Da “Dieci comandamenti dell’economia italiana” di Cottarelli-De Nicola. Articolo di Cazzola.
Due riforme pensionistiche avevano un progetto dietro.
La legge 153 del 1969, poi modificata dalla legge 335 del 1995. Modificata profondamente ma assumendo una transizione troppo lunga per essere ritenuta adeguata e equa sul piano intergenerazionale.
La legge del 1969 introduce il metodo retributivo e prende a riferimento la retribuzione pensionabile degli ultimi tre, poi cinque, anni di lavoro (nel pubblico impiego era equivalente all’ultimo anno di servizio). Voleva garantire ai pensionati un trattamento equivalente al livello di retribuzione o di reddito (nel 1990 vennero applicati gli stessi criteri ai lavoratori autonomi) raggiunto alla fine della vita attiva.
In realtà si volle garantire una pensione dignitosa a chi aveva avuto una storia lavorativa e contributiva accidentata nel dopoguerra o aveva visto sfumare i versamenti di prima della guerra per via dell’inflazione.
La formula di calcolo era 2% x n = % della retribuzione pensionabile degli ultimi anni di lavoro. N era il numero degli anni di servizio. Quindi chi aveva 40 anni di assicurazione prendeva l’80% degli ultimi periodi retributivi.
Il disavanzo pensionistico e anche gran parte del debito pubblico sono derivati dall’aver concesso per decenni pensioni non supportate da contributi versati. A ciò si aggiunsero le pensioni di anzianità, che consentivano la pensione sulla base di contributi versati per 35, 25, 20 anni (o ancora meno nel pubblico impiego) a prescindere dall’età anagrafica, per risarcire i cosiddetti lavoratori precoci.
Così negli anni 80 tanti episodi di ristrutturazione industriale finirono in pensionamenti. Furono 400mila per una spesa di 50mila miliardi di lire. Dopo la riforma dini fu inserito un requisito anagrafico: da 52 a 57 anni.
Aumentava la speranza di vita, si abbassava l’età effettiva di pensionamento. Il sistema sarebbe collassato, arrivando a una spesa del 23% del pil intorno al 20130 se non ci fossero stati cambiamenti. Tra il 76 e il 2016 la speranza di vita è passata da 69 a 80 anni per gli uomini e da 76 a 85 per gli uomini.
La riforma Dini introduce il calcolo contributivo per superare lo squilibrio dato dal fatto che venivano riconosciuti ai pensionati anni di prestazioni non coperte dal montante contributivo.
Col contributivo (il montante su cui calcolare il trattamento è dato dalla somma degli accrediti annuali rivalutati sulla base del pil nominale moltiplicato per i coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età di pensionamento all’interno di un range flessibile) si è ristabilito un sinallagma tra contributi versati e prestazione ma lo si è fatto solo per i nuovi assunti a partire dal 1996 mentre chi aveva almeno 18 anni di anzianità è rimasto col retributivo. Gli altri sono inclusi nel sistema misto col criterio del pro rata fino a che il contributivo è stato esteso pro rata a tutti dal 2012.
La riforma Dini ha scaricato l’equilibrio del sistema sui futuri pensionati salvaguardando nell’aspetto chiave del’età pensionabile i lavoratori più anziani. Si diceva che il giovane potrà colmare il tasso di sostituzione più basso iscrivendosi ai fondi di previdenza integrativa ma l’aliquota obbligatoria del 33% non consente di avere una adeguata base economica per la previdenza complementare.
Così, le successive riforme hanno cercato, non a caso, di rendere più breve ed equa la transizione, anche per ottenere dal sistema pensionistico un contributo al risanamento di quei conti pubblici che in grande misura ha contribuito a destabilizzare. Il fatto è che il modello prefigurato dalla riforma Dini e dagli aggiustamenti successivi era figlio anch’esso di un progetto con la testa rivolta all’indietro, nel senso che non si poneva l’obiettivo di come garantire ai lavoratori giovani di oggi – chiamati per decenni a versare un terzo del loro reddito per finanziare le pensioni in essere, poiché il sistema restava a ripartizione – un trattamento “adeguato” come previsto dall’articolo 38 della Costituzione. In sostanza, l’idea sottostante alla riforma del 1995 era quella di un mercato del lavoro standard. Basti pensare che il legislatore si accorse dell’esistenza crescente del lavoro parasubordinato e costituì presso l’Inps un’apposita Gestione separata. Ma il fatto stesso che si fosse introdotta un’aliquota soltanto del 10%, in un sistema ab origine di natura contributiva stava a significare che lo scopo primario era quello di “fare cassa” piuttosto che di assicurare una tutela effettiva.
