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Lo stupore delle prese elettriche

Maria Canins. Vittorie come schiaffi contro la gente rinunciataria.

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Sono Maria Canins. Sono nata nel 1949 a La Villa di Val Badia, in provincia di Bolzano. Un paesino di 800 anime dove per le donne tutto è sempre stato dovere. Dovere vivere, dovere sposare, dovere mettere al mondo figli. Quando andavo a scuola, facevo sci, da discesista. Assunta come domestica in un albergo, ho smesso. Non potevo rischiare di perdere il lavoro perché mi ero slogata una caviglia sciando. Ho riscoperto lo sport il giorno in cui ho sposato un azzurro dello sci di fondo, Bruno Monaldi. Allora la passione è tornata fuori grandissima, intatta. Avevo intanto messo al mondo Concetta, nel 1978. Lei è una brava studentessa universitaria, ma fatiche come le mie preferisce evitarle. La federazione di ciclismo mi mandava a chiamare, ogni anno, negli anni Ottanta: per la maglia di campionessa del mondo, per il Giro e per il Tour. Anche per le Olimpiadi. Prima, però, anche nel mio Paese e in tutto l’ambiente sportivo, le donne che facevano sport, soprattutto di fondo non erano viste di buon occhio. Comunque. Dicono che io sia una scheggia di donna, ma se fossi una scheggia forse sarei anche più scattante e potrei vincere le volate. Invece non ho mai vinto i mondiali, pure conquistando le mie belle medaglie, perché non sono dotata dello scatto vincente. Sono sempre stata sui cinquantadue chilogrammi e ho avuto una resistenza alla sofferenza, alla fatica senza limiti. La bicicletta inizialmente era solo una macchina di allenamento estivo per lo sci. Fino al 1982 ho fatto soltanto sci di fondo, poi ho trasferito nelle corse le mie arrampicate e le mie progressioni in pianura.

Io correvo perchè mi piaceva. Io stavo bene quando facevo fatica. M’ impegnavo più in allenamento che in corsa. Nei primi anni Ottanta tifavo per Moser, prima per Gimondi. Anche se Gimondi ha detto che le donne devono stare a casa a fare la calza, mica andare in giro a correre. Se lui la pensa così, è un discorso che vale per sua moglie e le sue figlie. Non mi riguarda. Certo che in Italia, con la mentalità che c’era a quei tempi, era dura. Tante ragazze smettevano di correre perchè non sopportavano le prese in giro. Più andavi all’ estero, più t’ accorgevi della differenza. Da noi si guardava alla donna-atleta come a un meccanismo fragile, si alleggerivano i percorsi, le distanze, così le gare sapevano di poco, anche come spettacolo. In Norvegia ho fatto tappe di 100 km. e in Colorado la salita del Grand Canyon era uguale per tutti, uomini e donne. Già. Il Colorado. Ricordo la vittoria del Giro del Colorado nel 1986. Ricordo anche la bellezza di quelle montagne, di quei paesaggi. E’ un posto in cui mi sarebbe piaciuto vivere. Un po’ nel mezzo del nulla, in solitario, con mio marito e mia figlia. Fu in un albergo che mi misi a pulire un tavolo da coriandoli e pezzi di carta, anche se avevo una mano fratturata: nessuno dei camerieri lo stava facendo e ci voleva così poco. Nella vita, le cose bisogna farle.
Mi chiamavano “la bestia.” Per forza. Correvo e vincevo gare di fatica e di resistenza. E’ il massimo dei complimenti per chi fa sport di fondo, essere definiti ed essere davvero “una bestia.” Non sono mai andata al villaggio olimpico. Non andavo alle feste durante il periodo delle Olimpiadi. Ho sempre fatto quel che avevo voglia di fare. Un giornalista, a Seul, mi ha chiesto se mio marito fosse presente a sostenerla e io gli ho risposto: “Che viene a fare se a sostenermi basto da sola?”
Nella vita, conviene fare quello che si ha voglia di fare. Io o mi alleno o gareggio o cucino. Noi ladini siamo così.”
Mia madre dice che le mie sorelle avevano paura di fare e io no? Mah. Lei dice anche che io riesco in qualsiasi cosa e pensa che io sia fortunata per questo. Secondo me io ho solo voglia di fare le cose: non mi va di stare a poltrire e se uno si sforza, va a finire che gli riesce fare le cose per bene. Una volta una giornalista è venuta da me a intervistarmi, era il 1986, e avevo vinto per la seconda volta il Tour de France. Mia madre l’ha rimproverata perché mi stava tenendo troppo occupata. Io dovevo cucinare e poi dare una mano a riparare il tetto.

