there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

Si fa presto a dire welfare. Seconda parte.

http://www.educatt.it/collegi/archivio/20073Cittadini.pdf
Il welfare state sarebbe in teoria «un sistema tendente
a garantire come diritti politici dei cittadini standard minimi delle
componenti fondamentali del benessere (reddito, alimentazione, salute,
educazione, abitazione)», con il suo obiettivo di accudire i cittadini dalla
culla alla tomba. Si può dire che nasca a fine Ottocento in Gran Bretagna e in Germania e che si sviluppi compiutamente nel secondo dopoguerra.
In accordo con la teoria keynesiana i governi si convinsero che si doveva guidare l’economia verso l’obiettivo della piena occupazione. “La spesa sociale poteva obbedire a scopi economici
come l’aumento della produzione, gli investimenti e una stabile politica
fiscale”.
La politica sociale cessò di essere vista come
un atto di largesse da parte dei «migliori». Divenne, poi, convinzione generale
che le politiche sociali erano utili per tutti e non soltanto per la classe
operaia o per un gruppo speciale di poveri «meritevoli». Questa fase ha
concretamente prodotto la graduale integrazione di idee e politiche precedentemente
sparse in un’affermazione positiva del potere dei governi
democratici come managers sociali”.
Solo con la stagflazione degli anni Settanta, la public choice theory e le critiche a Keynes avanzate da Hayek, Friedman e poi Lucas e i Chicago Boys ci si renderà conto dei costi dell’welfare state, della creazione di classi di burocrati, delle discriminazioni tra avvantaggiati e svantaggiati, dei debiti lasciati sulle generazioni future (che quindi non hanno potuto votare i provvedimenti in favore dei loro genitori e contro se stessi). Ci si renderà conto che i politici e gli elettori perseguono i rispettivi interessi e questi possono contrastare con il benessere generale. Ci si renderà conto che i manager sociali non sono delle persone illuminate in grado di prevedere gli eventi futuri e le azioni degli agenti economici per governare l’economia. Ci si renderà conto che agire su una variabile economica può portare a modificare le aspettative e può generare delle conseguenze inattese. Ci si renderà conto quindi che l’obiettivo di piena occupazione non è realistico né auspicabile e che l’intervento dello Stato in economia è più dannoso o inutile che vantaggioso. La spesa pubblica può spiazzare gli investimenti privati, può essere fonte di sprechi e inefficienze, può essere destinata a dare uno stipendio a un burocrate anziché ad assistere una persona realmente bisognosa. Alti livelli di tassazione minano la capacità di investimento e innovazione (o i rispettivi incentivi) del sistema togliendo risorse alle imprese e alle persone. Finché esistono livelli di crescita economica robusti e la popolazione è in larga parte giovane e produttiva, l’welfare state è sostenibile. Con la globalizzazione, l’invecchiamento della popolazione, la riduzione della crescita nei paesi occidentali, una sua ridefinizione si è resa necessaria.

Come rileva Cittadini, “si è verificata una separazione netta: la politica
economica doveva occuparsi di accrescere la produzione, la politica sociale
doveva tenere il passo e occuparsi di ridistribuire tale produzione in
modo da compensare quanti rimanevano indietro.
Di qui la crescente
importanza assunta dai programmi di trasferimento del reddito. Questa
strada è stata politicamente facile, ma pericolosa, perché l’adozione delle
varie politiche era giustificata in base alla loro presunta capacità di risolvere
i problemi sociali piuttosto che in base alla loro rispondenza a certi
valori e, poiché nessuno era in grado di garantire tali soluzioni, pochi
gruppi hanno avuto difficoltà nel mostrare che i propri problemi non
venivano risolti”.
In ogni caso non esiste un unico welfare state. “Ciò che poi si è chiamato
«welfare state» è stato, politicamente, un amalgama di idee e interessi
straordinariamente disparati: il liberalismo «da crociata», con la sua fiducia
nelle possibilità dell’avanzamento sociale, nel progresso umano e
nell’individualismo laico; il conservatorismo tradizionale, con la sua enfasi
paternalistica sulla necessità di salvaguardare le istituzioni e l’ordine sociale
contro il mutamento radicale; il socialismo, con la sua fede nella benevolenza
del potere statale rispetto alle responsabilità sociali”.

Commentiamo un attimo i modelli di welfare state, rimandando per le spiegazioni ai link.
Classificazione di Titmuss.
Modello residuale: l’ente pubblico aiuta chi è rimasto escluso dalla soddisfazione dei bisogni essenziali e versa in stato di necessità. Lo considero corretto, ma occorre anche incentivare il bisognoso a rifarsi una vita e attenzione ad evitare il fenomeno dei falsi bisognosi. Il bisognoso, per la cronaca, non è il dipendente pubblico inamovibile.

