Da “Ascesa e declino dell’economia italiana” di Emanuele Felice.
Dal lato delle entrate varie riforme vengono adottate tra il ’72 e il ’74. L’Iva viene evasa in massa stanti gli obblighi di tenuta contabile e la frammentazione del popolo delle partite iva. Le imposte dirette vengono anch’esse evase malgrado l’anagrafe del contribuente. Le entrate fiscali calano nei primi anni della riforma.
“Se dal 1974 la pressione fiscale (il totale delle entrate fiscali in rapporto al reddito) incomincerà a crescere, ebbene lo si dovrà soprattutto alle imposte dirette, il cui gettito avrebbe superato quello delle imposte indirette per la prima volta nel 1979. Nel 1974 la pressione fiscale in Italia era al 25%, inferiore di 3 punti e mezzo alla media Ocse (28,6%); nel 1993 ha raggiunto il 42%, contro una media Ocse del 34% (il sorpasso avviene nel 1982, 33% Italia vs 32% Ocse). Da notare che ancora nel 2011 la situazione è sostanzialmente analoga a quella del 1993 (Italia 43%, Ocse 34%): anche l’elevata pressione fiscale che contraddistingue il nostro paese è un portato dell’ultima fase della Prima Repubblica.”
Il peso della pressione fiscale è aggravato dal fatto di essere iniquo, poiché colpisce chi paga le imposte e non chi evade.
“Ancora più preoccupante, però, è il fatto che un tale incremento non sia bastato a compensare la crescita delle spese. In rapporto al Pil, la spesa pubblica era ancora del 35% nel 1974, al di sotto della media della Comunità Europea (38%): solo nel 1975 sale di 4 punti e mezzo (39,5%) e poi continua a ingrossarsi, con un altro balzo nel 1981 (+4%, toccando il 45,4%); nel 1985 sfiora ormai il 50%; nel 1993, alla fine della Prima Repubblica, ha raggiunto il 55%. A tale data lo sfasamento sulle entrate, cioè il deficit pubblico, è di circa 10 punti (era arrivato a 12 nel 1985). Rispetto al Pil il debito pubblico era aumentato relativamente poco negli anni settanta (fra il 1974 e il 1980, dal 50 al 56%), grazie all’inflazione che riduceva il valore reale dello stock pregresso. Esplode però negli anni ottanta, quando l’aumento dei prezzi tende a frenare: alla fine della Prima Repubblica, fra il 1992 e il 1993, ha ormai superato il valore del Pil. I nuovi dati sulle singole poste confermano che sono lievitate in particolare le spese per interessi, come quota sul Pil dal 5% del 1980 al 9% del 1990, per salire fino al 12% nel 1993 (dato che queste si conteggiano su un capitale sempre più consistente, ma anche perché, come accennato, il rendimento dei titoli italiani deve compensare la svalutazione della divisa nazionale, dovuta a un tasso di inflazione più alto che nel resto del continente). Da notare però che anche le spese al netto
degli interessi sono aumentate, in maniera molto rapida fra il 1980 e il 1985 (dal 36 al 42%) . La prima metà degli anni ottanta rappresenta davvero un quinquennio di spesa incontrollata, e irresponsabile: le tensioni sociali della «stabilizzazione semiconflittuale» vengono placate accontentando tutti, fra gli attori presenti, ma scaricandone il costo sulle generazioni successive.”
“Dietro queste cifre si cela la colpa, e in molti casi anche il dolo, della classe politica: maggioranze parlamentari, governi, governanti che, per dirla con Pierluigi Ciocca, «cercarono solo voti»”
Quali erano le alternative? Ridurre il debito pubblico, innanzitutto. Ancora negli anni Ottanta l’Italia cresceva a ritmi di oltre il 3% di Pil e l’inclusione dell’economia sommersa nell’indicatore la portava a essere la quarta o quinta economia al mondo per valore del reddito nazionale. La prosperità pareva conquistata, così come il benessere e pure una buona dose di equità. Il mondo degli affari era euforico e la società italiana era cambiata nella mentalità e nel costume. Turani scrisse “La Locomotiva Italia.”
Marchi scrisse “non siamo più povera gente.” Il problema è che quella crescita era drogata. “Sappiamo che la crescita di allora era «drogata», oltre che da qualche artificio contabile, dalla svalutazione e dallo stesso debito pubblico. Tuttavia, rimane il fatto che in quelle condizioni manovre di rientro sarebbero state per la nostra economia assai meno gravose, e quindi ben più fattibili, di quanto si sarebbe palesato in futuro.” Nessun governo, da Spadolini a Craxi a Goria ebbe il coraggio di ridurre il debito pubblico e il rientro degli anni Novanta sarebbe stato poi molto più doloroso, dato il diverso contesto.
Oltre che troppa, la spesa pubblica era pure indirizzata male.