Dopo i tour vinti, tutti rimpiangevano il fatto che non avessi iniziato prima ad andare in bicicletta, ma io no. Prima avevo altre cose da fare. Invece molti vivono con la carta d’ identità in testa e ti giudicano solo per quelle date.
Tutti romanzavano la mia vita, la facevano più bella di quel che era stata. Io invece la fatica non l’ ho mai idealizzata, dico solo che a me piace la campagna. E se fossi giovane non andrei in fabbrica, farei la contadina. La fabbrica rovina la salute. Quando uno fa otto ore attaccato ad una macchina per forza diventa nervoso. Io credo che noi sportivi siamo tutti un po’ matti o forse nasciamo tutti matti e qualcuno di noi poi ci resta. Quando ho rivisto le immagini del Tour, coi corridori che arrampicavano con la faccia storpiata dallo sforzo e la gente che applaudiva ai bordi della strada, mi sono detta: “Dio, perchè tutto questo? Perchè questo masochismo e questo sadismo di chi guarda?” Non lo so, non c’ è risposta. Forse facciamo questo per inventarci una vita diversa. Io in Dio ci credo, credo che dopo ci sia qualcosa, altrimenti la vita sarebbe scialba, senza scopo.
Però credo soprattutto nella solitudine.
Per me sono già troppi ottocento abitanti. Io avrei voluto fuggire con mio marito e mia figlia in un posto dove non c’ era nessuno. Le feste non mi piacciono. Avrei evitato anche i festeggiamenti seguiti ai successi nel ciclismo.
Mi dicono che sono egoista, soprattutto con me stessa. Ma non so essere diversa e non ho il tempo per farne un dramma. Se ho qualche minuto libero leggo. Libri? No, enciclopedie geografiche o sulla natura. Ho studiato fino alle medie, poi non ho più potuto, per questo mi è restata la voglia di guardarmi attorno. Il Puy de dome ad esempio me l’ aspettavo calvo, invece c’ è molto verde. In Francia la campagna è molto lavorata, me ne sono accorta dalla bicicletta. Ogni tanto con la Longo parlavo pure, ma in tedesco. Non è che siamo amiche, ma compagne di strada sì, c’ è anche il fatto che se si è in confidenza poi una magari si lascia andare a qualche gesto di bontà. Magari ti chiedono di farle vincere, per questo è meglio non essere tanto intime. Una via di mezzo dovrebbe esserci, ma io non l’ ho mai trovata. Quando facevo la camieriera e mi chiedevano qualche ora aggiuntiva io ero ben contenta di farla. Guadagnavo di più: era poco, ma era di più. E così nelle tappe. Se invece che arrivare sedicesima posso rubare una posizione lo faccio. Anche se mi costa fatica. Le altre invece mi rimproverano: “Ma cosa te ne frega. Lascia stare e risparmiati per domani.” E’ una mentalità che non mi piace. A migliorarmi ci ho sempre tenuto, in qualsiasi campo. Il giorno in cui mi accorgo di fare numero scappo. O meglio, mi metto a correre solo per me, per divertimento. Il fatto è che io con i miei successi dimostro che vale sempre la pena di tentare e questo la gente che ogni giorno rinuncia non lo sopporta. E’ uno schiaffo alla loro indifferenza”.
Cosa ho vinto? Potete guardare gli almanacchi.
Nel ciclismo ho esordito a trentatré anni. Ho vinto il Tour nel 1985 e nel 1986 e poi sono arrivata seconda nei tre anni successivi. Che poi nel 1987 il percorso era adatto a me, ma non sempre si può vincere. Comunque ho vinto anche il Giro d’Italia nel 1988 e ci tengo a dirlo. Sognavo il giro al femminile: il ciclismo delle donne che si faceva adulto. Nel 1990, al giro, sono arrivata seconda.
Ho già detto che non ho vinto i mondiali e neppure le Olimpiadi. Nel 1988, per dire, la strada era troppo facile. Comunque ho pur sempre conquistato un oro a squadre nella 50km sempre quell’anno lì e poi l’anno successivo ho preso l’argento, come già avevo fatto nel 1982 e nel 1985. Nel 1983 invece mi lasciarono di bronzo, le mie avversarie. Le altre vittorie nel ciclismo? Due giri di Norvegia, un giro del Colorado, quattro giri dell’Adriatico, sei campionati italiani in linea, quattro campionati italiani a cronometro.
Nella prima metà degli anni Novanta mi sono trasferita dal ciclismo su strada alla mountain bike e ho due titoli mondiali veterani nel 1991 e nel 1993, prima di chiudere col ciclismo agonistico nel 1995.