Modello meritocratico redistributivo: a leggere Cittadini sembra che lo Stato mini l’efficienza del mercato cercando di dare un lavoro a tutti, fissando gli stipendi e determinando l’ingiustizia dell’egualitarismo e una pioggia di discriminazioni tra garantiti e non garantiti. Negli scritti di altri autori ci si riferisce a un modello di tipo assicurativo in cui lo Stato interviene completando le garanzie assicurate dal mercato. Chi non ha un lavoro rischia di finire in povertà e il sistema non è teso ad aiutare chi non ha un lavoro.

Modello istituzionale redistributivo: l’obiettivo è bello, la libertà dal bisogno. Gli interventi sono garantiti a tutti i cittadini, in modo da evitare discriminazioni. La definizione del bisogno deve essere il tallone di Achille. Per non parlare dei costi. Se non altro l’idea è di una copertura universale di certi bisogni. Per i libertari tali protezioni possono essere assicurati da istituti privati in concorrenza tra loro e questo vale anche per Inps, Inail e simili.

Esping Andersen classifica l’welfare state pensando che la dipendenza dal mercato sia una cosa cattiva, mentre la dipendenza dal politico sia una cosa buona. Comunque…

Modello liberale anglosassone: l’welfare serve a garantire il rientro nel mercato di chi ha perso l’autosufficienza. Direi perfetto.

Modello conservatore corporativo bismarckiano paternalistico e organicista. Le classi medie sono incluse ma l’obiettivo è mantenere il sistema gerarchico esistente per impedire lotte di classe. Viene tutelato il capofamiglia. Se viene meno il lavoro a lui la famiglia piomba nel dramma. Viene scoraggiata la partecipazione al mercato del lavoro. Lo Stato fornisce delle forme di assicurazione pubblica. Le persone dipendono dal sostegno della famiglia. Il welfare non contrasta le disuguaglianze di genere e di classe.

Modello socialdemocratico scandinavo: sostegno universale a tutti i cittadini, su un piano di sostanziale parità e con piena inclusione delle classi medie.

Classificazione di Ferrera.
Welfare universalistico: la solidarietà abbraccia l’intera popolazione. Attraverso le tasse si redistribuiscono i redditi a chi guadagna di più a chi guadagna di meno. Il problema è il disincentivo a “darsi da fare per guadagnare di più”. Vedo con favore la protezione universalistica e non limitata a gruppi ristretti, a prescindere dal problema dei costi e delle coperture.

Welfare occupazionale. Ci sono tante corporazioni, tante categorie di lavoratori. All’interno della corporazione chi è giovane contribuisce a sostenere gli anziani, chi è occupato a sostenere i disoccupati. Questo, almeno in teoria. È probabile che chi è dentro è dentro e chi è fuori resta fuori. Si creano compartimenti stagni tra gruppi di interesse particolari e vince (cioè prende più soldi) chi ottiene la protezione dei politici per calcolo elettorale.

Il sud Europa ha delle caratteristiche sue, che peggiorano i difetti dell’welfare occupazionale.
Seguendo Ferrera:
“Regolazione del mercato del lavoro fortemente
dualistica (dipendenti pubblici e lavoratori delle grandi
imprese molto protetti, tutte le altre categorie di
lavoratori poco o per nulla protette).
2. Centralità del ruolo della famiglia e della rete di
solidarietà parentale per l’intero arco della vita (la
famiglia forte mediterranea).
3. Servizio sanitario nazionale universalistico.
4. Elevato particolarismo e basso grado di statualità
(assunzione di responsabilità diretta da parte delle
istituzioni dello Stato e indipendenza e autonomia dalle
istituzioni politiche e sociali).

In Italia ci sono due distorsioni in più: quella funzionale e quella distributiva. Innanzitutto la composizione della spesa pubblica è sbilanciata verso le pensioni (vecchiaia e superstiti in primis). Inoltre…

Un’altra peculiarità italiana è che all’interno delle
varie funzioni di spesa, compresa quella pensionistica,
vi è un netto divario di protezione fra diverse categorie
occupazionali (accesso alle prestazioni e loro entità):
gruppi sociali garantiti (lavoratori dipendenti della
pubblica amministrazione e delle grandi imprese)
gruppi sociali semigarantiti (lavoratori autonomi,
lavoratori dipendenti delle piccole imprese e dei settori
tradizionali)
gruppi sociali non garantiti (lavoratori instabili e
irregolari)

Secondo Robert Jessop ci sono cinque tendenze dell’economia mondiale che spingono a riformare l’welfare.

