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Lo stupore delle prese elettriche

Perché no al protezionismo e al mercantilismo e sì alla globalizzazione e all’immigrazione.

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Da “L’intelligenza del denaro” di A.Mingardi.

“il commercio privo di barriere combacia perfettamente con la pace. Elevate tariffe doganali, barriere agli scambi e una concorrenza economica sleale sfumano nella guerra. Pur rendendomi conto dell’esistenza di numerosi altri fattori, giunsi alla conclusione che, se fossimo riusciti a ottenere un flusso di scambi più libero – intendendo con «più libero» un flusso contraddistinto da minori discriminazioni e ostacoli –, in modo che nessun paese provasse un insanabile risentimento per gli altri e il livello di vita di tutti i paesi potesse crescere, eliminando in tal modo quel malcontento economico che alimenta la guerra, avremmo avuto una ragionevole possibilità di instaurare una pace durevole,” diceva robert Hull.
Gli accordi di libero commercio non portano necessariamente a dei successi costanti. La ricchezza delle nazioni non si sviluppa costantemente e allo stesso modo per ttutti. Incidono variabili interne, comprese quelle politiche, ed esterne, compreso il protezionismo altrui.
Fatto sta che la povertà globale è diminuita, come evidenziano i dati della Banca Mondiale.
La riduzione dei costi di transazione ha connesso luoghi, persone e imprese a distanza prima inimmaginabili, consentendo loro di scambiare e di creare opportunità per gli uni e per gli altri.
“La vita economica è cooperazione a distanza tra estranei: più si accorciano le distanze, più sono gli estranei con cui entriamo a contatto e da cui possiamo trarre opportunità.” C’è chi ritiene però che la maggiore ricchezza per tutti si avrebbe a spese di un qualche noi.

LO SQUILIBRIO NON E’ IL MALE.

Una persona che fa tutto da sola è più povera di una che ha reddito sufficiente per acquistare le cose di prima necessità all’esterno. Basta pensare alla differenza di vita tra noi e i nostri nonni. Io posso specializzarmi in una cosa e comprare altro da chi è specializzato nel fare meglio le altre cose.Anche chi tiene tutti i soldi in un deposito in casa avrà delle esigenze: mangiare, vestirsi ecc.e la ricchezza non è data da quanto denaro ha in sé ma da quani beni e servizi ha a disposizione o può acquistare.
Lo stesso vale per uno Stato. Uno Stato che fa tutto da sé, che è autarchico, è più povero di uno che si apre agli scambi. Se ha la possibilità di importare merci non è necessariamente più povero un paese importatore netto di uno esportatore netto. Ciò che è sempre in pareggio invece, non è né deve essere la bilancia commerciale, ma è la bilancia dei pagamenti.
Se un Paese è esportatore netto e quindi vende più di quanto acquista, sarà anche un paese che riceve più soldi (o crediti) di quanti ne spenda e quindi è un creditore netto. Avrà un deflusso di merci e un afflusso di attività finanziarie. Il contrario accadrà per un importatore/debitore netto, ma nessuna delle due posizioni è di per sé peggiore dell’altra. I creditori sono prestatori netti e i debitori sono coloro che prendono a prestito. Le esportazioni sono il costo delle importazioni: il reddito che noi usiamo per pagare quei beni e servizi che vogliamo acquistare e che possiamo preferire che siano di provenienza estera.
E’ il fatto che ci sia chi vuole spendere più di quanto guadagna che fa sì che chi risparmia possa mettere a frutto i propri risparmi. Gli squilibri non sono di per sé un male, anzi.
I protezionisti non colgono il fatto che gli squilibri sono inevitabili perché le persone hanno bisogni, preferenze, desideri diversi. Solo al cimitero saremo tutti livellati.
Comprando un ipad la bilancia dei pagamenti americana ha un deficit dato dai componenti del’ipad prodotti non negli Stati Uniti, ma questo non vuol dire che l’azienda America non se ne sia avvantaggiata. Quando fanno uno scambio, sia il venditore che il compratore lo fanno perché pensano di trarne vantaggio (salvi sempre i possibili errori.) Lo scambio viene fatto perché può essere benefico per ambedue le parti: non per ripristinare un qualche equilibrio.
La bilancia commerciale è la somma di decisioni individuali e ogni commercio porta a benefici per le parti coinvolte, anche se i vantaggi non sono uguali per le due parti, ma restano vantaggi.