Non si comprese, allora, che a cambiare non era il sistema pensionistico, ma il mercato del lavoro. Quale è infatti la preoccupazione dei giovani e per i giovani? Non tanto quella di vedersi applicare il calcolo contributivo, perché il nuovo sistema (ci avvaliamo di termini strettamente giuridici) non produce, a fronte di una continuità e regolarità di lavoro, un “danno emergente”, ma solo un “lucro cessante” in quanto vengono meno le rendite di posizione dipendenti dal modello retributivo. Se un neoassunto ha la fortuna di lavorare a lungo, stabilmente e senza interruzioni andrà in pensione con un tasso di sostituzione socialmente sostenibile anche sottoponendosi interamente al calcolo contributivo. L’incerta prospettiva pensionistica dei giovani non deriva, dunque, dalle regole dell’accreditamento dei contributi e dal meccanismo di calcolo della prestazione, ma dalla loro condizione occupazionale precaria e saltuaria durante la vita lavorativa. Una carriera contraddistinta da un accesso tardivo al lavoro, da rapporti interrotti e discontinui (senza potersi giovare, inoltre, di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali che cucia tra di loro i differenti periodi lavorativi, magari contraddistinti da rapporti regolati da regimi differenti) finirà per influire negativamente anche sulla pensione. È evidente che occorre migliorare nel senso di una maggiore uniformità le tutele durante la vita lavorativa, ma nessuno può illudersi – purtroppo sono stati e sono in tanti a inseguire questa chimera ancora oggi – che si possa tornare a una generalità di lavoro dipendente stabile, e quindi a poter salvare la pensione di domani attraverso la salvaguardia forzosa dei rapporti di lavoro standard, oggi. Ma prima di avanzare delle proposte coerenti con un mercato del lavoro profondamente trasformato anche rispetto a quello esistente ai tempi della riforma Dini, sarà utile inquadrare correttamente le effettive criticità del sistema pensionistico, sfrondandole dalla pletora di luoghi comuni che hanno inquinato il dibattito, col vizio ora corrente di fornire risposte semplici a problemi complessi.
Nel dibattito degli ultimi anni si è fatta strada l’idea che per fare giustizia sarebbe indispensabile ricalcolare con il metodo contributivo i trattamenti erogati con quello retributivo. A pagare il fio dovrebbero essere gli assegni più elevati, anche se non se ne comprendono le ragioni visto che dei supposti benefici del calcolo retributivo ha fruito la quasi totalità dei trattamenti in essere e in particolare le pensioni di importo medio e medio alto, in larga misura erogate a titolo di anzianità a persone ancora in età inferiore a 60 anni, per le quali, oltre al vantaggio del calcolo, si è aggiunto quello della durata dell’erogazione. Quando ancora andava per la maggiore il “programma trasparenza”, l’Inps ha voluto “aprire le porte” sulle pensioni particolarmente “premiate” dal calcolo retributivo, inciampando però nel caso paradigmatico della pensione dei magistrati che, mediamente, sono d’importo superiore a 100 mila euro l’anno (non si dimentichi lo stipendio del Primo presidente della Suprema corte di cassazione, nel disordine della demagogia imperante, è divenuto il massimale per i trattamenti della PA e non solo). Bene. l’Inps ha dovuto riconoscere che «l’eventuale ricalcolo con il sistema contributivo non ridurrebbe di molto l’importo degli assegni perché tale metodo premia proprio chi accumula molti anni di contributi e ritarda il pensionamento» (nel caso dei magistrati in media fino al 70° anno). Proprio così: il sistema retributivo non è una sorta di Eldorado se messo a confronto – in astratto – con gli stenti e lo stridore di denti imposti dal contributivo. Un lavoratore “povero” diventa un pensionato “povero” in ambedue i sistemi. Un lavoratore ad alto reddito, invece, è maggiormente penalizzato, sul piano del rendimento dei suoi contributi, dal calcolo retributivo che non da quello contributivo. Nel primo sistema, infatti, i lavoratori effettuano i versamenti sull’intera retribuzione percepita, ma il rendimento è pari al 2% per ogni anno di servizio fino a circa 45 mila euro di stipendio. Per le quote eccedenti, invece, l’aliquota è decrescente (dal 2% fino allo 0,90%). In pratica il percettore di una retribuzione elevata che vada in quiescenza col retributivo e 40 anni di versamenti non percepisce l’80% canonico della retribuzione pensionabile, ma più o meno il 60%.