“È stato osservato che dal 1975 al 1990 fra le componenti della spesa prevalsero le inefficienze, ovvero l’incremento dei costi unitari; tra il 1965 e il 1975 l’aumento della spesa era invece stato il frutto dell’espansione del welfare, come abbiamo visto (sanità, istruzione, pensioni.
Si perse l’opportunità di creare un welfare universalistico, che garantisse per tutti i cittadini l’accesso al reddito, come era nelle socialdemocrazie del Nord Europa, e si mantenne invece un sistema disorganico, che creava privilegi e ingiustizie ma tutelava meglio il potere negoziale di alcuni gruppi organizzati . Questo welfare frammentato era anche uno strumento di consenso elettorale, sia per quanto riguarda il rapporto fra le organizzazioni intermedie e i partiti, sia anche, su una scala individuale, per il legame che si creava fra elettore ed eletto. Come tale era un portato della politica italiana degli anni cinquanta e sessanta, ne abbiamo accennato , che tuttavia all’inizio del miracolo economico poteva forse essere accettato, stanti il livello di sviluppo ancora in fieri del paese e le eccellenti prospettive di crescita che lasciavano ampi margini di intervento. Raggiunta ormai la dimensione di una grande economia avanzata, il welfare doveva cambiare, superando la collusione fra diritto e favore. Oltre a creare un welfare moderno, una politica lungimirante avrebbe potuto utilizzare una parte della spesa in maniera più produttiva, non solo per sostenere il reddito presente ma anche per aumentare quello futuro: ovvero, per investire. Al di là delle considerazioni sull’efficienza della scuola e sulla meritocrazia nel reclutamento di insegnanti e professori, è un fatto che alla metà degli anni ottanta l’Italia non primeggiasse fra i paesi europei dell’Ocse quanto a spese per istruzione: si collocava, anzi, agli ultimi posti. Nei decenni successivi, il divario
con le altre economie avanzate d’Europa (e con gli Stati Uniti) si sarebbe ulteriormente allargato – per quel che concerne l’ammontare delle risorse destinate, ma anche il loro utilizzo – lasciando disperare sulle possibilità per il Belpaese di riuscire finalmente a colmare il suo storico deficit di capitale umano. Analogo discorso andrebbe fatto per l’ammodernamento infrastrutturale: rimase stentato, specie con riferimento al trasporto terrestre. Soprattutto, andò perduta in quel periodo l’occasione di dotare il Sud (cui pure continuavano a essere erogate ingenti risorse) di un sistema ferroviario e autostradale all’altezza del resto della penisola. Il ritardo nelle ferrovie che nel frattempo si era andato accumulando – dell’Italia in media verso gli altri paesi avanzati – si sarebbe poi ampliato negli anni novanta, per iniziare a ridursi solo in tempi recentissimi con l’avvio dell’Alta velocità, in gran parte nel Centro- Nord . Altri «errori» – nel senso che contrastavano con gli obiettivi che quella stessa classe politica sembrava darsi – si possono ricordare: puntellarono la politica industriale e la gestione delle imprese pubbliche, ormai rigonfie di nomine clientelari e i cui deficit pure gravarono, come abbiamo visto, sul bilancio dello stato; riguardarono le modalità con le quali si procedette al potenziamento dell’apparato amministrativo, e cioè dando vita a una pletora di enti (ad alcuni dei quali né venivano richiesti controlli di efficienza, né sostanzialmente venivano posti limiti di budget) che nell’insieme contribuivano
tutti a rendere più difficoltosa, lunga e inefficiente la burocrazia italiana, anziché a snellirla. Forse per alcuni casi «errore» non è nemmeno il termine adatto. Spesso si ha infatti la fondata impressione che certi esiti furono deliberatamente voluti, frutto di scelte consapevolmente seguite, ben al di là della retorica ufficiale. Sul versante delle entrate, ad esempio, è il caso di notare come un certo lassismo verso l’evasione fiscale riuscisse funzionale alla stessa classe politica, o almeno a una sua parte, allorché dagli anni ottanta si andava facendo via via pervasivo il sistema delle tangenti: per essere pagate, queste avevano bisogno dell’esistenza di fondi in nero nelle disponibilità delle imprese. Analogamente, era nei tortuosi meandri degli iter burocratici e giudiziari, ad esempio per vincere una gara d’appalto, che appariva più facile confondere (di nuovo) il diritto con il favore. Siamo qui alla fase più acuta, e sicuramente degenere, del «compromesso senza riforme»: scarsi beni pubblici da parte del sistema politico – dalle infrastrutture all’istruzione, al sistema amministrativo e giudiziario – compensati da una certa benevolenza nell’applicare la normativa fiscale e del lavoro, la quale permetteva alle imprese di comprimere i costi (e incidentalmente, alla politica di incassare tangenti).