1. Il rapido sviluppo e la diffusione di nuove tecnologie.
2. La transizione dal tradizionale modo di produrre «fordista», imperniato
su processi lavorativi rigidi e consumi di massa standardizzati
a un nuovo modo «postfordista», imperniato su processi flessibili e
consumi differenziati, a localizzazione spaziale fortemente dispersa
su scala planetaria.
3. L’elevata internazionalizzazione dei flussi commerciali, industriali e
soprattutto finanziari e la conseguente emergenza di mercati virtualmente
mondiali, regolati da standard universali.
4. La ristrutturazione spaziale delle attività economiche intorno a tre
diversi poli di crescita.

5. La globalizzazione dei rischi, ossia l’insorgenza di minacce al contesto
produttivo che per loro natura investono contemporaneamente
più Paesi (piogge acide, inquinamento idrico) o l’intero pianeta
(effetto serra e buco dell’ozono)e debbono pertanto essere affrontate
collettivamente.

Che possono fare gli Stati secondo Jessop?

1 Promuovere le capacità innovative, la competenza tecnologica, il
trasferimento di tecnologie, ristrutturare i settori
in declino. Come se le persone che fanno parte dello Stato ne fossero capaci o comunque fossero incentivate a farlo in modo efficace, efficiente ed economico.
2. Riorganizzare le attività di welfare per quanto riguarda la loro incidenza sulla flessibilità del mercato del lavoro e sulla competitività strutturale.
3. Affrontare i problemi derivanti dall’internazionalizzazione dell’economia e dalla contrapposta formazione di regionalismi e localismi.
4. Cooperare nella gestione del rischio globale.

In concreto gli Stati dovrebbero:
1. Informatizzare le procedure sanitarie e dell’istruzione. Usare le nuove opportunità offerte dalla tecnologia.
“Le innovazioni organizzative potrebbero includere anche lo sviluppo
di gruppi di self-help, che producano servizi per la comunità e richiedano
allo Stato servizi migliorati”.

Molto interessante è la sorta di privatizzazione o cooperativizzazione del welfare che traspare da quanto segue, come riportato dal Cittadini.
“ In secondo luogo, si potranno sviluppare nuove norme di consumo
che incoraggino la mercificazione e/o il vero e proprio selfservice
in seno ad alcune funzioni di welfare, specialmente quando
siano ristrutturate sulla base della tecnologia dell’informazione. Per
es. la prevenzione sanitaria (jogging, centri, sportivi, diete e così
via) è sempre più «mercantizzata» e costituisce un crescente centro
di interesse anche per le industrie di abbigliamento sportivo e dei
beni sportivi, delle medicine alternative e delle pubblicazioni.
Jessop, in conclusione, sostiene che grazie all’accresciuta intensità
di capitale del welfare state e allo spostamento verso una forniture di welfare
nella forma di self-service, i costi dei servizi di protezione sociale potrebbero
essere tagliati e la produttività aumentata. Ciò potrebbe quindi consentire
un miglioramento della qualità dei servizi senza costi addizionali
e/o fornire i mezzi per controllare i costi senza riduzioni dei servizi.
Questo è particolarmente probabile laddove un welfare state integrato coesista
con una coalizioni di forze politiche che sia ancora impegnata e vincolata
a fornire protezione pubblica. Di converso, dove sia emersa una
coalizione che favorisca la privatizzazione e la riduzione delle spese, queste
innovazioni possono essere sfruttate per espandere l’intervento del
settore privato accanto a un welfare state di tipo residuale”.

Richard Rose sottolinea che «il benessere che la gente comune riceve è
sorretto da attività dello Stato e del mercato all’interno dei confini di una
nazione e anche al di là dei confini nazionali». Vi è dunque una dimensione
internazionale, sottovalutata, che al pari di quella nazionale opera
nella produzione del benessere.
Gli economisti, inoltre, ritengono che il libero scambio internazionale
promuova il welfare: si ritiene, infatti, che l’eliminazione delle barriere
tariffarie porti a una maggiore efficacia nell’uso delle risorse, dato
che le aziende nazionali si concentrano sulla produzione di merci e servizi
in cui hanno un vantaggio comparato e le imprese multinazionali espandono
le proprie attività dove queste sono vantaggiose.

3.3. Le Tnc: i nuovi welfare states?
Secondo Susan Strange lo Stato non è più capace di garantire sicurezza, giustizia, libertà e ricchezza anche se il suo intervento è massiccio. Secondo lei lo Stato è vittima dell’economia di mercato. I nuovi welfare state rischiando di diventare le imprese multinazionali.

Mentre in passato era compito
dell’individuo cercarsi lavoro, acquistare beni o servizi cautelandosi
nei confronti di eventuali truffe, costruire o abbattere case, prendersi cura
delle relazioni familiari e così via, oggi i governi approvano leggi, creano
ispettorati e autorità di pianificazione, forniscono servizi per
l’impiego, rafforzano la protezione del consumatore contro l’acqua inquinata,
il cibo alterato, gli edifici pericolanti o sistemi di trasporto. Se ne
trae l’impressione che la vita quotidiana sia sempre meno immune degli
interventi e dalle decisioni delle burocrazie governative.

