“Infermiera, guardi! Mio figlio ha il diabete e sul piatto sopra il comodino ha due arance e un panino col salame. Le pare normale?”, urlava Riccardo, un uomo alto e magro, la cui giacca elegante svolazzava allo stesso ritmo delle mani che stavano gesticolando nella stanza dell’ospedale dove era ricoverato suo padre Livio.
“Signore, si calmi. Non penso che noi abbiamo portato qualcosa nelle camere senza autorizzazione. Vado ad informarmi dai colleghi.” Rispose l’infermiera.
“Ecco, brava!” Riccardo si rivolse poi direttamente all’uomo sdraiato sul lettino, cui era stata affidata una stanza senza nessun altro paziente.
“Babbo, svegliati! Chi te le ha messe codeste cose costì sopra?”
“O cosa c’è? Lasciatemi dormire che in questo letto si sta bene. Che cose? Ah, quelle. Le ho prese in casa, ché qui poi non mi daranno nulla da mangiare.”
“ Ma come? Tu non devi andare contro i voleri del medico. Se non stai attento, va a finire che tu muori,” si arrabbiò Riccardo.
“Infatti sono morti tutti prima di me. Io sono freschissimo.”
“Vuoi l’elenco? Hai la sindrome di Charcot, il diabete e l’insufficienza respiratoria. Ti hanno anche amputato un dito di un piede, che è andato in necrosi per la tua incuria.”
“Ma a questa età devo sempre rendere conto a qualcuno?”. La conversazione fu interrotta dall’arrivo di un medico, che visitò Livio.
“Chi l’ha ridotta così? Mi faccia il nome dei medici che a sessant’anni hanno lasciato che si riducesse così”.
Riccardo intervenne: “E’ stato lui a ridursi così. Gli dicono di mangiare in un certo modo e se ne sbatte. Gli dicono di fare movimento e sta fermo. Gli dicono di riposare e si muove.”
“Sentite!” Riprese il medico dopo aver completato la visita: “quest’uomo deve essere operato al cuore. La prossima settimana”.
La notizia sorprese tutti. I parenti più stretti iniziarono ad andare a trovarlo tutti i giorni. Suo nipote, Emanuele, volle che il nonno gli raccontasse la storia della sua vita, a partire dal dito mozzato a causa di un taglio di legna sbagliato. Questi lo accontentò, raccontandogli della vita misera che dovevano condurre nei primi anni della sua vita, cioè gli anni Trenta, e poi durante la Seconda Guerra Mondiale. Gli parlò, con salti di tempo e di spazio, della casa nella campagna casentinese in cui anche Emanuele andava ogni tanto a mangiare, del fatto che col fascismo lui stava bene, della prima volta in cui andò allo stadio a vedere la Fiorentina, dei primi soldi fatti tagliando legna, del lavoro da carbonaio, delle alzatacce, di come era diventato il miglior cercatore di funghi del Casentino, dei suoi monti, di quando fu deportato in Romagna dai Tedeschi e liberato dagli Americani, dei suoi fratelli, della vita di un tempo e della vita di quando anche il paese era diventato ricco, dei balli, degli svaghi. Descrisse pezzi di vita vissuta con la moglie, morta di infarto all’età di quarantadue anni, e infine si dedicò a descrivere le figlie, mentre non fece una parola di Riccardo. Una figlia aveva passato anni all’università senza laurearsi mai a causa di un matrimonio anticipato. L’altra aveva commesso una gran quantità di magagne da adolescente: tornava tardi la sera, portava ragazzetti fidanzati in casa, lavoricchiava in qua e là, poi mise la testa a posto tutta insieme.
Il racconto finì quando Livio disse che comunque bisogna mantenere sempre un po’ di ironia nella vita.
Suo nipote, che aveva dieci anni, rimase affascinato dalla storia
Durante quella settimana si rifecero vivi dei parenti di cui si erano perse le tracce, come capita per le cerimonie e le occasioni importanti. Come la notizia si fosse sparsa anche in Australia non è dato saperlo. Da dove riemersero certe persone neppure.
Nelle ore dell’operazione la tensione era palpabile, per usare un aggettivo da cronaca calcistica. Durò quattordici ore, al termine delle quali erano rimasti solo Riccardo, sua moglie Giorgia e suo figlio.
Questi uscirono un attimo a prendere un po’ d’aria e un caffè e quando tornarono ebbero quasi un colpo. Nella camera non c’era più nessuno. Erano le due di notte ed era difficile trovare qualcuno. Non c’erano biglietti o post it lasciati dal medico. Tutto taceva dentro l’ospedale, come se se ne fossero andati anche gli infermieri e i medici di guardia. In compenso il letto era stato chiuso. Il terrore si dipinse sui loro volti, per usare un linguaggio da cronaca nera. Riccardo era esterrefatto. Sua moglie aveva iniziato a piangere e con lei il figlio.
Non vollero sentire nessuno e decisero di tornare a casa.
Nessuno di loro dormì, quella notte. Il giorno dopo andarono di mattina presto all’ospedale e chiesero del medico. Gli fu detto che sarebbe arrivato dopo un’ora. Non riuscirono a cavare altre informazioni. Iniziarono a tornare dei parenti e alcuni già parlavano di questioni ereditarie, ma la maggior parte se ne stava in silenzio. Alcuni cominciarono a litigare su chi aveva avuto più importanza per lui o su chi aveva fatto di più o chi era stato più vicino.
Il medico arrivò sorridendo, mentre babbo, figlio e moglie erano impietriti e adesso anche un po’ sorpresi. Aprì la porta dietro la sala d’attesa dove erano loro e ciò che videro li stupì, ma li rese felici.
“Nonno!”, urlò il bambino. Intanto il medico firmò un foglio e si mise a parlare con Riccardo e Giorgia fuori dalla porta.
“Vieni! Ma cosa credevate? Ho sentito tutto, sai. Sarà bene che faccia testamento. Mi divertirò un monte”, disse il nonno facendo l’occhiolino al nipote mentre il medico stava spiegando cosa era successo. Era stato semplicemente trasferito, come facevano sempre coi pazienti le cui operazioni sono perfettamente riuscite. Certo: cinque by pass gli avevano messo e adesso avrebbe dovuto tenere un comportamento molto rigoroso, però poteva già tornare a casa entro tre giorni.
Prima di andarsene dall’ospedale, rimasto finalmente solo con suo figlio, Livio gli disse: “Ma sai una cosa? Secondo me mica mi hanno fatto nulla. Fanno tutte queste scene solo per prendere quattrini.” Al che Riccardo esplose in una risata.
Per festeggiare la sua uscita lo portarono nel suo ristorante preferito dove mangiò una quantità industriale di antipasti, due primi e un po’ di pesce. Bevve anche del vino. Si sentiva veramente bene e faceva dei discorsi lucidissimi che rincuorarono tutta la famiglia. “Senti, Riccardo, vuoi un po’ del mio pesce che è avanzato?,” disse quando ormai erano a fine pasto.
Il giorno dopo ci fu il funerale di Riccardo, soffocato da una lisca di pesce.