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Lo stupore delle prese elettriche

Un po’ di esternalità

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Da “L’intelligenza del denaro” di Alberto Mingardi.

LE ESTERNALITA’ AMBIENTALI E IL VERO FINE DELLE DECISIONI POLITICHE

Non tutti gli scambi hanno effetto solo sulle persone che scambiano. Si parla di esternalità quando l’attività di uno o più attori economici ha effetti sul benessere di un terzo, che non è coinvolto nello scambio e che non viene compensato per il danno subito o che non ha dovuto pagare per il beneficio ottenuto. In caso di esternalità positive (i vitigni ben ordinati delle Langhe e del Chianti), di rado si levano lamentele. Le esternalità negative suscitano invece comprensibili timori: soprattutto quando riguardano l’ambiente.
L’ansia della generazione presente di produrre e possedere «cose» metterebbe in pericolo l’aria pulita delle generazioni future. Se esaminiamo questi argomenti prendendo come riferimento il mondo intero, la discussione si fa davvero complessa. Un problema che riguarda tutti indiscriminatamente, come il riscaldamento globale, richiede soluzioni condivise – che vengono di norma perseguite attraverso trattati internazionali. Ma le nazioni che inquinano di più tendono a essere quelle dove vi è stata meno innovazione tecnologica: i paesi di più recente industrializzazione. Ammettendo che essi contribuiscano a far aumentare i fattori di rischio, è pur vero che stanno cercando di «raggiungere» un Occidente sviluppato da tempo, e che per giunta ha la coscienza sporca di secoli di sfruttamento coloniale. Se debba avere priorità la possibilità concreta, per milioni di persone, di uscire dalla povertà industrializzandosi, o le preoccupazioni per il futuro del globo, è un dilemma etico che fa tremare i polsi.
Ragioniamo su una scala inferiore: per tutti quei casi in cui c’è «inquinamento in un solo paese». Gli impianti industriali producono esternalità. Per realizzare un qualsiasi manufatto (si tratti dell’artigiano che deve azionare un tornio o di un’azienda meccanica che produce motori in serie), c’è bisogno di energia. La produzione e la trasformazione dell’energia fanno assegnamento, in linea di massima, su dei combustibili. Questi combustibili, lo dice il nome, devono essere bruciati. Bruciando, emettono fumi che si disperdono nell’aria.
Le aziende non inquinano perché vogliono inquinare. L’inquinamento è però la conseguenza, per quanto indesiderata, di una produzione. Per realizzare un certo numero di beni, per i quali esiste domanda, le imprese devono assumere persone e, così facendo, creano occupazione e diffondono ricchezza. Lo stesso lavoro di quelle persone, però, non può avere luogo senza che si abbiano effetti meno desiderabili. In uno scambio, gli interessi di quanti vi sono coinvolti (chi compra verdura, chi vende verdura) coincidono, in un certo momento nel tempo. Ciascuna delle due parti si priva di qualcosa (insalata o denaro) per raggiungere una situazione più soddisfacente. Ma mentre questo avviene possono realizzarsi effetti negativi che colpiscono altri, che non traggono diretto beneficio dalla transazione.
Immaginiamo che, ogni volta che il verduraio consegna al cliente un cestello di pannocchie, ne cada qualche foglia. L’acquirente non ne soffre, perché mangia il mais e non le foglie. Il venditore non perde merce che potrebbe vendere altrimenti. Ma la piazza del mercato, a sera, sarà ingombra di foglie, che infastidiscono la passeggiata serale degli abitanti di quella città. Che si fa? Istintivamente, diremmo che non ci sono che due possibilità. Serve un’ordinanza comunale per proibire agli ambulanti di vendere mais o (più auspicabilmente) per obbligarli a raccogliere le foglie. In alternativa, si può imporre un tributo speciale ai commercianti che partecipano al mercato: con il ricavato il comune si pagherà i costi che deve sostenere per ripulire la piazza. Il premio Nobel Ronald Coase ha sostenuto che le soluzioni più efficaci, per far fronte a questo genere di problemi, non sono necessariamente quelle calate dall’alto. Immaginiamo che nello stesso stabile stiano una lavanderia a gettoni e lo studio di uno psichiatra. La lavanderia a gettoni, per lavorare, deve far funzionare le lavatrici, che – concentrate in gran numero in un piccolo spazio – fanno molto rumore. Lo psichiatra ha bisogno di quiete per ricevere i suoi pazienti e parlarci. Se ragionasse come abbiamo fatto noi per la piazza del paese, lo psichiatra dovrebbe adoperarsi per far dichiarare illegale l’attività della lavanderia a gettoni. Ma questa è una strategia che gli richiede di bussare alla porta del decisore politico e potrebbe anche rivelarsi controproducente: il comune potrebbe decidere che, siccome le lavanderie a gettoni hanno più consumatori degli studi psichiatrici, sono questi ultimi che non devono aprire in loro prossimità. Se il proprietario della lavanderia e il medico riescono a parlarsi, suggerisce Coase, è possibile che si accordino fra di loro. disponibile a pagare il proprietario della lavanderia perché tenga chiuso in certe fasce orarie, oppure affinché faccia installare dei pannelli fonoassorbenti.

