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Lo stupore delle prese elettriche

Antitrust e collusioni politiche.

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Da:”L’intelligenza del denaro,” di Alberto Mingardi

Le autorità antitrust, cioè favorevoli alla concorrenza, hanno successo anche tra gli economisti.
Lo Sherman Act, però, spesso citato dai favorevoli alle regolamentazioni antitrust, fu una reazione degli sconfitti dal progresso.
“il consolidamento industriale consentiva sia di sfruttare meglio le economie di scala (si hanno economie di scala quando i costi di produzione crescono meno rapidamente della produzione e, pertanto, si ottiene una riduzione nei costi unitari al crescere della quantità totale prodotta) sia di recuperare più facilmente capitali, in un contesto nel quale i mercati di capitali erano ancora molto primitivi. I detentori di risparmi da investire erano ancora una frazione piccolissima della popolazione.”
l’impressione è che gli architetti dell’antitrust fossero preoccupati dei prezzi «troppo» bassi che danneggiavano le piccole imprese in concorrenza con i trust e, allo stesso tempo, temevano che la crescita dimensionale dei trust consentisse loro di pretendere prezzi «troppo» alti: nonostante di questi ultimi li inquietassero più gli effetti allocativi (troppo denaro che entra nelle medesime tasche) che il danno per i consumatori. E tuttavia, non è facile tutelarsi, con lo stesso dispositivo legale, da prezzi che si considerano «troppo» alti e da prezzi che si considerano «troppo» bassi!
L’antitrust trovò il suo paladino in Teddy Roosevelt, un populista che costruì consenso presentandosi come difensore dei «piccoli» contro lo strapotere delle concentrazioni. Egli creò la Federal Trade Commission, cui nel 1934 si sarebbe aggiunta una sezione dedicata del dipartimento di Giustizia, per far rispettare le norme antitrust. Autorevoli studiosi hanno però sottolineato che «Roosevelt rigettò la deconcentrazione per addomesticare le grandi imprese attraverso la supervisione e la pianificazione governativa». Operò con il metodo del «colpirne uno per educarne cento» e, a dispetto del suo motto, mentre teneva in mano un grosso bastone faceva la voce più grossa ancora. I suoi obiettivi, e così quelli dei presidenti che sarebbero venuti dopo di lui, avevano poco a che fare con l’assicurare un buon funzionamento del mercato.

Prendiamo il caso di Rockefeller. Lui divenne miliardario perché aveva sviluppato una tecnologia che gli consentiva di produrre da un barile di petrolio più cherosene di qualsiasi suo concorrente. Ciò permetteva loro di fare prezzi sempre più bassi. Fra i petrolieri che non riuscirono a stare al suo ritmo, anche il padre della detrattrice Ida Tarbell. La Standard Oil era riuscita a esprimere tutto il potenziale delle economie di scala in un mondo nel quale le distanze stavano accorciandosi. Grazie alla abilità manageriali e alle dimensioni raggiunte dalla sua azienda, Rockefeller riuscì a ridurre i costi di trasporto, spuntando prezzi inferiori dalle ferrovie. La sua creatura venne dissolta nel 1911 con una iniziativa «proconcorrenziale» delle autorità, nonostante la sua quota di mercato fosse diminuita con il tempo. Questo era avvenuto proprio perché il suo successo aveva segnalato a nuovi, potenziali concorrenti l’esistenza di un mercato profittevole nel quale entrare. Non c’erano barriere legali che impedissero di cimentarsi nel settore della raffinazione petrolifera.

La strategia di praticare prezzi artificialmente bassi per portare al fallimento i propri concorrenti pare davvero singolare: la cosa più simile al masochismo economico di cui si abbia notizia. In prima battuta, essa può avere successo soltanto nel breve o nel brevissimo termine. Se un’azienda decide di non essere profittevole nel breve periodo per eliminare la concorrenza, nel medio dovrà comunque tornare a prezzi che le consentano di guadagnare. Quando questo accade, nuovi concorrenti potranno considerare l’ipotesi di entrare nello stesso mercato. A quel punto, bisogna ricominciare con le vendite a prezzi insostenibilmente bassi? Un andamento «a fisarmonica» di questo tipo leverebbe il fiato a qualsiasi impresa.