PROTEZIONISMO
I protezionisti cercano o di aumentare le esportazioni o di limtare le importazioni.
Aumentare le esportazioni è difficile perché non puoi imporre al mondo di comprare i tuoi prodotti. Puoi portare sedi diplomatiche all’estero, puoi mirare a sussidi ad hoc, puoi conquistare un paese con la guerra oppure puoi esportare di più ricorrendo a soluzioni di mercato.
Limitare le importazioni è più facile.
Puoi mettere una tassa sui prodotti importati, così da aumentarne il costo (e il consumatore può trovare più conveniente il prodotto interno, trascurando il fatto che lo stesso prodotto o addirittura uno di maggiore qualità potrebbe trovarsi sul mercato a prezzi più bassi e questo garantirebbe anche la possibilità di usare il reddito disponibile in più come più aggrada al consumatore.)
Puoi limitare le quantità di beni importati attraverso delle quote. Di solito questo crea mercato nero e contrattacchi protezionistici: se tu limiti le importazioni di pannelli solari cinesi, la Cina può limitare le tue esportazioni nel suo paese di mozzarelle o di vino o di macchinari industriali, per esempio. Inoltre se limiti le importazioni, i cittadini di quei paesi che non possono più vendere i loro prodotti a te non potranno nemmeno avere i soldi che tu gli avresti dato per comprare i tuoi prodotti e quindi favorire le tue esportazioni. Ognun per sé, abbiamo visto, non è efficiente, e rende tutti più poveri. Lo scambio delle rispettive specializzazioni è vantaggioso per tutti. Lo scambio incentiva la cooperazione. Le protezioni incentivano le guerre.

A fine Ottocento Mc Kinley alzò i dazi sulle merci che arrivavano alla dogana (il modo più semplice per avere entrate fiscali) ma questo fece sì che i commercianti americani si sentirono legittimati ad alzare i propri prezzi su tutto, dato che non c’erano che loro come scelte possibili. I dazi erano una tassa sulle necessità di vita.
Spirali protezioniste hanno fatto da prodromo alle due guerre mondiali. L’aumento dei dazi del presidente Hoover nel 1930 ha aggravato la depressione del 1929. Tutti gli Stati iniziarono una gara a chi era più autarchico e protezionista.

Vae il teorema della simmetria di Lerner: un dazio sulle importazioni equivale di fatto a una tassa sulle esportazioni. Tassare le merci in entrata equivale a tassare le merci in uscita. Se produciamo cravatte e occhiali, ma soffriamo della concorrenza estera in cravatte e invece esportiamo a volontà gli occhiali, cosa succede limitando le importazioni di cravatte? Che il loro prezzo potrà essere tenuto più alto e la produzione di cravatte diventerà remunerativa. I fattori di produzione si muoveranno verso di essa e il produttore di occhiali dovrà pagare di più i fattori per tenerli a sé. Quindi il costo degli occhiali aumenterà, e con esso il prezzo, facendo sì che le esportazioni si ridurranno. Non possiamo sapere cosa succederà alla fine e non è importante saperlo: il fatto è che non esiste un prodotto che sia “preferibile” produrre qua anziché là e viceversa.
Ammettiamo comunque che sia possibile fare tutto in casa: sarebbe anche conveniente? Probabilmente no. Come dice Adam Smith forse è possibile produrre il vino in Scozia, magari in serra, di qualità analoga a quella dei vini del Mediterraneo, ma a un costo superiore di trenta volte quello che si sosterrebbe con l’importazione. Quindi non è conveniente e ricordiamo che se anche volessimo sostenere quel costo, avremmo una riduzione di reddito disponibile per altro e quindi una minore disponibilità totale di beni e servizi. In altre parole avremmo una povertà maggiore, con l’autosufficienza.
Contingentare le importazioni non fa altro che aumentare la scarsità di un bene. Teniamo anche presente che è raro che tutta la filiera di produzione avvenga in un solo Paese. Per produrre una matita si parte da materie prime, lavoratori, macchinari, processi produttivi vari che non avvengono o non si trovano in un solo Paese. Tutto questo non è stabilito dall’alto e tutto questo sistema di scambi forma il mercato, che porta naturalmente alla cooperazione tra gli attori coinvolti, poiché ciascuno ha da guadagnare se la sua fase nel processo non viene interrotta perché l’attore che dovrebbe svolgere la fase precedente o quella successiva non può partecipare allo scambio a seguito di misure protezionistiche o qualcuno degli attori è costretto a sostenere costi più alti.
Le componenti di un prodotto, anche quelle immateriali e ideative, sono il risultato di una catena di scambi che avviene tra più paesi. Limitare una di queste transazioni significa comunque scaricarne il prezzo sul consumatore.