Questa idea di Coase è stata formalizzata in un «teorema» da un altro premio Nobel, George Stigler: se i costi di negoziazione e transazione sono nulli, la contrattazione tra agenti economici porterà a soluzioni efficienti da un punto di vista sociale anche in presenza di esternalità e a prescindere da chi detenga inizialmente i diritti legali. Non è detto che la distribuzione delle risorse, e delle responsabilità che la gestione di una risorsa porta con sé, sia «quella giusta» solo perché è la distribuzione che c’è. Coase sostiene che se le transazioni necessarie alla redistribuzione delle risorse non comportano dei costi, il mercato eliminerà spontaneamente una cattiva distribuzione, producendone una nuova, migliore. Perché questo avvenga, bisogna che ci sia certezza su chi possiede che cosa.
Immaginiamo che una discoteca svolga la sua attività dirimpetto a un hotel con spa che propone «trattamenti rilassanti» ai suoi clienti. L’attività del locale per anni langue fino a quando un nuovo gestore riesce a ravvivarla. La musica ad alto volume sino a tarda notte della discoteca Rossi danneggia l’albergo Bianchi, che vede ridursi la clientela che cerca un angolo di relax. Bianchi può pretendere da Rossi di essere compensato per il danno subito. In un paese con un sistema giudiziario efficiente, può rivolgersi a un tribunale per vedersi riconosciuta una compensazione economica, minacciando di bloccare l’attività di Rossi. Ma per Rossi è in tutta evidenza più conveniente accettare di pagare Bianchi per il danno che sopporta, anziché trasferire altrove la sua discoteca o farsi dettare gli orari di apertura da un giudice. Simmetricamente, potrebbe essere più conveniente per Bianchi pagare Rossi a sufficienza da indurlo a spostarsi altrove. Se i due si parlano e negoziano, il problema può risolversi in modo soddisfacente per entrambi.

La piazza invece non è del signor Rossi o del signor Bianchi, ma del comune, quindi, teoricamente, di tutti gli abitanti della città, ma, concretamente, non rientra nelle disponibilità immediate di nessuno di essi. Il problema allora non è di per sé legato all’esistenza di esternalità negative: le esternalità possono essere «internalizzate» quando è chiaro chi possiede che cosa. La vera questione è che, là dove la proprietà è «collettiva», tutti sono proprietari e nessuno è proprietario.
Un altro futuro premio Nobel, James Meade, sostenne che non tutti i casi di esternalità erano risolvibili secondo una logica coasiana. Meade fece l’esempio dell’apicoltura. Le api volano sui fiori di diverse colture e, pertanto, la vicinanza di un appezzamento coltivato con fiori che producono nettare beneficia gli apicoltori nella stessa area. Ma l’agricoltore non ne percepisce i benefici, e quindi ha uno scarso incentivo a seminare colture adatte. Secondo Meade, dal momento che le api non possono essere costrette a rispettare la proprietà o a tener fede ai patti stipulati per via contrattuale, non si potrebbe seguire l’approccio di Coase. È necessario o sussidiare gli agricoltori affinché piantino i fiori «utili» (agli apicoltori), o accettare l’inefficienza di questa distribuzione così com’è. In verità Steven Cheung dimostrò che da anni, e senza che nessun legislatore intervenisse, gli apicoltori e i contadini le cui attività confinavano l’una con l’altra avevano cominciato a stipulare accordi mutuamente vantaggiosi. Quando le colture producevano nettare e non avevano bisogno di essere impollinate, gli apicoltori pagavano gli agricoltori per avere il permesso di sistemare le proprie arnie sui campi di questi ultimi. Quando le colture producevano poco nettare, ma necessitavano di un’impollinazione (che ne accresce la resa), erano gli agricoltori a pagare gli apicoltori. Cheung riscontrò che esisteva una «tradizione del frutteto», senza bisogno di interventi legislativi o di accordi contrattuali. Una regola stratificata nel tempo. Questa convenzione prevedeva che «durante il periodo dell’impollinazione il proprietario di un frutteto vi sistema in proprio le api, oppure noleggia da altri il medesimo numero di arnie presenti nei frutteti vicini. A quanto pare, chi non lo facesse avrebbe la nomea di “cattivo vicino” e sarebbe soggetto alle più diverse noie da parte dei proprietari dei frutteti confinanti»