Nel retributivo, inoltre, la pensione è sottoposta a un tetto massimo di 40 anni: quelli lavorati in più subiscono il prelievo sulla retribuzione, entrano a far parte della retribuzione pensionabile, ma “non fanno” anzianità. Nel regime contributivo, invece, contano tutti i versamenti effettuati: chi ha lavorato più a lungo percepisce una pensione migliore, perché il montante accreditato viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione più elevato in relazione all’età del pensionamento. I lavoratori con retribuzioni maggiori, peraltro, versano i contributi soltanto su di un massimale attualmente di circa 100 mila euro l’anno (al di sopra non sono previste ritenute e, ovviamente, le quote ulteriori non sono considerate retribuzione pensionabile, mentre viene favorita la loro allocazione a una forma di previdenza complementare). Ciò spiega perché sarebbero i redditi più elevati e le carriere più lunghe a essere premiate (o quanto meno risparmiate) dal ricalcolo. Non a caso il legislatore ha sempre scoraggiato (nella legge di stabilità del 2015 ha addirittura punito) chi si fosse avvantaggiato applicando il calcolo contributivo. Del resto non sono mai i grandi privilegi a fare “massa critica”, ma quelli piccoli; per la semplice ragione che questi ultimi sono infinitamente più numerosi dei primi. Uno studio di Fabrizio e Stefano Patriarca (Lo squilibrio delle pensioni di anzianità) pubblicato nel 2013 dall’autorevole «Lavoce.info», ha dimostrato che i veri protagonisti dello “sbilanciamento” tra pensioni contributive e retributive sono i trattamenti di anzianità ovvero proprio quelli che vengono difesi e riproposti, magari sotto altre forme, a ogni piè sospinto. Considerando, come nello studio, le pensioni di anzianità maturate (in media a 58,5 anni di età) da 486 mila lavoratori dipendenti privati tra il 2008 e il 2012, per un importo medio di quasi 2 mila euro lordi mensili, la spesa per questa platea è stata di 12 miliardi di euro. La parte non giustificata da contributi versati è ammontata in media al 28% e si è concentrata prevalentemente (in quota del 37% dei pensionati) nelle fasce con più di 2500 euro mensili, che hanno accumulato il 63% dello squilibrio complessivo. Lo studio, pertanto, calcolava che sui 12 miliardi di spesa circa 3,5 miliardi fossero “non giustificati” dai versamenti contributivi. Lo squilibrio diminuiva nel caso di pensionamento di vecchiaia (a un 15% medio) per effetto della più ridotta attesa di vita, essendo più elevata l’età alla decorrenza del trattamento. Aggiungendo anche le pensioni di anzianità (il periodo considerato era sempre compreso tra il 2008 e il 2012) dei dipendenti pubblici (il cui squilibrio tra calcolo contributivo e retributivo venne valutato in 2,5 miliardi), la parte “non giustificata” saliva nell’insieme a 6 miliardi. Più aumentava, però, l’importo dell’assegno (oltre i 44 mila ero l’anno) più si riduceva la parte “non giustificata”, perché sul valore dell’assegno operava la soprarichiamata modulazione al ribasso dei trattamenti fino a ridursi al 5% per le pensioni intorno ai 12 mila euro lordi mensili. Il grafico, tratto dal saggio di Fabrizio e Stefano Patriarca evidenzia questo stato di fatto. La riforma Dini ha subito nel tempo diverse modifiche. Molto importante fu l’intervento del primo governo Prodi.
È bene ricordare, innanzi tutto, quanto era riferito alle pensioni nella famosa lettera – del 5 agosto 2011 – che conteneva le raccomandazioni della BCE al governo italiano allora in carica: «È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012». Ma erano consistenti anche le criticità del sistema pensionistico, nonostante le riforme dell’ultimo ventennio (peraltro non tutte di segno positivo). La rappresentazione della realtà in quella fase di crisi acuta la si può trovare in una considerazione di Vittorio Conti, quando era commissario dell’Inps: «Partendo dal 14% circa prima della crisi, il dato attuale è al 16,3% del pil, sarebbe arrivato oltre il 18% senza le recenti riforme, grazie alle quali si arriverà al 13,9% nel 2060. Tra il 2010 ed il 2060 nell’area euro il rapporto peggiora di 2 punti percentuali (di 1,5 per la UE27), mentre per l’Italia migliora di 0,9». In sostanza, soprattutto per effetto della crisi economica, l’incidenza della spesa pensionistica sul pil era cresciuta di 2,3 punti e, senza le riforme allora il Paese avrebbe dovuto confrontarsi con un dato insostenibile quale un’incidenza del 18% del pil (un dato che avrebbe cancellato in un solo colpo gli effetti di un ventennio di riforme). La crisi economica ha riaperto la questione della previdenza relativamente a diversi aspetti. Innanzi tutto, quello – sempre immanente nella realtà italiana ed europea – della sostenibilità dei sistemi pensionistici nell’ambito complessivo dei conti pubblici. Si tratta di un indice che è, banalmente, contraddistinto da un rapporto: al numeratore sta la spesa pensionistica, al denominatore il pil. La spesa è in crescita – fisiologica per definizione – in conseguenza della relazione intercorrente tra retribuzioni e prestazioni e degli effetti dei meccanismi di rivalutazione automatica (benché questi ultimi abbiano subito, sovente, interventi finalizzati a “fare cassa”, nel contesto delle misure di risanamento dei bilanci pubblici). Negli ultimi anni, invece, si è assistito a un vero e proprio crollo del pil (al denominatore): ciò ha determinato un forte incremento dell’incidenza della spesa pensionistica, riproponendo così il problema della sua sostenibilità. Basti pensare che, già nel 2010, l’andamento della spesa si è avvicinato al picco che, nelle previsioni degli ultimi anni del precedente decennio, era atteso alla volta del 2030-2035, mentre il rientro in una dinamica sostenibile si era spostato dal 2040 al 2060.