LE BARRIERE
Se la divisione del lavoro funziona tanto meglio quanto più il mercato è esteso e interconnesso, le barriere servono a impiegare più lavoro di quanto sia necessario per comprare la merce gravata dalla barriera. Quindi, con la protezione, i compratori devono spendere di più di quanto farebbero in assenza di dazi o protezioni. Per tale motivo avranno meno reddito disponibile che avrebbero altrimenti potuto utilizzare per acquistare altro, per risparmiare, per investire, per aprire attività, per soddisfare altri desideri, per creare o cogliere opportunità.
Col protezionismo non utilizziamo, a livello di paese, i nostri vantaggi comparati. Continuiamo a produrre prodotti in cui altri hanno un costo opportunità inferiore e quindi non ci concentriamo in quei settori nei quali l’impiego delle risorse sarebbe migliore. Cioè in quelle produzioni in cui abbiamo vantaggi rispetto ad altri paesi. Riduciamo così sia le importazioni che le esportazioni, abbiamo meno reddito a disposizione, sprechiamo le risorse, spendiamo di più.
I politici, allora, e le associazioni di produttori, perché chiedono più protezioni e tutele? Ovviamente per comprare consenso e ottenere privilegi e rendite. C’è chi campa sulle protezioni. Le frontiere aperte creano opportunità di entrate. Prendiamo gli immigrati: potrebbero fare concorrenza ai produttori. Un’accurata gestione dei flussi, magari lasciando aperto qualche varco, invece può dare il potere di gestire le quantità e i prezzi, e quindi il commercio, ai produttori. Il dazio sposta la ricchezza dai consumatori ai produttori.
Però, se i consumatori sono più dei produttori, perché il potere politico dovrebbe favorire questi ultimi? Per il potere di decidere il gioco economico. Il decisore politico può alzare i prezzi con le tariffe o può tenerli bassi artificialmente coi sussidi alla domanda, ma in ogni caso, in questo modo, impedisce che sia il gioco di mercato e in particolare sia la massa dei consumatori a determinare i vincitori e i perdenti del gioco economico.
Il protezionismo rafforza il potere di pochi ai danni dei molti ed è per questo che è inviso a chi ha a cuore la libertà individuale.
Le imprese riescono a ottenere protezioni perché presentano alcuni benefici e nasconodono i costi. Tra i beneficiari affermano che vi siano gli occupati nel settore protetto. In effetti tutelano i lavoratori attuali delle imprese attuali, i quali portano voti attuali.
Il politico può vantarsi in giro di avere difeso l’occupazione. Il problema è che se difende l’occupazione dei padri e soprattutto se difende posti di lavoro inefficienti che riducono le opportunità di crescita, il politico sta uccidendo le possibilità di occupazione dei figli.
Un Paese che si protegge dalla concorrenza estera finisce per perdere opportunità di crescita.
Ora è vero che come massa i consumatori sono più dei produttori, ma è difficile che l’acquisto di un singolo bene, anche se a prezzo maggiorato, incida sul reddito in modo tale da creare il bisogno di fondare un comitato di consumatori di quel bene che interagisca coi politici.
Un guaio ulteriore è che le barriere chiudono chi sta fuori ma imprigionano anche chi sta dentro.
Le imprese protette non percepiscono segnali di debolezza e non usano la protezione per migliorarsi, anche perché non ne sentono la necessità, finché succede qualcosa per cui i prezzi reali vengono percepiti o cadono le barriere. Va a finire che la debolezza intrinseca del settore inizierà a far chiudere le imprese, comprese quelle dell’indotto, e a far perdere posti di lavoro.
Tali posti erano ritenuti sicuri una volta, ma non perché le aziende andavano bene, bensì perché erano protette dalla concorrenza: i lavoratori dell’indotto Fiat hanno perso a suo tempo la libertà di farsi scegliere, cosa che non sarebbe accaduta se ci fossero state in Italia anche delle fabbriche Nissan o Toyota, per esempio. Sotto lo stimolo della competizione quelle aziende avrebbero potuto agire in tempo, cercando di essere sempre più competitive, acquistando know how, tecnologia, puntando sulla ricerca, migliorando i prodotti e i processi e così via.
Scegliere di non competere significa rinunciare a imparare. Inoltre come si può pensare di andare a conquistare mercati esteri quando abbiamo chiuso il nostro?
La Fiat è un esempio emblematico. Ai tempi del boom aveva circa il 90% del mercato italiano, mentre le imprese degli altri Stati europei godevano di quote non superiori al 40% nei rispettivi paesi. Una volta aperto il mercato unico, l’Italia ha mantenuto chiuse le barriere contro le auto giapponesi, che poi hanno fatto un sol boccone della quota di mercato della Fiat, una volta entrate. A rimetterci sono stati anche tutti quei consumatori che per anni hanno dovuto subire prezzi alti e prodotti di qualità scadente.
Una volta messi in condizione di poter scegliere, gli italiani lo hanno fatto, cominciando a scegliere auto di marche diverse. A quel punto, con Marchionne e Morchio, i primi due manager non orientati alla politica, la Fiat ha iniziato a depoliticizzarsi e a cercare di agire in modo concorrenziale.

