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Lo stupore delle prese elettriche

Anni Settanta, o del parassitismo

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Tutto da Carlo Cazzola, “Gli Anni 70, i peggiori della nostra vita”

Nel 1968 sembrava che fosse possibile rivendicare, chiedere, pretendere diritti, soldi e potere senza che fossero necessari sacrifici, indipendentemente dai meriti, senza capire o accettare di ottenerli pagando o lavorando. Il dibattito all’epoca si concentrava sui bisogni e trascurava i doveri o i mezzi per soddisfare tali bisogni.

Venivano create tantissime organizzazioni e si inventavano dibattiti collettivi per dare visibilità e potere a un leader. Per molti il ’68 sarà la scuola per diventare politici. Malgrado in molti al loro interno si sciacquassero la bocca con parole come libertà o anarchia, tutti i gruppi organizzati avevano dei ruoli e delle gerarchie.

Chi deteneva il potere politico costruiva delle riforme confidando nello sviluppo infinito e senza tener conto dei costi che graveranno sulle generazioni successive. Si “doveva” e veniva riconosciuto di poter andare in pensione (retributiva) presto e bene. I salari dovevano crescere secondo quanto rivendicavano le organizzazioni operaie e sindacali e dovevano essere svincolati da condizioni di merito e di produttività. L’anzianità era il criterio per distinguere gli stipendi dei salariati. Vennero effettuate massicce assunzioni pubbliche, anche attraverso leggi speciali che evitavano la necessità di assumere per concorso. Vennero creati ulteriori centri di spesa come le Regioni, che avrebbero dovuto essere formate da personale ex statale. Aumentarono a dismisura gli insegnanti e i dipendenti degli enti locali. Sembrava che lo Stato avesse la funzione di creare posti di lavoro inutili anziché servizi ai cittadini

Venivano assicurati a carico dei contribuenti e delle generazioni future i salvataggi alle grandi industrie, che a loro volta generavano finanziamenti dalle banche pubbliche in un massiccio accumulo di inefficiente allocazione delle risorse. Le conseguenze? Le pagheranno le famiglie in termini di risparmio distrutto, i disoccupati in termini di impossibilità di trovare lavoro, le generazioni future costrette a pagare i costi di quei salvataggi, di quelle assunzioni, di quelle pensioni, di tutti quei debiti accumulatisi senza che a fronte di quelli ci fosse una qualche forma di rendimento.

Per le grandi industrie, e quindi per i loro manager, contavano le relazioni politiche. Per gestire un’azienda, pubblica o privata, era più importante l’amicizia col politico dell’efficienza o della redditività: contavano più le relazioni politiche delle capacità manageriali. Le industrie pubbliche erano già da decenni destinate ad assorbire personale e non a fare profitti. Inevitabilmente la spesa pubblica si impennava e i deficit erano costanti.

 

Il 77 va per i fatti suoi, alcuni si armeranno altri finiranno nel riflusso. Vorrebbero addirittura laurearsi dopo dieci anni senza meriti e Repubblica è contro e la bruciano. Conquistano il potere e la cultura, sono ovunque e non si schiodano e parlano da maestri del nulla, sempre sopravvalutandosi. Non ci vorrebbe una bella patrimoniale per loro e i loro figli? che paghino anche loro, mantenuti a vita dalle generazioni precedenti e future. intanto gli operai veri lavoravano e molti diventavano imprenditori autonomi e nasceva la terza Italia.

 

Nel Settantasette esplode la contestazione degli alternativi e di coloro che ritengono di non avere un futuro. I governi dell’astensione tecnica, con la sostanziale unità tra DC e PCI cercano di assecondare le richieste e di garantire l’impiego sicuro, la casa a equo canone, i servizi pubblici gratis, la sanità e l’istruzione disponibili a tutti e gratuite. Più spesa pubblica per tutti.

 

A chi si preoccupava di ripianare i conti veniva risposto che ci avrebbe pensato la crescita del PIL che sarebbe determinato dalla spesa pubblica in deficit attraverso effetti moltiplicativi che esistono solo nella testa di chi pensava questi deliri, che erano già stati sconfessati in teoria e in pratica.

 

Negli anni Settanta era tutto un profluvio di rivendicazioni di diritti e rivendicazioni di categoria portate avanti da chi riusciva ad avere più voce, cioè quasi tutti tranne chi non era ancora nato, e soprattutto dal settore pubblico e dalle grandi imprese private. La politica debole assecondava queste rivendicazioni.