Chiunque, per anni, uscisse di casa al mattino di un giorno qualsiasi – purché la sera prima si fosse (s)parlato di pensioni in qualche talk show – e avesse fermato un passante qualsiasi per chiedergli a quale età fosse possibile andare in quiescenza dopo la riforma Fornero, l’interlocutore avrebbe risposto certamente che sarebbero occorsi 70 anni o poco meno. I più preparati si sarebbero fermati a 67 anni. Invece la realtà era (ed è tuttora) un’altra: «nonostante un incremento graduale dell’età dovuto alle recenti modifiche normative, una percentuale rilevante di pensionamenti avviene prima dei 60 anni». Questa affermazione è farina del sacco dell’Inps e campeggia nella pubblicazione periodica «Statistiche in breve» a cura del Coordinamento attuariale dell’Istituto di via Ciro il Grande, riguardante le pensioni vigenti al 1° gennaio 2017 e liquidate nel 2016 (con l’esclusione delle gestioni dei dipendenti pubblici e dell’ex Enpals). Come è possibile una smentita tanto netta a una convinzione così consolidata? Eppure, carta canta. Basta osservare le statistiche relative ai numeri e all’età media delle pensioni (di carattere previdenziale) per anno di decorrenza. Certo, se ci si ferma ai trattamenti di vecchiaia con riguardo ai principali regimi privati dei lavoratori dipendenti e autonomi, l’età media alla decorrenza ha subito un significativo incremento. Va ricordato che, nel caso della vecchiaia, incide molto la parificazione tra generi, già avviata dall’ultimo governo Berlusconi e accelerata dalla legge del 2011. Tanto che, rispetto ad allora, l’età media alla decorrenza per i maschi è arrivata, nel 2018, a 66,5 per gli uomini e a 65,9 per le donne. Diverso è il trend delle pensioni anticipate/di anzianità. Ma – diranno i lettori – la riforma Fornero non ne aveva decretato il superamento? Ecco un’altra leggenda metropolitana: quel trattamento “è vivo e lotta insieme a noi”. Dal 2012 (quando è entrata in vigore la disciplina “stramaledetta”) è largamente superiore, nei flussi, il numero delle pensioni anticipate rispetto a quello a titolo di vecchiaia. Ma è così anche considerando i dati di stock dell’ultimo ventennio.
E a quale età media si è varcata, in anticipo, l’agognata soglia? Nel 2016 a 60,7 anni (dato complessivo per uomini e donne di tutte le gestioni considerate: 61,1 i primi e 59,8 anni le seconde); due decimali in più nei primi mesi del 2017. Sul numero dei trattamenti di anzianità hanno influito molto le uscite dei c.d. esodati, i quali – grazie alle salvaguardie – sono stati in grado di utilizzare quella tipologia di quiescenza per di più secondo le regole ante-riforma (per questi motivi rifiutano di avvalersi dell’Ape – che si ottiene a 63 anni – e continuano a rivendicare ulteriori “libere uscite”). Si tenga, poi, presente che, considerando lo stock delle gestioni prese in esame, le pensioni di anzianità nel 78% dei casi sono erogate a lavoratori, residenti al Nord; quelle di vecchiaia per 2/3 sono riservate a lavoratrici. L’Inps aiuta, inoltre, a interpretare correttamente i dati concernenti l’importo delle pensioni: il cavallo di battaglia di coloro che identificano la condizione di pensionato con quella di povero. Anche i bambini sanno ormai che il 63% delle pensioni ha un importo mensile inferiore a 750 euro. «Questa percentuale – spiega l’Inps – che per le donne raggiunge il 76,5%, costituisce solo una misura indicativa della “povertà”, per il fatto che molti pensionati [il cui numero non va mai confuso con quello delle pensioni, N.d.R.] sono titolari di più prestazioni pensionistiche o comunque di altri redditi». Per spiegare tale valutazione il Coordinamento attuariale dell’istituto sottolinea che «delle 11.374.619 pensioni con importo inferiore a 750 euro, solo il 44,9% (5.106.486) beneficia di prestazioni legate a requisiti reddituali bassi, quale l’integrazione al minimo, maggiorazioni sociali, pensioni e assegni sociali e pensioni di invalidità civile»: sono queste le integrazioni riconosciute a chi dispone solo della sua pensione.