IL LIBERO COMMERCIO AIUTA I POVERI
Il protezionismo danneggia i lavoratori alla lunga, ma al politico interessa conquistare consenso elettorale immediato.
Chi si lamenta della concorrenza sleale ha paura della concorrenza.
I negoziati per le liberalizzazioni sono più soggetti a fallimento di quelli che cercano di regolare e tutelare l’esistente mettendo barriere.
I paesi poveri, nella vulgata comune, farebbero concorrenza sleale a quelli ricchi.
Negare a qualcuno di fare concorrenza (produttori cinesi, lavoratori vietnamiti, ingegneri indiani, immigrati senegalesi) equivale a negargli la libertà di farsi scegliere e di migliorare la propria condizione di vita. E’ una forma dichiarata di razzismo e in sostanza significa volere che chi è povero resti tale e chi vuole migliorare la propria condizione di vita non deve poterlo fare se mina la nostra.
I paesi più ricchi sono sempre stati quelli che hanno commerciato di più.
I paesi poveri sono stati spesso chiusi ai commerci. Hanno minori ricchezze e quindi ricavano poco dalla tassazione. Hanno meno diritti, istituzioni meno forti. Queste cose possono svilupparsi, ma non nascono in un giorno.
I paesi più moderni hanno anche macchinari più moderni, hanno partecipato più intensamente agli scambi e sono più produttivi.

Se il prezzo dei fattori di produzione fosse lo stesso nei paesi poveri e in quelli ricchi perché le persone che stanno nei paesi ricchi dovrebbero comprare beni prodotti nei paesi poveri?
Se non fossero le persone che stanno nei paesi ricchi a comprare tali prodotti, a chi potrebbero venderli gli abitanti dei paesi poveri? Dovrebbero rassegnarsi a una vita di stenti?

Col tempo cambiano le scoperte e le tecnologie. Cambia il modo in cui si fanno le cose. Cambiano anche i vantaggi comparati. Chi è più bravo oggi a fare lamiere potrebbe non esserlo più domani. La divisione del lavoro a livello internazionale dipende da come milioni di individui percepiscono il proprio costo opportunità.
Anche la storia cambia, e le valutazioni sull’opportunità di svolgere un certo mestiere.
Grazie all’innovazione oggi tanti lavori richiedono meno tempo, meno fatica e producono di più rispetto a qualche decennio fa. In quei decenni un sedicenne che ogi può andare in vacanza studio a Londra sarebbe stato più probabilmente a lavorare nei campi e la scuola forse non l’avrebbe mai vista.

I paesi in via di sviluppo hanno attratto investimenti stranieri anche grazie ai costi più bassi. Gli investimenti portano sviluppo. La povertà estrema e quella moderata si sono drasticamente ridotte. Vivere con due dollari o con 1,25 dollari al giorno fa la differenza in molti Paesi. Il tasso di povertà estrema (persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno) nei paesi in via di sviluppo è passato dal 50% al 25% tra il 1980 e il 2005. Il tasso di povertà moderata (persone che vivono con meno di due dollari al giorno) è passato dal 69% al 47%.)