Le cause dell’indebolimento dell’autorità dei governi di tutti gli Stati
risiede nei mutamenti nei campi della tecnologia e della finanza, e
nell’accelerata integrazione delle economie nazionali in una singola economia
di mercato globale di cui si è prima parlato. Sembra di essere di
fronte a una totale vittoria del mercato che rende impossibile quel gioco
coordinato e dall’equilibrio variabile tra Stato e mercato.

Offrire una rete di garanzie per
i soggetti non in grado di sopravvivere con successo in un’economia di
mercato – i vecchi e i giovani, i malati e gli invalidi, i disoccupati – è un
compito dello Stato. Tale funzione assistenziale dello Stato ha rappresentato
la principale ragione dell’espansione delle burocrazie di Stato e
dell’aumento della spesa pubblica in proporzione al Pil in molti Paesi. Il
governo ha sostanzialmente esteso il proprio intervento sul mercato allo
scopo di proteggere il consumatore, l’ambiente naturale, il personale delle
fabbriche e altri attraverso una maggiore regolamentazione delle im-
prese private. Sono questi ampliamenti dell’intervento statale a persuadere
molti che il ruolo dello Stato non stia affatto diminuendo.
Tuttavia,
sottolinea la Strange, per il futuro il problema è se quell’estensione non
abbia raggiunto il proprio limite, fintanto che i bilanci statali non consentano
più l’aggiunto di nuovi standard di spesa assistenziale e nuove espansioni
dell’apparato burocratico per amministrare programmi assistenziali
e per dar vita a regolamenti protettivi.
La Strange non concepisce i mali derivanti dall’incremento della spesa pubblica e dall’aumento dell’apparato burocratico.

Le conclusioni di Cittadini sono ottimistiche. L’welfare state va internazionalizzato e trasformato per economie aperte e non chiuse-keynesiane.

“Il welfare state, oltre a dimostrare di essere capace di sopravvivere in
un ambiente internazionale dissonante e con una base d’appoggio alterata,
dovrà riuscire a respingere l’accusa di inefficacia, in questi anni mai
venuta meno45: pur con tutte le sue costose ambizioni, infatti, esso non è
stato capace di mantenere gran parte delle sue promesse. I programmi
statali hanno mostrato una grave incapacità nel distribuire denaro e servizi
a coloro che ne avevano bisogno e, nel tentativo di realizzare tale obiettivo,
hanno prodotto conseguenze indesiderabili quali la dipendenza
da parte dei clienti dei vari programmi ed invadenza burocratica”

Altri link di approfondimento:

http://files.meetup.com/3714012/Politiche%20sociali%20e%20welfare%20state.pdf (Analisi delle politiche sociali, di Maurizio Ferriera)

http://didattica.unibocconi.it/mypage/dwload.php?nomefile=CASESTUDY_I20090526102540.PDF (gli effetti economici dell’intervento dello stato)

https://www.docenti.unina.it/downloadPub.do?tipoFile=md&id=571504 Analisi storica. È interessante notare come durante i primi trent’anni dopo la Seconda Guerra Mondiale si siano avuti boom economici ed estensione dell’welfare state. Con gli anni Settanta e il mondo che cambia (apertura dei mercati, demografia, shock petroliferi, costi, rapporto tra contribuenti e beneficiari, successivamente globalizzazione, nuovi modelli produttivi e crescita dei servizi,
decentramento produttivo, flessibilita dei rapporti di lavoro
e consumi differenziati, minore stabilità dei rapporti familiari, cambiamenti demografici, crescita delle aspettative e delle richieste di maggiore protezione, moltiplicazione della spesa sociale.), i regimi di welfare state entrano in crisi. Adesso è il momento della ricalibratura.

https://www.riccaricci.com/welfare-europa/ (si fa presto a dire welfare)

http://www.archivio.formazione.unimib.it/DATA/Insegnamenti/8_1780/materiale/le%20politiche%20sociali%20e%20il%20welfare%20state%20definizioni%20e%20concetti.pdf (Definizioni e concetti)
http://www.archivio.formazione.unimib.it/DATA/Insegnamenti/8_1780/materiale/modelli%20e%20regimi%20di%20welfare.pdf (modelli diversi di welfare)
Modello universalistico: si assicura protezione a tutti i cittadini.
Modello occupazionale: si assicura la protezione ai lavoratori e con differenze a seconda della posizione lavorativa. Questo modello è più soggetto a discriminazioni.

http://scienzepolitiche.unical.it/bacheca/archivio/materiale/1720/Sociologia%20Economica/I%20SISTEMI%20DI%20WELFARE%202014.pdf (regimi di welfare)

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