Con la sola eccezione della gestione speciale Inps (a cui sono iscritti i lavoratori c.d. parasubordinati, ma i trattamenti erogati sono in prevalenza seconde pensioni) la maggioranza degli italiani (il maschile come vedremo non è scelto a caso) è in condizione di avvalersi del pensionamento anticipato (l’istituto che sarà ulteriormente favorito dalla misura preconizzata dal governo, con l’introduzione di quota 100). Ciò significa – anche di questa osservazione troveremo conferma nelle statistiche dell’Inps – che è destituita di fondamento la campagna propagandistica secondo la quale i nostri concittadini anziani sarebbero costretti a lavorare fino a 67 anni e oltre. Anche in questo caso, il maschile è appropriato perché sono in grande maggioranza le lavoratrici – che hanno alle spalle storie di lavoro spesso interrotto e discontinuo – ad avvalersi del trattamento di vecchiaia, per conseguire il quale sono sufficienti, una volta maturato il requisito anagrafico, 20 anni di contribuzione.
È interessante notare quanto avviene nel Fondo pensioni lavoratori dipendenti (FPLD), l’architrave del sistema obbligatorio: nel 2017 a fronte di 57 mila pensioni di vecchiaia ve ne sono state 96 mila anticipate, mentre nel periodo gennaio-settembre dell’anno in corso le seconde (66 mila) sono già più del doppio delle prime (28 mila). In sostanza, nei flussi del 2018, riguardanti il FPLD, su 100 pensioni di vecchiaia, ce ne sono state 229 anticipate. In generale – per motivi facilmente comprensibili derivanti da un’anzianità contributiva più lunga – l’importo medio alla decorrenza dei trattamenti di anzianità (2,2 mila contro 1,1 mila euro mensili lordi) è circa il doppio di quello delle prestazioni a titolo di vecchiaia. Quest’ultimo dato riguarda i lavoratori dipendenti privati. Se prendiamo in considerazione il complesso delle gestioni salta subito all’occhio il valore medio delle prestazioni di vecchiaia (erogate in prevalenza a ex lavoratrici) pari a 786 euro medi mensili lordi (un importo di poco superiore a quello della c.d. pensione di cittadinanza, conseguito però con almeno 20 anni di lavoro). Nei primi nove mesi del 2018 (a conferma di una tendenza di carattere strutturale), nel FPLD, i lavoratori hanno percepito 46,5 mila pensioni di anzianità e 6,5 mila di vecchiaia; sul versante delle lavoratrici i “numeri” si invertono: 22,3 mila di vecchiaia e 19,5 mila anticipate. La parte del leone – anche qui per ovvi motivi – la fanno le regioni del Nord con 45,5 mila assegni di anzianità su 66 mila.
Non ci vuole molto a capire che la narrazione del sistema pensionistico, fatta all’opinione pubblica, meriterebbe qualche messa a punto. Anziché procedere a una destabilizzazione per partito preso. Ma c’è da smentire un’altra fake news secondo la quale ci sarebbe la riforma Fornero tra le principali ragioni della disoccupazione giovanile, a causa del rinvio del pensionamento dei lavoratori più anziani. È un buon senso da Bar Sport: gli anziani sono costretti a occupare quei posti di lavoro che altrimenti sarebbero riservati a nuove assunzioni. Eppure secondo una vasta e prevalente letteratura – ricordata nel Focus n. 6/2016 dell’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) – gli aumenti di occupazione degli anziani non sottraggono spazio alle altre fasce di età. Al contrario, carriere lavorative più lunghe e tassi di occupazione più alti per gli anziani sarebbero associabili a maggiori opportunità lavorative e a più elevati tassi di occupazione per i giovani, senza che emerga uno spiazzamento generazionale (crowding-out). Simmetricamente, politiche di prepensionamento sono inefficaci o addirittura dannose nel promuovere l’occupazione dei giovani. Le spiegazioni più ricorrenti di queste teorie sono di tre tipi. In primo luogo, si evidenzia che le forze di lavoro di diversa età non sono omogenee per capacità e vocazioni e che quindi le diverse generazioni sono complementari – sostiene il Focus – più che sostituibili all’interno degli organici. In tale prospettiva, un turnover generazionale incentivato o addirittura indotto da misure di prepensionamento potrebbe squilibrare la composizione delle forze di lavoro e avere effetti negativi sulla produttività. In secondo luogo, una più elevata spesa per pensioni si tradurrebbe, se finanziata a ripartizione (pay-as-you-go), in maggiori imposte e/o contributi obbligatori, con effetti distorsivi sia sul lato dell’offerta di lavoro sia sul lato della domanda. Infine, viene chiamata in causa anche la composizione della spesa pubblica per welfare che, quando risulta sbilanciata eccessivamente sul capitolo pensioni per eccesso di uscite a età basse, manca di sufficienti risorse da dedicare agli altri istituti di welfare (politiche attive e passive del lavoro, conciliazione vita-lavoro, politiche per la famiglia e le non autosufficienze, formazione, ecc.). In alcuni autori, poi, si riscontra anche una quarta spiegazione dell’insussistenza di un collegamento, sia pure indiretto, tra prepensionamenti e nuova occupazione: la spiegazione chiama in causa il disincentivo
