there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

Ansia da ospedale e da visita dentistica

Hai messo la sveglia alle otto. Sai che il viaggio durerà venti minuti. Ti prendi un’ora per prepararti e un’ora per poter commettere errori o non trovare l’ambulatorio. L’appuntamento con il dentista dell’ASL è alle dieci.
Ti svegli prima e ti rigiri a lungo nel letto, come tuo solito. È divertente. Quando andavi a scuola mettevi la sveglia alle cinque per poterla spegnere e dedicarti al dormiveglia.
Ti alzi da solo. Una volta c’era chi ti svegliava anche se non glielo chiedevi, ma trovavi la colazione pronta. Oggi fai tutto da te, cosa che hai sempre cercato di fare, tranne che per le attività noiose, che aspettavi che le facessero altri.
Sforzandoti, chiedi al coinquilino come si arriva all’ambulatorio. Ci sei stato più volte e lo sai e immagini la strada nella tua testa, ma devi avere delle conferme.
Prendi la macchina, rinunciando all’idea di andare col treno, e vai. Ad un passaggio a livello si ferma, ma non ti blocchi e riparti. Forse un tempo ti ci sarebbe voluto quell’attimo in più che avrebbe spazientito chi era dietro.
Arrivi tranquillamente all’ospedale e porti con te l’ipad, il kindle e un libro dedicato al podismo fiorentino.
Entri e piombi nel panico. Non riesci mai ad entrare in un’ospedale senza che ti venga l’ansia. Anche quando vai a visitare qualcuno, cosa rara, cosa che a volte vorresti fare ma eviti. Troppe emozioni da nascondere, non sapere cosa bisogna dire o fare, paura di commettere errori.
Ti aspetti una scritta enorme:”Accettazione”, che non c’è. Alla tua sinistra, oltre l’ingresso, vedi un distributore di caffè. Tre donne, di cui una col camice, stanno conversando lì intorno. Tu fai finta di essere interessato a leggere i cartelli sulla porta di una sala d’attesa con scritto:”Cup”, centro di prenotazioni.
Pensi a cosa dovresti fare. Chiedere informazioni? No. Riderebbero della tua richiesta o penserebbero che sei matto o disadattato. Sei immerso in un ingranaggio. Se avessi la mente libera e stessi scrivendo, penseresti a Kafka, al Processo o al Castello, ma adesso sei sotto il costante dominio dell’Amigdala (anche questa è una cosa che penserai dopo). Ti senti oppresso dalla burocrazia, dalle mosse giuste da fare. Quando hai fatto la prenotazione telefonica, ti hanno detto che avresti dovuto portare la dichiarazione Iseee, e non ce l’hai e non sai cosa sia e cercherai un modulo che non c’è e pensi che ti aiuteranno, ma poi ascolti una signora dire a suo marito che potrebbero fare storie e tu non vuoi che ti assillino o ti facciano fare qualcosa di non previsto. Non là dentro. Non quando sei così rigido, come adesso, che vaghi per gli uffici amministrativi assicurandoti se per caso non ci siano porte nascoste che conducano a quella sala accettazione. Eppure ci deve essere. Devi pagare. Vuoi pagare. Sai di doverlo fare. Potresti aspettare che te lo spieghi il medico. Potresti chiedere aiuto. Potresti ammettere che l’idea spuntata fin da subito da qualche parte, “prendi il numero e aspetta: vedrai che il posto giusto è lì”, era evidentemente giusta.
Fai tutto il giro della struttura, come se sapessi dove andare o come se dovessi osservare. Non un’esitazione. Ti muovi diretto con lo sguardo fisso davanti a te e gli oggetti in mano. Nessun movimento fuori posto. Con la coda dell’occhio vedi una persona uscire dagli uffici amministrativi, ma non si ferma e non ti chiede cosa stai facendo né se hai bisogno di aiuto. Perfetto. Devi trovare da te la soluzione.
Alle macchinette del caffè, dove sei tornato adesso, speri che le stesse persone che c’erano prima, non facciano caso a te e soprattutto non ti chiedano niente. Altrimenti, diresti qualcosa a monosillabi e allungheresti il passo in una direzione qualsiasi fingendo di avere tutta la situazione sotto controllo.
Scopri tutti gli ambulatori esistenti. Leggi “attivazione della tessera sanitaria.” Dovresti fare anche quella. Ci sono giorni precisi in cui farla. Si potrà fare online o fa parte dell’Ufficio complicazioni affari semplici?” (Anche queste domande te le farai dopo. Adesso sei preoccupato della punizione inevitabile del vampiro allo sportello che godrà nel vedere la tua sofferenza per aver commesso la colpa del mancato rinnovo della tessera e troverà il modo di rimandare l’appuntamento o farti pagare o costringerti a entrare negli oscuri labirinti della burocrazia. Anche questi pensieri non appartengono a quei momenti, è chiaro.)