Nei Paesi poveri la ricchezza è poca e c’è poco da redistribuire. Prendere allora soldi agli altri attraverso gli aiuti allo sviluppo è efficace? C’è chi ne dubita.

Il maggior donatore di aiuti sono comunque gli Stati Uniti, l’economia più forte del mondo che quindi può permettersi anche di concedere aiuti.

Il governo e le istituzioni dei paesi in cui un’impresa può scegliere di investire sono fondamentali per la loro crescita. Come sono tutelati la proprietà e i creditori? Lo Stato fa rispettare le leggi o interviene direttamente?
Quando si parla di sfruttamento coloniale si ha a che fare sempre con monopoli legali in cui per poter fare impresa è più importante conoscere, rendere amico, pagare il governatore o lo statale che autorizzerà l’impresa a lavorare.
Un paese che protegge i produttori locali non troverà imprese estere disposte a investire là e dato che solitamente queste sono più innovative, con più know how, più ricche, quel paese rinuncia all’opportunità di crescere.
Gli “amici degli amici” politicanti e più o meno corruttibili sono local. Non global. E sono loro a fare la vera concorrenza sleale. Altro che tutela della produzione locale.
Libertà economica, esistenza di regole certe e non discrezionali e sempre rispettate, e non derogabili ogni volta, esistenza e tutela dei diritti di proprietà sono fondamentali affinché sia possibile investire in un paese e generare ricchezza.
Molti paesi africani, che sono più corrotti di quelli asiatici, hanno avuto uno sviluppo inferiore (se non un regresso.) I paesi che si sono sviluppati di più, come l’Uganda, sono quelli che si sono più aperti agli scambi. Non sono le materie che si scambiano, ma anche le persone e le idee: anche i commercianti o gli imprenditori africani possono imparare da quelli europei e americani o australiani e da questo scambio possono nascere vantaggi per tutti.

FAIR TRADE
Il superamento delle barriere permette una maggiore cooperazione a distanza tra estranei e un migliore coordinamento di decisioni e di preferenze di produttori e consumatori su larga scala. Individui e imprese si specializzano, anche territorialmente in ciò che sanno fare meglio e trovano opportunità di scambio vantaggiose reciprocamente. Dal primo mondo arrivano nel terzo mondo nuove tecnologie, nuopvi modi di produzione che permettono aumenti di produttività e acquisizione di informazioni che possono essere poi usate localmente. Tutto ciò fa crescere quei paesi che possono iniziare a cercare di colmare il gap con quelli avanzati.

Il problema è che gli aggiustamenti non sono immediati e ci sono dei costi di transizione più o meno lunghi. Alla fine del processo la somma algebrica avrà dato un successo, ma nel frattempo ci saranno vincitori e vinti. Le politiche più protettive, peraltro, sono quelle che rendono più difficile l’adattamento.

In Occidente si pone la questione dell’outsourcing. Le imprese spostano la produzione dove è più conveniente (anche per i consumatori occidentali è comunque più conveniente comprare a prezzi più bassi.) I lavoratori di quelle imprese ci rimettono il posto. Lo stesso vale per i lavori soggetti ad automazione. I posti di lavoro medi si riducono, mentre crescono quelli qualificati e quelli non fattibili da macchine, ma che sono remunerati meno.
Per fronteggiare questa situazione si può incidere sugli aspetti della qualificazione professionale, sull’istruzione, sulla riduzione o la modifica di elementi istituzionali che comportano costi elevati (la tassazione, lo Stato sociale.)

Nei paesi in via di sviluppo si pone il problema delle condizioni di lavoro dei lavoratori a basso costo e di quelle ambientali. Si sostiene che tali condizioni dovrebbero essere equiparate a quelle occidentali, ma questa visione è comunque eurocentrica. Il lavoro minorile, lo sfruttamento intenso della manodopera, lo stesso inquinamento, erano molto maggiori un tempo in Occidente, tanto maggiori quanto maggiore era il livello di povertà. Ciò che è buono per noi oggi non è detto che sia buono per i lavoratori vietnamiti o cinesi oggi (a proposito: qualcuno ha chiesto il loro parere?) Non è detto nemmeno che fosse buono per noi un tempo. E’ proprio la crescita che potrà portare quelle persone a chiedere diritti, quegli Stati a concederli, tutti a migliorare le proprie condizioni di vita anche nel senso di maggiore tempo libero, minore sfruttamento, maggiore rispetto dell’ambiente. Anche questi processi richiedono tempo, comunque. Che fare nel frattempo?
Una soluzione (sbagliata) è quella di chiedere agli altri, cioè ai governi, di fare qualcosa, attraverso misure antidumping verso i paesi nei quali non è proibito il lavoro infantile o attraverso sussidi allo sviluppo.