ad accumulare capitale umano quando questo può essere utilizzato su una vita lavorativa di durata inferiore. Nel tempo, questo disincentivo si tradurrebbe in minore qualità delle forze di lavoro e in minore crescita, con più scarse possibilità occupazionali per tutti (tanto che – come vedremo – l’innalzamento dell’età pensionabile ha prodotto un consistente incremento dell’attività formativa). Può essere, però, che una crisi tanto lunga come quella che ci portiamo appresso dal 2008 abbia introdotto delle diverse considerazioni da compiere, a proposito della corrispondenza tra pensionamenti e nuove assunzioni. In merito sono state compiute alcune ricerche empiriche (perché è impossibile reperire dei dati di fatto) di cui ricordiamo le principali. Secondo un contributo del 2016 di Boeri, Garibaldi e Moen ricavato dal monitoraggio su 80 mila imprese (con più di 15 dipendenti) nel periodo intercorrente tra il 2008 e il 2014, per ciascun lavoratore “bloccato” per una durata di cinque anni si è perduto circa un nuovo occupato. Proiettando questo esito sull’insieme delle imprese con più di 15 dipendenti rimaste attive per tutto il periodo considerato, i nuovi requisiti per l’accesso al pensionamento avrebbero ridotto le assunzioni di 37 mila unità. Vi è poi un’analisi dell’Inapp (ex Isfol) condotta nel 2015 su di un campione di 30 mila imprese del settore privato extra-agricolo, dalla quale risulta che la riforma Fornero avrebbe prodotto un cambiamento nei piani di assunzione programmati nel periodo 2012-2014 per circa il 2,2% delle aziende considerate, con la conseguenza di mancate assunzioni per 43.285 dipendenti. In sostanza una perdita di nuovi ingressi pari a circa lo 0,5% del totale dei dipendenti stimato nel 2014 (poco meno di 9,5 milioni) e al 3,1% se rapportato al numero di assunzioni potenziali. Le nuove regole del pensionamento, però, avrebbero determinato un aumento del 9% dell’incidenza dell’attività formativa da parte di lavoratori in età compresa tra 40 e 54 anni. Ne deriva, a conclusione della ricerca dell’Inapp, che «l’effetto della riforma si sia esplicato più che nei margini intensivi delle scelte di assunzione (quanti lavoratori assumere, ecc.), nelle modalità di organizzazione dei mercati interni del lavoro e sugli incentivi ad investire in capitale umano e in capitale fisico, anche per favorire la produttività del segmento più anziano della forza lavoro».
Il contratto giallo-verde era chiaro: la manomissione della riforma delle pensioni del 2011 sarebbe avvenuta in due tempi: prima quota 100 e poi – come misura di carattere strutturale – quota 41 (a prescindere dal requisito anagrafico). Ovviamente tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo un braccio di mare. In questo scorcio d’anno ne abbiamo sentite di tanti colori che ci siamo rassegnati ad aspettare, fino a quando, in mezzo ad altre misure di contorno, è emersa l’introduzione sperimentale per un triennio di “quota 100’’ (63 anni di età + 38 di contributi). Di numeri ne sono stati fatti parecchi (alla fine risultati in eccesso), sia pure nel contesto di una riffa tra i due caporioni che si contendono la parte più consistente del bottino (in deficit) da destinare, ciascuno, allo sventolio delle bandierine della propria contrada (il M5S con il reddito di cittadinanza). Ci interessa in questa fase – è un elemento sottovalutato rispetto a quello, pur rilevante, dei costi e delle coperture – ricordare le stime che vengono compiute (e condivise) sul numero “in più’’ dei trattamenti anticipati derivanti dalle nuove norme che proprio quell’istituto intendono favorire. Grazie alle nuove misure circa un milione di pensionati di anzianità potrebbero aggiungersi a quanti – e sono la maggioranza nei flussi della quiescenza del lavoro dipendente – andrebbero normalmente in congedo anticipato in un triennio. Val la pena di chiedersi se un possibile esodo sia sostenibile non solo sul versante dei conti pubblici, ma pure dal lato delle dinamiche del mercato del lavoro, soprattutto per quanto riguarda l’offerta. Gli esodi anticipati in più avranno corso in larga prevalenza tra la popolazione maschile delle regioni settentrionali (dove si è prossimi al pieno impiego). I lavoratori (anziani per modo di dire) in uscita saranno comunque in numero maggiore dei giovani in entrata, per banali ragioni demografiche. Del resto, lo ammettono candidamente anche gli strateghi giallo-verdi quando affermano che ogni due pensionati in più ci sarà un giovane che troverà lavoro. E gli altri posti che si renderanno vacanti chi li coprirà? La risposta è semplice: o arriveranno altri stranieri, oppure i padroncini del Nord, cari alla Lega, si troveranno in difficoltà non perché tartassati dalle tasse, ma perché non potranno reperire sul mercato del lavoro personale sufficiente e adeguato per “far girare le macchine” nelle officine.