 

Non si giungeva però alla redistribuzione sociale. Con la forza si accedeva alla spesa, con le rivendicazioni organizzate si vedevano riconosciuti diritti e privilegi, col controllo della produzione culturale si faceva credere che ciò fosse necessario per il riscatto dei deboli. Si premiavano invece coloro che possedevano quelle forze: altro che i deboli! Gli squilibri preesistenti non vengono meno o ne nascono altri: esiste la dualità del mercato del lavoro, la divisione tra privilegiati e non, tra occupati nelle grandi imprese e disoccupati, tra protetti e tartassati. Lo stesso welfare state era discriminatorio sia in teoria (prediligendo il capo famiglia che lavorava nel pubblico o nelle grandi imprese private) sia in pratica (i diritti e le risorse, scarse, venivano distribuiti in modo diseguale, a seconda dell’appartenenza politica o della compiacenza del funzionario pubblico).

 

I numeri testimoniano il boom del pubblico impiego. Soprattutto tra gli insegnanti e negli enti locali, ma anche nelle imprese pubbliche, nelle partecipate, nelle Poste, nelle Ferrovie. Alle Regioni non andavano solo i dipendenti trasferiti dallo Stato. Gli insegnanti, assunti tramite procedure a punteggio, crescevano: i contestatori passavano dalle piazze alla scuola media. I compagni del movimento passavano da campi e officine in cui non erano mai stati alle scuole.

Gli insegnanti passarono da 1.247.000 nel 1968 a 1.693.000 nel 1980 (53% dei dipendenti statali). Gli occupati negli enti locali passarono da 2.042.000 a 3.002.000, metà dei quali nei ministeri.

 

Cresceva la domanda di servizi pubblici, ma l’incremento degli impiegati pubblici tra il 3 e il 5% annuo (industria e servizi non più di 2% e con meno rigidità: questi settori potevano vedere riduzioni di personale) non derivava solo da più servizi pubblici. Le assunzioni fungevano da ammortizzatore sociale, testimoniavano la volontà di evitare richieste estreme, era paura. Si concedeva l’impiego pubblico per se stesso e non per fornire servizi efficienti.

La retribuzione media dei dipendenti pubblici calava, c’era un livellamento verso il basso, poiché erano privilegiati i dipendenti di basso livello. Si inventava l’indennità integrativa speciale. Se non altro ciò spingeva a una fuga di cervelli dal pubblico verso il privato.

 

L’impiego pubblico sarà sempre una fonte da finanziare e non da cui attingere per i risparmi. Ancora nel 2004 le entrate che rimanevano disponibili dopo aver pagato stipendi, pensioni e interessi erano solo il 10% del pil contro il 15% circa di altri Paesi. Diventa difficile coprire il deficit in modo diverso da minori investimenti o aumento della pressione fiscale se non si colpiscono i dipendenti pubblici o i pensionati.

 

Intanto le forze produttive si avvalevano della domanda di beni e servizi che proveniva dei lavoratori pubblici salariati (e potevano trascurare l’innovazione e la competitività), le forze sindacali acquisivano potere e le forze politiche vivevano quietamente annacquando le rivendicazioni estreme.

 

Gli enti locali potevano permettersi di istituire manifestazioni culturali, gastronomiche, sociali gratuite in cui si ringraziava l’assessore e si portavano avanti ulteriori rivendicazioni. Tutto era concesso, gli enti potevano permettersi l’irresponsabilità finanziaria, centri di spesa a gogo e nessun centro di entrata (prima del ’73 ogni comune aveva le maggiori entrate da quanto riscuoteva dai propri cittadini), nessuna autonomia impositiva o obbligo di copertura delle spese. La riforma fiscale del ’73 fece decidere tutto allo Stato. Cosa successe? Che gli enti locali (e in seguito gli ospedali) emettevano ricevuta e lo Stato pagava.

 

Così i cittadini non percepiscono i costi, assolvono gli amministratori, accettano la partitocrazia e il clientelismo, si creano intrecci perversi con le banche: anche in queste diventa importante avere l’amicizia del politico più che imparare la competizione e l’efficienza o fornire adeguati servizi a basso costo e ad alta qualità ai clienti. Anzi: si preferiva salvare le imprese inefficienti ma protette politicamente piuttosto che finanziare il rischio degli innovatori.

Dall’irresponsabilità nasce anche il disimpegno.

Quando tutto questo non sarà più sostenibile, negli anni Duemila, si arriverà al blocco generalizzato delle assunzioni negli enti pubblici, ma così si evita ogni differenziazione basata su meriti e responsabilità del singolo ente.

 

Gli enti locali pareggiavano automaticamente il bilancio grazie ai trasferimenti erariali, che rappresentavano, per esempio, l’80% delle entrate dei Comuni. Nessuna autonomia impositiva. Irresponsabilità. Nessuna differenza tra enti virtuosi o meno: tutti sarebbero stati coperti dai contribuenti, dai risparmiatori o dalle generazioni future. Il vincolo di spesa era fondato su quella storica, così conveniva ogni anno spendere più di quello prima. Nessuna considerazione qualitativa sulle spese era prevista. A questo punto i cittadini chiedono spese e gli assessori acconsentivano alle richieste.

