lungadige. Inoltre da quel momento ho pensato che avevamo quasi finito. E’ la stessa cosa che mi succede in allenamento (ma mi sarei fermato) e che è successa nelle altre gare (ma si continua).
Ad un certo punto penso che ogni ulteriore risultato vada bene e penso solo a finire. Il problema è che stavolta mancavano otto chilometri.
STOP
DOPO LA GARA
Dopo la gara prima di tutto si ha bisogno dei ristori. A proposito dei quali, c’è da dire che quelli internazionali mi sembrano più risparmiosi. Ad Amsterdam ricordo l’arrivo allo stadio sotto la pioggia e il freddo. Di solito siamo felici. A Berlino ribadisco di non esserlo stato.
A Verona ero contento, ma non avevo al momento nessuno con cui condividere e ormai il pubblico non c’era. Era un po’ una felicità limitata. Certo: essere arrivati era l’obiettivo.
In compenso, a parte i dolori immediati, stavo benissimo fisicamente e soprattutto psicologicamente. Non pensavo di avere voglia di ripartire subito alla grande e nemmeno di essere in grado di farlo già tre giorni dopo.
Ripenso all’inizio. Quando non riuscivo a superare la terza settimana di una tabella. Quando mi fermavo prima del “quarto minuto di corsa”. Quando non facevo un giro di pista intero di corsa. Quando ho iniziato il corso di avviamento alla corsa. Tutti i passaggi che hanno portato dai dieci chilometri ai ventuno e adesso a quei quarantadue che leggevo nella rivista della Firenze Marathon. Invidiavo le persone che l’avevano corsa e ci avevano messo anche sei ore.