Prendi il numero nella sala del Cup ed esci. Leggi le indicazioni dei cartelli per trovare l’ambulatorio del dentista. Pensi di dover salire le scale, poi ti sembra che i cartelli indichino il piano terra, sulla destra, ma vai e scopri che lì ci sono soltanto i bagni.
Sali al primo piano e arrivi in fondo senza leggere nient’altro che di otorinolaringoiatri. Rifai il giro e finalmente vedi la stanza dell’odontoiatra. Bene. Una cosa è appurata. È lì che dovrai andare. Non ti sei perso per la strada e non avrai da perdere minuti preziosi per trovare l’ambulatorio e magari arrivare in ritardo e incorrere o nella punizione del medico o nel suo abbandono dovuto alla tua imperizia. (Non sei nelle condizioni mentali di fregartene o di ironizzare o di mandare a fanculo o di sbarazzartene: tutto questo accadrà quando sarai uscito. Allora ne riderai e potrai anche scriverne, perfino enfatizzando, non prima.)
Noti che al secondo piano c’è il reparto di igiene mentale. Tu scendi e ti metti a sedere in attesa del tuo turno alla famigerata sala Cup. I cartelli sulla sua porta li avresti potuti ripetere a memoria, per le volte in cui ti sei fermato a leggerli, se in realtà non li avessi solo osservati.
La donna allo sportello ti lancia un’occhiata. Una signora parla a suo marito e gli spiega come comportarsi, come deve fare, lo istruisce, lo educa, non lo lascia libero. Un signore è seduto all’altro sportello da un quarto d’ora. Forse lui e l’impiegata sono morti e nessuno se ne è accorto. (È noioso ridire che questo pensiero è successivo, lo so, ma lo ridico.)
Davanti all’impiegata da cui dovrai, almeno credi, andare tu, c’è una persona da molto tempo. Ma tu hai un appuntamento tra mezzora. Non puoi aspettare. Se non fossi arrivato con così tanto anticipo, come avresti potuto fare? Saresti salito subito? E ti avrebbero fatto ridiscendere e risalire e poi riscendere e poi risalire e poi fare la maratona delle scale del presidio ospedaliero di Bibbiena Stazione?
Un uomo distoglie la tua attenzione chiedendoti se sei di quella fila e tu gli dici che non hai capito e poi annuisci e lui apre una porta del servizio protocollo ma si trova davanti il buio, scuote il capo e se ne va.
È il tuo turno. Ti sei preparato la frase da dire:”Ho un appuntamento col dentista.” O avresti dovuto dire “l’odontoiatra?”
Intanto un uomo da fuori si è permesso di chiudere la porta, lasciandoti con una strana sensazione di claustrofobia. L’avesse fatto uno dall’interno sarebbe stato più accettabile. Da quel momento, comunque, chi entra inizia a chiudere la porta, mentre prima tutti la lasciavano aperta.
Ci sono altre quattro persone in attesa, lo stesso numero di quelli che erano avanti a te e si sono rivelati molto veloci nei loro adempimenti.
La signora allo sportello ti chiede se hai prenotato col numero verde e ti chiede il codice. Sembra tranquilla. Non pone spade di Damocle in bilico sopra la tua testa. Tu sei orgoglioso di avere il codice. Lo hai cercato apposta nelle cianfrusaglie. Sapevi di averlo annotato su un post it e una volta visti quei fogli gialli nella busta dove c’è una multa da pagare, ritrovarlo è stato un attimo. Pensa che tragedia se qualcuno si fosse divertito a spostarli per la balzana idea di fare ordine nella tua vita. Avere quel numero ti avrebbe procurato vantaggi rispetto alle migliaia di persone che vanno lì e lo fanno cercare all’impiegata, cosa che avresti fatto anche tu confidando nella sua compassione.
“Inizia col nove”, ti dice. Ma il primo numero è un quattro. Ti accorgi che però il terzo è il nove e allora procedi spedito, avendo la certezza che il numero che stai dicendo è quello giusto.
Il modulo per l’autocertificazione della dichiarazione Iseee lo stampa lei (al telefono ti sembrava ti avessero detto che dovevi portarla tu e questo ti ha procurato angoscia, ma non ti eri preparato a portarla.) Spendi ventidue euro. Ringrazi chi paga le tasse sulla benzina per darti un servizio a basso costo. Forse non così basso. Forse ci sarebbe da fare un calcolo per vedere se il costo da contribuente non sia superiore ai benefici da assistito, anche a prescindere dalle code derivanti dai bassi prezzi, ma non è il momento per pensarci. Non saresti in grado di formulare un pensiero analitico, ancora. Devi solo fare una cosa dopo l’altra. Come un automa. Ti vedrai che guardi una parete bianca, nella sala d’attesa dell’ambulatorio, tra poco, e ti immaginerai con lo sguardo fisso e sbarrato. Davanti alla signora avevi chiaramente mostrato più tranquillità e mosso gli occhi e parlato normalmente, ma poi sei tornato a eseguire le istruzioni del cervello in modo automatico e freddo. Non sai se eri bianco in viso, ma ti descriveresti così.