Non parliamo poi del pubblico impiego. I sindacati dei medici ospedalieri hanno espresso una preoccupazione molto seria: le nuove regole pensionistiche potrebbero provocare un esodo di massa di camici bianchi, al punto da mettere in crisi le strutture sanitarie. Che cosa si risponde a tali obiezioni di buon senso, fondate sull’esperienza di decenni? «Ma come? Non esiste un alto livello di disoccupazione soprattutto giovanile?». A queste considerazioni ha replicato il presidente dell’Inps, Tito Boeri: «Non c’è nessuna garanzia che i giovani vadano a sostituire i nuovi pensionati dal momento che le aziende reagiscono a seconda delle situazioni in cui si trovano e potrebbero approfittare di questo per gestire lo smaltimento organici. Nella storia del nostro Paese non c’è mai stata la sostituzione dei pensionati con i giovani». In sostanza, il governo giallo-verde rischia anche in questo caso di ritrovarsi nella medesima situazione del decreto (in)dignità: di avere più pensionati, ma meno lavoratori occupati, soprattutto nelle aree in cui la ripresa c’è stata ed è in atto. Del resto, anche a voler prendere per buoni i ragionamenti da Bar Sport a cui ci hanno abituati (la riforma Fornero ha bloccato il turnover, trattenendo gli anziani – ormai stanchi e depressi – sul posto di lavoro e lasciando i giovani fuori dalle aziende) è fin troppo evidente che – in gran parte del Paese, a controriforma approvata – non ci sarebbero le condizioni per compensare adeguatamente, con la manodopera entrante, il numero e la qualità professionale del personale che esce. Gli esodi sarebbero massicci e avverrebbero in un tempo sostanzialmente breve, perché, con l’aria che tira, tutti si precipiterebbero a incassare l’assegno prima che qualcuno, al governo, cambi idea. Salvo ripromettersi, magari, di continuare a lavorare: in nero o con altri rapporti. Incuranti del divieto di cumulo.
A pensarci bene, anche in tema di pensioni, le rivendicazioni degli alleati si sommano e coprono situazioni e platee tra loro diverse, sia pure all’insegna del proposito comune del superamento della riforma Fornero. Mentre Quota 100 (a cui si è accompagnato il blocco, al 2018, dell’adeguamento all’attesa di vita fino al 2026 del normale canale di uscita anticipata previsto nella riforma del 2001) tende a favorire il pensionamento anticipato di anzianità nella consapevolezza di rispondere alle esigenze e alle richieste dei bravi lavoratori padani che, entrati in fabbrica da giovani, hanno accumulato – in età non ancora anziana – un montante contributivo molto elevato, la pensione di cittadinanza rappresenta il prolungamento durante la pensione dell’assistenza garantita con il reddito.
In sostanza, la Lega vuole premiare chi ha iniziato a lavorare precocemente e non ha mai smesso; per il M5S si deve, invece, poter campare e andare in pensione anche senza essersi impegnati o impegnarsi troppo a lavorare (visto che il lavoro dovranno offrirlo i Centri per l’impiego). L’operazione comunque è parecchio onerosa, sia che la si concluda in una sola volta o lo si faccia nel quadro di più esercizi. In sostanza, la “filosofia” delle due proposte ha il medesimo presupposto culturale: lavorare stanca. Perciò chi ha lavorato 38 anni ha diritto, a prescindere da ogni altra considerazione, di smettere al raggiungimento dei 63 anni (così la Lega); se poi – attraverso il reddito e la pensione di cittadinanza – si riesce a campare anche senza il lavoro (basta solo fingere di cercarlo) è ancora meglio. Al di là dei costi – che pure sono importanti non solo per le risorse da reperire nell’immediato, ma anche per gli effetti sulla sostenibilità del sistema – esiste un problema di contenuti: ha un senso compiuto sprecare risorse per rendere ancor più critici gli aspetti problematici del sistema pensionistico? Di questo e non di altro si tratta. Con queste misure (per ora temporanee o sperimentali), si pretende di tutelare – come si faceva nel passato per una tipologia di lavoratore destinata a estinguersi con l’esaurimento delle generazioni dei baby boomer – anche gli occupati di oggi e di domani riproponendo loro i requisiti pensati per Cipputi; ricorrendo, se non ce la fanno a raggiungerli, a una generosa prestazione assistenziale (la pensione di cittadinanza pari a 780 euro mensili lordi). A tal proposito le osservazioni critiche di Brambilla, Geroldi e Mundo, in un documento redatto a cura di Itinerari previdenziali, sono implacabili: Si consideri che solo per portare a 780 euro le sole pensioni di invalidità, occorrerebbero oltre 6 miliardi l’anno. Peraltro deve essere chiaro a tutti che prevedere un importo netto di 780 euro al mese per 13 mensilità, produrrebbe una elusione o evasione contributiva enorme e indurrebbe chi può a non versare i contributi essendo tale pensione relativa a una retribuzione lorda mensile di circa 1.500 euro, pari cioè al reddito medio dichiarato ai fini Irpef e i redditi fino a 25 mila euro lordi l’anno rappresentano una parte considerevole delle dichiarazioni fiscali. Sarebbe nella maggior parte dei casi un “regalo” a chi non ha mai pagato né tasse né contributi.
