Iniziamo con alcune considerazioni sul conto della formazione del capitale, seguendo Salvatore Rossi in “Politica Economica Italiana.”
Se i finanziamenti eccedono gli investimenti, lo Stato deve prendere a prestito il risparmio altrui. Se lo usa per investimenti, questi possono avere un ritorno. Se li consuma in spese correnti, tende a distruggere risparmio privato, che poteva essere impiegato in modo più produttivo.
La distinzione reale tra spese correnti e a lungo termine non è sempre chiara. I sussidi alle imprese vanno a aiutare i loro investimenti. Le spese in conto capitale degli enti pubblici finiscono a finanziare spese correnti ecc.
Il risparmio è la parte non consumata del reddito disponibile (al netto delle tasse.) Può essere destinato a investimenti o a spese correnti.
Gli investimenti vengono finanziati con risparmio nazionale o estero. Se il risparmio nazionale eccede gli investimenti, la parte eccedente viene prestata ad altre economie nazionali.
In Italia dal ’71 in poi le spese correnti hanno ecceduto molto spesso le entrate correnti. La propensione al risparmio dei cittadini cresceva, negli anni settanta, ma non si traduceva in più investimenti pubblici, rimasti costanti (25% del pil.) Lo Stato prendeva il risparmio altrui per sostenere gli investimenti (che possono avere un ritorno, ma è una situazione squilibrata, se protratta nel tempo), ma ne ha preso poco per quel fine, come abbiamo visto. La maggior parte del risparmio prelevato è stata usata dallo Stato per sostenere le proprie spese correnti. In sostanza lo Stato ha prelevato per almeno venti anni del risparmio privato per finanziare il suo disavanzo. Quindi ha distrutto risparmi privati che avrebbero potuto essere impiegati in modo più efficiente e produttivo. Tra il ’76 e l’80 viene bruciato risparmio in misura tra il 5 e il 6 per cento del reddito.
Negli anni ottanta la situazione diventa drammatica. Crolla il rapporto tra risparmio privato e pil (26%) e la quota di risparmio distrutta arriva al 7%. Il tasso di investimenti sul reddito scende al 21%. Il soccorso arriva dall’estero. Ci sono più importazioni che esportazioni e quindi dal punto di vista finanziario l’indebitamento nei confronti del resto del mondo cresce. Questi fenomeni si affievoliranno dopo il ’92, anche se continuerà la riduzione degli investimenti. I risparmi andranno a ripagare i debiti esteri, quindi finiranno all’estero.
Negli anni Ottanta gli italiani iniziano a risparmiare meno, anche perché lo Stato concede provvidenze a fondo perduto, garantendo pensioni, sanità, sussidi ottenuti prendendo a prestito soldi dai cittadini e pagandoli cari sotto forma di interessi. Questi soldi sono presi e distolti da investimenti produttivi. Una volta che gli italiani smettono di concedere prestito, lo Stato prende soldi da investitori esteri. Così, oltre al debito pubblico, cresce anche l’indebitamento verso l’estero.
Il debito pubblico è il debito accumulato della pubblica amministrazione italiana verso soggetti privati e pubblici, italiani e stranieri. Cresce di venti punti di pil tra l’86 e il ’92.
Il debito verso l’estero è l’accumulo di debito del complesso di soggetti privati e pubblici residenti verso soggetti esteri. Cresce di undici punti nello stesso periodo.
Si ha il fenomeno dei debiti gemelli, sperimentato anche durante la prima amministrazione Reagan negli Stati Uniti, ma ricordiamo che il dollaro era una moneta di riserva internazionale e il credito e la fiducia di cui godevano gli Usa era tutta un’altra storia.
I debiti gemelli nascono da alti tassi di interesse a tasso di cambio forte (si modifica la competitività di prezzo dei prodotti nazionali, crescono le importazioni, crescono i disavanzi commerciali, compensati da indebitamento verso l’estero nella bilancia dei pagamenti.)
I due debiti sono in buona parte in valuta nazionale e si autoalimentano. Per pagare interessi si crea altro debito e così via.
I governi Craxi Fanfani Andreotti Goria De Mita annunciano ogni volta piani per la ristrutturazione del disavanzo che finiscono in fuffa, oltre a essere incoerenti, disarticolati, irrealistici. Automaticamente la fiducia degli investitori verso l’Italia e i suoi piani di risanamento crolla.
Tra l’86 e il ’92 ci sarebbe la possibilità di dare una sterzata alla politica economica, comunque, poiché l’inflazione è diminuita, il pil è positivo, i prezzi dei prodotti energetici sono crollati.