Paghi. La signora ti rilascia una ricevuta e non capisci se devi tornare, ma il più è fatto. Il rapporto con l’altro è finito bene.
In sala d’attesa sfogli il libro, senza riuscire a concentrarti nella lettura. Apri l’ipad, vedi uscire la persona che era prima di te, lo chiudi nascondendolo, come a non voler mostrare niente di te. Sai che ti stanno per chiamare. Ripensi a quando, da piccolo, in collo a tua madre in uno studio medico, prendesti un giornale per leggerlo e un compagno di classe ti imitò facendo finta di leggerlo anche lui e ripensi a quanto ti dia fastidio che qualcuno che sai non è interessato a cosa fai o dici ti chiede di parlarne, dato che non gli interessa. Se decidi di aprirti, magari capita che non capisca o ti derida o sminuisca o non accetti o dica delle inesattezze. Una volta leggevi cose che ti interessavano a qualcuno che sembrava contento di ascoltarti e poi dimostrava di non curarsene o non ti capiva o cercava di normalizzare te o quello che leggevi, facevi, dicevi. Hai smesso di parlare, finché proprio non riuscivi a farne a meno oppure lo hai fatto solo con chi volevi tu, ma ti ce ne è voluto del tempo.
Vedi che hai attaccato il giubbotto all’attaccapanni. Non ti ricordi quando è stato. Pensi che tra poco uscirai e sarai di nuovo libero.
Pensi che questa ansia la provi o l’hai provata anche in altre occasioni. Quelle nuove, quelle in cui sei immerso in procedure da eseguire dettaglio per dettaglio, quelle in cui devi mostrare quei documenti, quelle in cui vorresti comportarti bene o anche solo lasciarti andare, quelle in cui hai paura di sfigurare o temi che qualcuno ti giudichi male e ti abbandoni. Certo. Pensi che molti anni fa, forse, era molto peggio, ma qualcosa resta sempre dentro e ti procura ansia.
Pensi alla visita di leva, alla routine nelle sale degli aeroporti, alle feste, alle cene, agli esami universitari, al rilascio dei pettorali durante le gare, ai colloqui di lavoro, alle telefonate. Pensi che ogni volta il problema, più o meno grande, si presenta “prima”. Poi vai e ti rilassi. Sono le attese che ti fregano. Pensi che se qualcuno si chiede perché ci metti tanto tempo per trasformare un’idea in azione, qui può trovare una risposta. Sai che va a finire che ti butti e il tuffo ti piace. Come quel giorno dalla barca in Sardegna. Avevi pensato “non mi butto” dieci volte più di “vado”, ma ti sei tuffato ed è stato bellissimo.
Rieccoti in sala. La porta si apre. È una donna. Hai un minuto di confusione mentale. Ti eri immaginato un uomo. Non è maschilismo. È deviazione tra pensiero e realtà. È l’assistente. Lui è seduto e inespressivo. Cerchi un luogo in cui appoggiare i tuoi oggetti: è una sedia. Speri non caschino.
Il dentista ti visita, ti fa male, gli dici che hai freddo così ti anestetizza, ti dice che il dente andrebbe devitalizzato, muovi le spalle come a dire “embè, fatelo”, lui dice che costa centosessanta euro, fai “ah”, lui dice che intanto fa un’otturazione e poi ci penserai, tu credi di spuntare un prezzo migliore da qualche privato, maledici le tasse che paghi per la sanità pubblica che non è nemmeno gratuita, poi pensi ai casi gravi davvero e fai almeno un po’ marcia indietro, lui intanto esegue, canta, ripete in continuazione “che buco! C’è il buco!”, finisce molto presto, hai tempo di pensare al ragazzo che era andato a vivere a Londra e ti aveva detto che i primi tempi uno dei problemi da affrontare a cui non aveva pensato era stato il dentista. Inoltre hai pensato al fatto che Londra ti chiama, mentre non hai potuto pensare di mordere il pollice del dentista e costruirti una storia durante l’intervento perché c’era la luce abbagliante della lampada sui tuoi occhi.
Sei uscito chiedendo se avessi lasciato qualcosa, riprendendo gli oggetti, rimettendoti il giubbotto e finalmente hai potuto riassaporare l’aria aperta e la libertà di pensiero e comportamento. Sei andato da Euronics a cercare una borsa per l’ipad, senza comprare niente ma notando che in quel centro commerciale era sparito il bar, poi a trovare i nipoti che non c’erano e hai iniziato a pensare con nostalgia a tanti episodi del passato. Ti è anche venuta in mente una frase da status su Facebook:” È bello avere nostalgia. Vuol dire avere vissuto..”

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