Il giorno del rientro è quello della nostalgia. Chissà se ci tornerò presto, penso. Mi tornano in mente tutti i luoghi visitati. Faccio il tour della città in traghetto. Passo dal Sunday market a brick lane e vedo in Cheshire street dei ragazzi che ballano in una casa con la finestra aperta. Chiedo il permesso di fare una foto al ragazzo e alla ragazza che sono seduti praticamente sul balconcino della casa. Penso a cosa avrei potuto fare o dire di più, alle persone che avrei potuto conoscere o approcciare, al fatto che ho dormito non più di sei ore a notte. Vedo giornali con ottomila pagine e inserti.
Riesco a fare un giro per le chiese della City e a sfruttare la messa per entrare gratis nella Saint Paul Cathedral. Vedo anche dei gentlemen con ombrello e cravatta, da stereotipo inglese dell’Ottocento.
Assisto all’apertura domenicale dei negozi nelle vie come Oxford Street e Bond Street che da deserte iniziano ad animarsi per poi diventare in seguito quelle della calca disumana.
Faccio gli ultimi giri in centro, le ultime foto, saluto quelli dell’albergo, vado a Liverpool Street e da lì a Stansted dove ci sarà battaglia tra gli addetti all’imbarco su Ryanair (all’epoca molto rigidi) e alcuni passeggeri con troppi bagagli. Una persona aveva una specie di stampa fotografica gigante e non so come abbia fatto a imbarcare o se stessa o la stampa o ambedue.
Io mi limito a comprare l’enciclopedia di Londra, un librone gigantesco che ancora (dieci anni dopo) mi devo gustare per bene.