Perché no ad una svolta vera? Ecco perché il cambiamento annunciato dalla maggioranza giallo-verde si muove con la retromarcia innestata e consegna alle giovani generazioni un modello che non prende a riferimento la loro condizione di lavoro. Eppure, nel dibattito e nella recente letteratura previdenziale, sono circolate proposte innovative meglio adeguate per un mercato del lavoro più flessibile, meno continuativo e stabile, variabile nella tipologia della dinamica temporale dei rapporti. Sarebbe, allora, il caso di mettere in sinergia le politiche a favore dell’occupazione dei giovani con un riordino del sistema pensionistico che abbia lo sguardo rivolto in avanti e cioè a un modello che sia in grado di tutelare, al momento della quiescenza, il lavoro di oggi e di domani in tutte le sue peculiarità e differenze rispetto al passato. Il fatto è che le nuove caratteristiche del lavoro non sono un incidente della storia, ma il frutto di una trasformazione permanente, resa necessaria dai processi dell’economia globale e competitiva. Da noi, invece, si continua a ballare intorno al totem del contratto a tempo indeterminato come forma comune di lavoro, come se bastasse sconfiggere, durante la vita attiva, quelle che chiamano condizioni di precarietà per salvare così anche la pensione. Quando occorrerebbe invertire il paradigma.
Ecco, dunque, l’esigenza di ripensare un sistema obbligatorio coerente con il lavoro di oggi e di domani. Magari da applicare solo ai nuovi assunti, in parallelo con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. È questa la prospettiva a cui dovrebbe lavorare un vero governo del cambiamento: immaginare un jobs act delle pensioni. I capisaldi di una nuova proposta potrebbero essere i seguenti:
1) le nuove regole dovrebbero valere solo per i nuovi assunti e nuovi occupati (quindi per i giovani)
2) i versamenti sarebbero effettuati sulla base di un’aliquota uniforme – e pari al 24-25% – per dipendenti, autonomi e parasubordinati (si può valutare una limitata gradualità nell’operazione) dando luogo a una pensione obbligatoria di natura contributiva;
3) sarebbe istituito per questi lavoratori un trattamento di base, ragguagliato all’importo dell’assegno sociale e finanziato dalla fiscalità generale che faccia, a suo tempo, da zoccolo per la pensione contributiva;
4) per quanto riguarda il finanziamento della pensione a capitalizzazione sarebbero consentiti l’opting out volontario e il relativo versamento del corrispettivo in una forma di previdenza complementare, di alcuni punti di aliquota contributiva obbligatoria, al fine di poter ripartire il rischio “vecchiaia” su due pilastri: uno di natura solidaristica come la previdenza obbligatoria garantita dallo Stato e uno, di ampiezza minore, che si misuri con gli andamenti dei mercati finanziari. Ma chi non studia finisce sempre per perdere le occasioni. E per continuare a rammendare le solite vecchie calze. La proposta andrebbe attentamente approfondita, nel suo insieme, soprattutto sul piano dei costi, che sarebbero comunque inferiori a quelli teoricamente ipotizzati nei piani correnti. Essa realizzerebbe, stabilmente, una convenienza a effettuare nuove assunzioni grazie alla previsione di un’aliquota contributiva per le imprese più ridotta di ben 8-9 punti (e quindi grazie alla diminuzione del costo del lavoro), la cui unificazione al ribasso aiuterebbe a rendere “neutrale”, almeno dal punto di vista pensionistico, la tipologia scelta per il contratto di assunzione. La pensione di base compenserebbe, per i lavoratori, i minori accreditamenti secondo il modello contributivo. Nel definire i parametri occorrerà prestare attenzione a che la somma tra pensione di base e pensione contributiva non determinino un tasso di sostituzione più elevato di quello derivante dal vecchio metodo. La riforma, nel suo complesso, riguarderebbe al massimo 400 mila unità all’anno (la nuova occupazione, sempre che riparta l’economia). E, quindi, presenterebbe un grado adeguato di sostenibilità. Sarà poi necessario pensare a un meccanismo compensativo, in qualche modo retroattivo, per coloro che in questi anni sono rimasti prigionieri di un sistema che non li garantiva, come per esempio, gli iscritti in via esclusiva alla gestione separata presso l’Inps.