Nel 1988, dopo la delusione di Seul e la sconfitta al Tour dicevano che fossi in declino. Provino loro a vincere la Marcialonga per la decima volta consecutiva. Perché, ricordiamo che non avevo mica smesso di fare un po’ di sci di fondo. Nel 1985 sono stata la prima italiana a vincere la Vasaloppet. Una volta che mi sono ritirata dall’attività agonistica ho conquistato venti titoli mondiali veterani.

Perché ho smesso? E’ semplice. Non mi divertivo più.
Alla fine succede di stancarsi. Quello che prima era un piacere diventa un dovere. Stai attenta alle critiche a cui magari prima non facevi neanche caso, al fatto che devi vincere perché la gente aspetta questo. Non hai tempo di goderti una gara che devi pensare ad un altra. I chilometri su chilometri fatti, anche in auto per andare agli allenamenti, diventano pesanti.
Anche girare il mondo, vedere paesi nuovi era motivante i primi tempi. Ricordo quel Tour che vinsi nell’ 85: una cosa straordinaria. Tutto era bello e indimenticabile: Hinault accanto a me, quella splendida cronometro che arrivava proprio sotto la cattedrale di Reims, Parigi, i Campi Elisi… La gente, tanta gente. E chi l’ aveva mai vista Parigi? Ma dopo due-tre stagioni sei sempre lì, in giro negli stessi posti. In corsa non vedi nulla.

A un certo punto se sei contenta di scoprire che c’ è dell’ altro, devi dire basta. A quel punto ho ricominciato a usare la bici come mezzo di allenamento e di relax. Le gare si erano fatte più dure, con più pretendenti anche, e questo mi faceva piacere, mi stimolava, ma il fatto di dover pensare a quanto distacco avevo, a chi fosse davanti, a tante strategie di gara, mi era venuto a noia. Poi ci fu quella storia della squalifica perché non potevo usare le bici di Moser. Comunque ho fatto sempre di testa mia e se lo ritenevo giusto, riuscivano anche a farmi firmare degli appelli, come quello sulla Palestina ai Giochi.
C’era anche chi mi accusava di egoismo. “Quella lì vuole sempre vincere, dicevano voci di carovana prima, chiedeva aiuto come l’ anno scorso per vincere la coppa Adriatica, poi si dimentica. Fanno bene le italiane a farle la guerra.” Io, dal canto mio, se potevo prendermi una cosa la prendevo e non vedo cosa ci sia di male. Se faccio fatica per creare un distacco per avvantaggiarmi, per vincere, non vedo perché dovrei lasciare le soddisfazioni agli altri. E’ la legge del ciclismo.

Jeannie Longo, la mia rivale? La stimo molto. Quando mi sono infortunata a una clavicola in Colorado, mi ha tirato su dicendomi, “ma sì Maria che ce la fai, corriamo ancora!”. Questo ricordo umano è la cosa che mi colpisce di più perché si lotta, si corre, quando una va male c’è questa “cattiveria” che arrangia tutte e invece la Jeannie ha mostrato il viso umano dello sport. Però, non ho brutti ricordi anche quando vinceva lei, ero contenta.

Certo che è buffo. Chi avrebbe pensato che avrei avuto una figlia che preferisce evitare le fatiche e che avrei perfino raccontato la mia storia in tv?

Sì, certo. Ho detto poche cose sul fondo. Ho vinto tanto anche lì. Alla fine degli anni Settanta mi batté la Basso. La federazione non mi volle mandare alle Olimpiadi invernali di Sarajevo e questa è la mia più grande delusione, anche perché quell’anno vinsi i campionati nazionali in tre specialità. Leggete qua come è andata tutta la storia e se vi va potete scoprire altri aneddoti curiosi.

Un’ultima cosa. Lo sapete che potete venire a fare una gita in montagna e passare una giornata in bici con me?

 

 

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