Un’altra è darsi da fare attivamente, modificando aspettative e preferenze di consumo, desideri e bisogni propri e altrui, sensibilizzando le persone, creando un nuovo mercato, come avviene col microcredito e col fair trade. Ci sono persone che hanno sviluppato reti di relazioni tra produttori in paesi in via di sviluppo (che così possono imparare che esistono diritti e possono far circolare la voce, peraltro) e consumatori occidentali. Per questi prodotti esiste un commercio. Il prezzo più alto pagato ai produttori comporta un prezzo più alto pagato dai consumatori occidentali. Il tutto è mercato puro. Non viene imposto un prezzo dall’alto, ritenuto giusto, ma esistono degli intermediari che pagano dei produttori un prezzo e rivendono ad altri a un altro prezzo. Esistono produttori e consumatori che scelgono di far parte di questo mercato. Si pone un problema se vogliamo far pagare quei prezzi ai più poveri, sia tra gli occidentali che nei paesi in via di sviluppo.
La soluzione finale resta la riduzione della povertà, quindi la crescita, che passa anche dalla maggiore disponibilità di beni e servizi, quindi dal loro minore (e non maggiore) prezzo.

Nel lungo andare, più i paesi poveri si arricchiranno, meno la loro economia dipenderà dal prezzo del caffè o delle banane. Più ancora del fair trade è importante lo sviluppo tecnologico. La stessa tecnologia, riducendo i costi di trasporto e le distanze, ha reso possibile il fair trade, accelerando gli scambi e incrementandoli. Il fair trade è un successo della globalizzazione. Più ancora del fair trade sarebbe importante eliminare le barriere protezionistiche, compresi gli immondi sussidi all’agricoltura dei paesi ricchi. Ridurre i sussidi e liberalizzare gli scambi consentirebbe ai produttori dei paesi poveri di vendere a un maggior numero di consumatori potenziali.

Il caso di Alì e Isaac, che piantano ananas in Ghana. Grazie a internet sanno qual è il prezzo dell’ananas sui mercati mondiali e non sono alla mercé di qualche compratore magari monopsonista, quando vendono i loro prodotti: sono loro a decidere il prezzo di offerta. (O almeno possono incidere sulla contrattazione più di quanto facessero prima.) Grazie ai maggiori guadagni oggi loro hanno visto crescere la piantagione e il loro tenore di vita. Per gli artigiani sta accadendo qualcosa di simile attraverso Ebay.
Da Nokia, Samsung, Ebay, Google stanno arrivando gli aiuti alla povertà grazie alla riduzione di asimmetrie informative. Senza che vi fossero obiettivi predeterminati dal cielo governativo.

NESSUNA PATRIA
Hume diceva che scambiando si impara. Nell’elogio dello scambio scriveva che la Gran Bretagna aveva arti e manifatture più povere un tempo e se si è evoluta è stato anche grazie all’imitazione delle tecniche e delle innovazioni dei vicini.
La possibilità di commerciare a distanza senza che nessuno ti intralci la strada è una prerogativa delle libertà individuali, diceva Constant.
Il commercio avvicina i popoli: fa pensare che esistano un noi e un loro fatto esclusivamente di persone. Fa ridurre le ostilità.
Uno Stato protezionista è uno Stato che pone un noi in contrapposizione a un loro. E’ uno Stato arrogante, uno Stato nazionalista, uno Stato che sceglie vincitori e vinti e decide chi tutelare e chi no, è uno Stato pronto a sfruttare le risorse altrui, pronto a depredare, pronto a uccidere, pronto a scatenare guerre.
Nella storia mercantilismo, protezionismo, colonialismo e saccheggi sono andati di pari passo.
Il mercato internazionale è una grandissima possibilità per garantire la massima cooperazione possibile, volontaria e pacifica.

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