Il fatto è che tasso d’interesse e di cambio alti erano il frutto di politiche monetarie volte a sradicare l’inflazione, sia in italia che negli Usa. Essi dovrebbero fungere da vincoli per la politica di bilancio. I governi inclini a risolvere i conflitti politici di interessi con le illusioni del debito e dell’inflazione non se ne curano finché è troppo tardi.
L’inflazione si riduce fino al 5% circa, ma scenderà al 2% solo nel ’96. Negli altri Paesi l’inflazione calerà con più rapidità e facilità. Anche la Germania, dopo la riunificazione, porterà l’inflazione sotto il due per cento tre anni dopo.
Perché in Italia esiste questo zoccolo duro di inflazione?
Non per la politica monetaria. Il tasso di cambio si apprezza. L’ampiezza delle oscillazioni con le altre valute non supera il 2,25% come previsto dallo Sme. La funzione disinflazionistica della politica monetaria funziona.
Guardiamo invece la dinamica salariale.
I salari aumentano del’8% annuo contro il 6% di inflazione.
Il costo del lavoro (contributi compresi) per unità di prodotto (si tiene quindi conto della produttività) aumenta del 7% annuo.
Le imprese riducono i margini di profitto, che nel 1988 erano giunti a un massimo storico, ma i prezzi interni aumentano comunque in modo significativo e diminuisce la competitività internazionale. Negli altri Paesi i costi del lavoro crescono di meno.
Il funzionamento dei mercati rappresenta un’altra, grossa, criticità.
Nei servizi vendibili (esclusi quelli pubblici) la pressione salariale è analogamente forte e la produttività è più bassa e cresce lentamente. Un po’ per caratteri propri: la quantità di prodotto per unità di tempo di un direttore d’orchestra o di un neurochirurgo non può aumentare a piacimento. Però ci sono forti inefficienze nel mercato dei servizi e dei prodotti: protezioni, rendite di posizione, mancata liberalizzazione della distribuzione commerciale, assenza di concorrenza internazionale per ragioni tecnologiche e storiche, regolamentazioni protettive, limitata concorrenza interna, barriere all’entrata, favoritismo dei poteri pubblici verso chi è già sul mercato, procedure autorizzative, albi professionali, concessioni, licenze. Lo Stato italiano è gestore anziché regolatore. Il mercato e la concorrenza non hanno la possibilità di svilupparsi e far sviluppare i loro effetti benefici.
Il difetto di concorrenza conduce a bassa produttività e prezzi alti.
Infine i servizi pubblici sono carenti.
La pubblica amministrazione invade attività tipicamente private come l’industria dei beni di consumo.
Lo statalismo dei venti anni dal ’70 in poi ha comunque le sue origini già fin dall’unità d’Italia. Lo Stato italiano è sempre stato interventista. L’intervento dello Stato nell’economia è esteso, profondo, sbagliato nelle forme e negli obiettivi. Ingombra di sé terreni da cui dovrebbe stare lontano. Latita laddove sarebbe doveroso.
Andrebbero rilette a tal proposito le Prediche Inutili di Einaudi.
Nel’92 legge di tutela della concorrenza, privatizzazioni, legge antitrust. Restano applicazioni lente, restrizioni, errori. Non vengono toccati i mercati del lavoro e dei diritti di proprietà e controllo delle imprese. Soprattutto la cultura di mercato sembra essere una brezza di vento ma non è radicata e cambiare la mentalità statalista non è facile.
Mercato finanziario.
La borsa resta un gioco per pochi, sostanzialmente arretrato e che ha anche fermato il processo di privatizzazione.
La borsa dovrebbe essere il luogo in cui si incontrano soggetti che hanno risparmi da investire o capacità imprenditoriali da mettere all’opera con imprese che hanno bisogno di fondi per allargare la base produttiva o di forze fresche per irrobustire la compagine proprietaria.
In Italia i risparmiatori sono di solito avversi al rischio e preferiscono cautelarsi coi risparmi garantiti da intermediari (depositi bancari) o stato (titoli pubblici.)
Gli imprenditori non vogliono perdere il controllo delle imprese e si parano il culo con patti parasociali. Preferiscono ricevere soldi da banche o stato che non possono scalare le loro aziende. Inoltre gli imprenditori non vogliono aprire i libri contabili all’esterno, fisco compreso.
Chi ha talenti o idee imprenditoriali viene tenuto lontano dalle imprese già costituite e costretto ad ssoggettarsi a procedure di cooptazione o ad affrontare le alte barriere che si frappongono alla creazione di nuove imprese (barriere amministrative, posizioni dominanti ecc.)