La spesa era rivolta a finalità redistributive o a fornire servizi, potremmo chiederci? In parte sì, ma soprattutto era trainata dalla capacità di interessi e categorie locali di condizionare il potere decisionale. Siffatta economia assistita era indipendente da considerazioni di mercato e riguardava commesse, appalti, impieghi pubblici, municipalizzate, finanziamenti di associazioni politicamente protette. Il consenso clientelare era il movente politico degli anni Settanta.

 

Le Regioni seguono le stesse problematiche degli altri enti locali. Non nascono a costo zero, a differenza di quanto era previsto e non avevano autonomia impositiva. Anche i tentativi di risanamento restavano imposti dall’esterno. Inoltre alle Regioni sarebbe spettata la gestione della sanità. L’80% della spesa regionale riguardala sanità e anche in quel settore si sono fatte assunzioni in massa.

 

Chi è cresciuto negli anni Settanta vuole ancora tutto per sé. Dichiara di volere i diritti per tutti ma li vuole solo per sé. Il mondo cambia: occupazione nelle piccole imprese, contrattazione decentrata, lavoratori autonomi e professionisti, ruolo dei servizi, in seguito globalizzazione e sviluppi informatici e tecnologici. Il mondo è cambiato e gli ex settantini vorrebbero tornare agli anni settanta.

I diritti che le generazioni precedenti dichiarano di avere conquistato per tutti finiscono per essere goduti solo da loro.

 

Negli anni Settanta e, in misura minore nei decenni successivi, si difendeva solo l’operaio massa, si riconosceva solo il salario suo e poi tutto doveva ruotare attorno a lui, comprese le variabili economiche. Impiegati, tecnici, autonomi ecc. avevano degli interessi che non erano riconosciuti come importanti: solo quelli dell’operaio che considera il lavoro come fonte di reddito e non come altro (realizzazione personale, accumulazione di capitale, qualsiasi cosa lo faccia deviare dal proletariato) venivano ritenuti meritevoli di protezione da partiti e sindacati e movimenti di sinistra.

 

C’è ancora chi difende il pubblico impiego antimeritocratico di massa, la pensione di anzianità, lo statuto dei lavoratori, la scuola del voto politico, dell’obbligo di reintegro nel posto di lavoro a prescindere da ogni considerazione sul perché il lavoratore lo abbia perso, quel posto.

 

Partite iva e distretti industriali hanno tenuto a galla l’Italia, ma di loro non si occupa nessuno. La narrazione li bolla come evasori e antisindacalisti.

 

La retorica dello statuto dei lavoratori difende oggi un mondo inesistente e difende chi appartiene al mondo di prima. Si difendono i privilegi di impiegati pubblici e grandi imprese, creando nuove disuguaglianze. Una generazione che ha conquistato per sé ogni tipo di tutela, a scapito del futuro, si asserraglia nel suo recinto e quando le compatibilità economiche da lei ignorate si presentano a chiedere il conto, pretende di scaricarle su qualcun altro. Oggi lo statuto dei lavoratori non protegge il lavoratore dall’azienda, ma dal suo vicino di scrivania o di fabbrica che non possiede gli stessi diritti perché magari è più giovane. I tentativi di riforma del mercato del lavoro finiscono in contestazioni o annacquamenti.

 

Del resto se si vota e sono tutti d’accordo vuol dire che quello che ci rimette non è presente. Oppure non è ancora nato.

 

Lo Stato sociale che è stato creato in Italia può avere dato delle risposte a condizioni storiche, ma non è un totem. Le cose cambiano, il mondo cambia, nuovi attori entrano in scena. Invece in Italia sembra che ciò che è stato creato nei Settanta debba considerarsi immutabile.

L’welfare in Italia è stato caratterizzato da un approccio ideologico, dalla rivendicazione spinta ai massimi livelli, dal mancato calcolo delle compatibilità economiche, dalla fiducia interessata in uno sviluppo capace di sanare da sé ogni squilibrio, dal presente visto come unica dimensione possibile.

Chi ha goduto dei privilegi dati dall’welfare state negli anni delle vacche grasse si arrocca a difesa dei privilegi conquistati, attacca qualsiasi riforma, fa ampio uso della retorica delle lotte operaie e studentesche.

Il proprio egoismo corporativo è nascosto dal cavallo di troia dell’uguaglianza sostanziale. Tale uguaglianza riguarda solo alcuni e ha come orizzonte i punti di arrivo anziché quella di partenza. L’ordinamento codifica questa diseguaglianza e gli status conseguiti diventano immutabili. I regimi possono estendersi ai nuovi cooptati finché ci sono le risorse, poi possono accedere due cose: o si chiude la cittadella ai nuovi venuti che non entrano oppure si fanno entrare a debito a scapito delle generazioni future. In Italia sono successe ambedue le cose finché la realtà ha fatto capolino e i nodi economici sono venuti al pettine. Strumenti esemplificatori di questa distorsione sono le pensioni retributive di anzianità (con aggancio alle retribuzioni degli ultimi anni: questo è il peggio) e lo statuto dei lavoratori. La base dell’welfare è lavoristica: chi ha un’occupazione di un certo tipo è garantito. Tutti gli altri no.