Troppo spesso l’antitrust è una sorta di velame ideologico che nasconde un’ostilità preconcetta nei confronti della grande industria. Gli economisti sono convinti che i mercati funzionino meglio quanti più sono i concorrenti. C’è del vero: se il mercato è un processo di scoperta, più sono i tentativi (e gli errori) dai quali imparare e meglio è. D’altro canto, chi può dire a priori quanti debbano essere i concorrenti, in un certo mercato? È comprensibile avere un’attitudine sospettosa verso le aziende di grosse dimensioni. Ci sono buone ragioni anche per essere convinti che il big business esibisca un forte potere di ricatto nei confronti della politica. Chi dà lavoro a molte persone è un interlocutore privilegiato dalla classe politica, che spera di farsi votare dagli impiegati di quell’azienda. In alcuni ambiti, il settore bancario per esempio, imprese divenute molto grandi si sottraggono alla possibilità del fallimento adducendo la ragione che una loro bancarotta avrebbe effetti (negativi) «sistemici»: cioè produrrebbe svantaggi anche per terzi che non hanno avuto alcuna parte nelle sue scelte in fatto di assunzione di rischi. Questo è un problema. Chi è grande, ricco e influente riesce più facilmente a «catturare il regolatore», a farsi scrivere norme a suo uso e consumo, a evitare la sanzione fallimentare nel caso commetta degli sbagli. Parrebbero essere tutti buoni argomenti per limitare artificialmente la crescita delle imprese.
Il mondo è però pieno di grandi imprese che non sono troppo grandi per fallire.
Se Apple fallisce non ci sono effetti sistemici.
Il problema è che siano i regolatori a giudicare qualcuno troppo grande per fallire. Un’impresa può diventare molto grande perché innovativa. Poi possono subentrare concorrenti che cercano di differenziare i prodotti. Un’impresa può acquisirne altre clienti o fornitrici o concorrenti per vari motivi volti a migliorarsi. Inoltre le imprese possono fare anche altre cose, entrare in nuovi business, cambiare il proprio core e così via. In ogni caso non sappiamo i perché delle scelte imprenditoriali e non sappiamo soprattutto quale sia la loro dimensione ottimale. Anche dove c’è concorrenza perfetta, come nelle edizioni dei romanzi classici, c’è differenziazione di prodotto.
Il problema non è tanto la dimensione dell’impresa, quanto il fatto che non possa fallire grazie alle decisioni discriminatorie del regolamentatore, dettate magari anche delle richieste del politico amico del grande imprenditore (sempre che il regolamentatore non sia pure lui amico dei due.)

A volte le decisioni dell’antitrust portano a buoni risultati, come per le baby bells, ma di solito le denunce all’antitrust sono date dagli sconfitti che vogliono essere protetti.
Il vero nemico dell’antitrust dovrebbero essere i monopoli legali e quelli che lo Stato costituisce o protegge.
I monopoli legali sono aziende cui il potere politico assegna privilegi particolari e costruisce delle nome per garantire tali privilegi.
Le autorità antitrust assolvono a una buona funzione quando liberalizzano e tolgono monopoli statali, per quanto questi abbiano degli amici tra i decisori politici.
Gli statalisti presuppongono di essere quelli che mettono le pedine su una scacchiera e ne definiscono le mosse con l’obiettivo di dare scacco al re. In realtà non conoscono i desideri, i bisogni, le aspettative e quindi le motivazioni delle loro scelte che nascono da decisioni interne e non o non solo da moti esterni.
Gli attori del mercato hanno obiettivi diversi non predeterminabili e volerli ingabbiare in uno schema determinato dall’esterno produce inefficienza e disordine.

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