Il mercato dei movimenti di capitale viene liberalizzato: gli investitori possono effettuare investimenti telematici, in titoli italiani o esteri, anche in derivati. La deregolamentazione porta flussi di capitali in entrata anziché in uscita, come paventavano i gufi.
Il sistema bancario. Scompare la distinzione tra banche di credito ordinario (prestiti a breve alle imprese) e istituti speciali (credito a medio lungo termine.)
Aumenta il grado di concorrenza, sotto la supervisione e l’impegno della Banca d’Italia. Viene liberalizzata l’apertura e chiusura degli sportelli. Vengono favoriti accorpamenti tra istituti. Vengono ammesse nuove banche.Sono sanzionati i comportamenti lesivi della concorrenza.
Vengono intaccate le incrostazioni garantiste basate sul concetto di stabilità del sistema che ha consentito il lassismo degli amministratori nella selezione dei clienti meritevoli di credito oltre a fenomeni di malaffare. Forse non molto, ma il grado di concorrenza si alza, le banche più inefficienti sono costrette a riorganizzarsi e a ridurre i costi, in particolare quello del lavoro, che non ha uguali in Europa.
Ciò che procede lentamente e senza grandi risultati è la fine della proprietà pubblica, che incontra forti resistenze, soprattutto nelle casse di risparmio.
La lentezza con cui procedono le privatizzazioni delle banche è indice di quanto siano salde e ramificate le connessioni tra politica locale, società (sindacati, fondazioni) e banca, vista non come impresa, ma come distributrice di rendite
Nel’92 si cerca di rimediare attravero delle leggi, ma l’eccesso di leggi è un altro problema e la mentalità è più difficile da cambiare. Viene promulgata la legge di tutela della concorrenza, vengono fatte in fretta e furia alcune privatizzazioni, viene promulgata legge antitrust. Restano applicazioni lente, restrizioni, errori. Non vengono toccati i mercati del lavoro e dei diritti di proprietà e controllo delle imprese. Soprattutto la cultura di mercato sembra essere una brezza di vento ma non è radicata e cambiare la mentalità statalista non è facile.
Mercato finanziario.
La borsa resta un gioco per pochi, sostanzialmente arretrato e che ha anche fermato il processo di privatizzazione.
La borsa dovrebbe essere il luogo in cui si incontrano soggetti che hanno risparmi da investire o capacità imprenditoriali da mettere all’opera con imprese che hanno bisogno di fondi per allargare la base produttiva o di forze fresche per irrobustire la compagine proprietaria.
In Italia i risparmiatori sono di solito avversi al rischio e preferiscono cautelarsi coi risparmi garantiti da intermediari (depositi bancari) o stato (titoli pubblici.)
Gli imprenditori non vogliono perdere il controllo delle imprese e si parano il culo con patti parasociali. Preferiscono ricevere soldi da banche o stato che non possono scalare le loro aziende. Inoltre gli imprenditori non vogliono aprire i libri contabili all’esterno, fisco compreso.
Chi ha talenti o idee imprenditoriali viene tenuto lontano dalle imprese già costituite e costretto ad ssoggettarsi a procedure di cooptazione o ad affrontare le alte barriere che si frappongono alla creazione di nuove imprese (barriere amministrative, posizioni dominanti ecc.)
Il mercato dei movimenti di capitale viene liberalizzato: gli investitori possono effettuare investimenti telematici, in titoli italiani o esteri, anche in derivati. La deregolamentazione porta flussi di capitali in entrata anziché in uscita, come paventavano i gufi.
Il sistema bancario. Scompare la distinzione tra banche di credito ordinario (prestiti a breve alle imprese) e istituti speciali (credito a medio lungo termine.)
Aumenta il grado di concorrenza, sotto la supervisione e l’impegno della Banca d’Italia. Viene liberalizzata l’apertura e chiusura degli sportelli. Vengono favoriti accorpamenti tra istituti. Vengono ammesse nuove banche.Sono sanzionati i comportamenti lesivi della concorrenza.
Vengono intaccate le incrostazioni garantiste basate sul concetto di stabilità del sistema che ha consentito il lassismo degli amministratori nella selezione dei clienti meritevoli di credito oltre a fenomeni di malaffare. Forse non molto, ma il grado di concorrenza si alza, le banche più inefficienti sono costrette a riorganizzarsi e a ridurre i costi, in particolare quello del lavoro, che non ha uguali in Europa.
Ciò che procede lentamente e senza grandi risultati è la fine della proprietà pubblica, che incontra forti resistenze, soprattutto nelle casse di risparmio.
La lentezza con cui procedono le privatizzazioni delle banche è indice di quanto siano salde e ramificate le connessioni tra politica locale, società (sindacati, fondazioni) e banca, vista non come impresa, ma come distributrice di rendite