L’unico strumento di welfare universalistico è stato quello del servizio sanitario nazionale: almeno le prestazioni sono usufruibili da tutti.

 

Il principio del diritto del lavoro è quello di protezione del posto. Il lavoratore è ritenuto un minus habens che non può disporre dei propri diritti, i quali spesso sono inderogabili. Così il lavoratore è sempre ritenuto la parte più debole. Ha diritto a continuità di reddito, conservazione del posto, indennità dii malattia e soprattutto una pensione che gli assicuri il mantenimento del reddito precedente anziché una specie di assicurazione che lo tuteli in caso di difficoltà.

 

Non ci sono strumenti di creazione del lavoro o che favoriscano la mobilità nel territorio. Si assicura il mantenimento posto anche in aziende decotte, indipendentemente dal loro andamento e dai cicli economici. Non per tutti, però. I più privilegiati sono i dipendenti pubblici, poi i lavoratori delle grandi imprese, poi i più anziani e così via. Settori nuovi, più autonomi, più piccoli, meno strutturati, più innovativi, nei quali forse la necessità di protezione sarebbe maggiore, per il possibile sconfinamento nel lavoro irregolare, vengono lasciati a loro stessi o tartassati.

 

 

Diseguaglianze? La spesa sociale è quasi esclusivamente per le pensioni. Si considera debole una persona di sessant’anni che ancora non è andata in pensione e si privilegia rispetto a chi vive in affitto in una grande città, chi è precario, chi ha perso un lavoro, chi è una ragazza madre. Eppure altre forme di welfare esistono nel mondo.

 

 

La generazione (dei lavoratori) degli anni settanta ha rifiutato qualunque ipotesi di riforma che desse un posto a tavola alle generazioni successive. Il loro potere di veto ha rivelato la natura egoistica delle loro rivendicazioni di allora.

 

Lo stato sociale è ingiusto e inefficiente. Il rischio, l’ambizione personale e l’individualismo responsabile sono ritenuti comportamenti da disincentivare. Un eccesso di iniziativa personale rompe le rivendicazioni collettive e quindi chi lo persegue non ha diritto a tutele in caso di perdita di lavoro, difficoltà familiari e così via.

 

Scuola. Declassata a strumento di consenso politico attraverso una politica assistenziale e corporativa. Utilizzata come bacino per risolvere il fenomeno, che essa stessa creava, delle disoccupazioni intellettuale, femminile, meridionale delle scienze umane e sociali. Leader del movimento e baby boomer trovarono approdo nella scuola e la plasmarono a loro immagine e somiglianza. Egualitarismo posticcio, assenza di meritocrazia, assenza di valutazioni, indifferenza alla sostenibilità delle scelte. Proliferazione di insegnamenti deboli, assenza di qualificazione tecnico professionale, assenza di risposte alla modernità, assenza di collaborazione col privato, assenza di relazioni col mondo del lavoro. Già la riforma Gentile degli anni Venti poneva un’attenzione massiccia all’umanesimo ed erano evidenti le concezioni dello stato dominante: stato di governo, stato educatore, stato sindacato. L’unica cultura che conta è quella generale, l’istruzione è disinteressata, il cattocomunismo impera come mentalità insieme all’egualitarismo e all’antimeritocrazia. Conformismo elitario: chi può farà corsi a pagamento. Diplomati e laureati generalisti sbatteranno il viso contro un lavoro che richiede specialisti, quadri intermedi e tecnici qualificati. Sottoinquadramento. Generazione di giovani vecchi.Disastro dei test pisa. La scuola è degli insegnanti, non selezionati, non valutati. Rifiuto di meccanismi di competizione tra scuole e di autonomia scolastica. Ripulsa del federalismo e dell’apertura ai privati. Docenti assunti con concorso ordinario, sicuri che un giorno sarebbero stati assunti in ruolo, leggi che li rendevano dipendenti a vita sicuri, riduzione di orario settimanale, lezioni di 50 minuti per aumentare gli assunti, laureati in materie varie che insegnano altro (economisti a matematica). Aumento degli insegnanti delle elementari. Nel 1991 c’era un insegnante elementare ogni dieci alunni. In Francia c’è un insegnante elementare ogni 17 e in Gran Bretagna 21. La spesa scolastica è quasi tutta per gli insegnanti e questi sono tanti e pagati meno di tutti gli altri dipendenti pubblici.

 

 

 

 

 

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