Là dove è evidente chi subisce le esternalità, allora, non è detto che serva una regolamentazione – o un divieto – per risolvere il problema. Se le persone sono libere di scegliere e libere di farsi scegliere, si sviluppano diversi tentativi di risolvere il problema delle esternalità. Quando l’esperienza in un certo campo è abbondante, è probabile che vi siano buone «regole d’ingaggio» che, con il tempo, sono diventate vere e proprie convenzioni. Le regole assolvono così la loro funzione più genuina: facilitare la convivenza delle persone.
C’è la situazione da teorema di Coase: le parti si accorderanno fra loro, trovando così il modo di quantificare, in una negoziazione, il danno subito da una delle due.
Ma questa non è l’unica strada. Pensiamo allo smaltimento di rifiuti inquinanti. Tendenzialmente, in una società libera e con una pubblica opinione che non ha paura di alzare la voce, un’impresa che producesse rifiuti inquinanti sarebbe considerata un problema. La libera stampa, le associazioni ambientaliste, i blog sono pronti, col fucile spianato, a denunciare un comportamento ritenuto dannoso e riconducibile a un’impresa. Ciò non è privo di conseguenze. Se un’azienda è quotata, una cattiva pubblicità a mezzo stampa potrebbe avere effetti negativi sull’andamento del titolo. A nessuno piace fare affari con gente di cattiva reputazione. Magari fornitori e clienti di un’azienda che inquina da principio non leggeranno con troppa attenzione gli articoli di giornale; tuttavia, è probabile che a un certo punto comincino a essere infastiditi dall’avere a che fare «con quella gente». Sanno bene che la cattiva fama è contagiosa: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. I manager della nostra impresa allegramente inquinante, a quel punto, si troveranno con una bella gatta da pelare. Avranno difficoltà a piazzare i loro prodotti e dovranno compensare l’effetto delle denunce pubbliche con prezzi più bassi. I loro fornitori cominceranno a essere un poco riottosi: magari le loro merci, indispensabili per tenere viva la produzione, cominceranno ad arrivare in ritardo o a costare di più. A un certo punto, gli investitori inizieranno a guardare con preoccupazione alla situazione di un’azienda stretta in una tenaglia fra costi in crescita, ricavi in diminuzione, sit in di protesta. Il fatto che alcune imprese inquinino rappresenta un’opportunità per altre. Per non incorrere in uno scenario di questo tipo, esse saranno disponibili a pagare per strumenti di depurazione o per impianti che producano un inquinamento inferiore. Se la sostenibilità ambientale è avvertita come una questione importante, si crea una domanda. Nascono imprese che proveranno a vendere «sostenibilità»: impianti che consumano meno energia, consulenze per sprecare di meno, sistemi più efficienti di smaltimento rifiuti.
Nel corso dell’ultimo secolo, il progresso tecnologico ha reso meno inquinante l’industria. Abbiamo imparato a costruire automobili che consumano meno e impianti di trasformazione dell’energia sempre più efficienti. L’asta perenne del mercato porta a cercare di migliorare continuamente l’utilizzo che si fa di una certa risorsa. Questo fenomeno, tutto interno al sistema di mercato, ha condotto a un abbassamento generalizzato dei livelli d’inquinamento: si pensi alle emissioni inquinanti da parte delle autovetture, di molto ridottesi negli ultimi anni.
Il decremento delle concentrazioni di polveri totali (di cui I PM10 sono circa l’80-85%) è attribuibile: 1. all’adozione di migliori tecnologie (Dpr 20, 3/88) 2. al trasferimento delle industrie 3. alla riduzione delle emissioni inquinanti primarie (ossidi di zolfo e ossidi di azoto). Il potenziale inquinante delle autovetture è andato costantemente riducendosi e la qualità dell’aria (grazie a diversi fattori, a cominciare dall’evoluzione delle tecniche di produzione industriale) costantemente migliorando.

Che cosa accade, invece, se facciamo assegnamento sulle decisioni politiche? Da una parte, è il modo in cui funziona la politica a rendere più facile scaricare i costi di alcune
azioni su terzi incolpevoli.
Se volete, l’attività politica è precisamente scaricare i costi di alcune azioni su terzi incolpevoli. In democrazia, il decisore vuole ottenere e consolidare consenso per essere eletto e rimanere al suo posto. Si spera che egli faccia l’interesse «generale», ma porsi il problema dell’interesse generale non è una strategia saggia per venire eletto. È molto più efficace farsi interprete di alcuni interessi «particolari», che possono mobilitare gruppi più piccoli, ma coesi e capaci di marciare compatti a vantaggio dell’elezione di Tizio o di Caio. Il buon tattico politico sa che il 20% è fatto di venti 1% della popolazione. La moneta con cui il politico ripaga il consenso sono per l’appunto decisioni (nuove norme, nuovi sussidi) che vanno a diretto vantaggio di un gruppo particolare. La politica genera continuamente «esternalità», alle quali la libera negoziazione fra le parti non può trovare compensazione.

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