there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

Appunti da Genova

Appunti da Genova e un po’ anche da Firenze. Presi sabato 5 e domenica 6 novembre e poi lasciati un po’ macerare.
Al bar della stazione di Campo di Marte di Firenze un cinese fa razzia di paste e cappuccini da portare al tavolo e per ordinare ci mette un quarto d’ora. Già che la barista è lenta di suo. Sono in coda, ma piazzo un vaffanculo e mi dirigo verso il binario 3 da dove parte il treno per Genova.
Mi siedo in una carrozza semivuota, se non che una signora ascolta il telefonino senza cuffie e una volta guarda un video e un’altra si mette ad ascoltare una musica spagnola. La infamo mentalmente e cambio carrozza. Anch’essa semivuota.
“ Questo è un controllore,” penso. Mi guarda. Si siede nella fila antistante a me. Sa che ho sbagliato posto. Mi osserverà tutto il viaggio. Invece no. Arriva il capotreno e questi discutono con simpatia ma lui non ha il diritto di ammissione e l’altro gli fa rapporto e “non mettermi in imbarazzo” e fa una telefonata e “oh senti il capotreno te lo passo?”
Bambini girano intanto per il corridoio e così tra tutti cercano di distrarmi dalla mia occupazione di lettore di cinque libri contemporaneamente. Non ci riusciranno.
Arrivo a Genova. Mi sembra di essere tornato al mio primo giorno a Bergen. Piove. Sono spaesato. Tira vento. Fa freddissimo rispetto a come sono vestito. I bagni della stazione, per di più, sono fuori dall’atrio. Entro in un bar. Prendo un caffè. Mi rilasso. Cerco il caldo di una libreria. Esco. Con calma. Non so dove andrò. Penso che forse non ho mai visto la lanterna. Ogni tanto mi scappa un maremma diavola, come quando mi accorgo di avere sbagliato strada. Google Maps: sempre sia lodato.
Cerco le migliori trattorie e le migliori focaccerie di Genova su Dissapore e le trovo. Mi dirigo verso una focacceria, Zena Zuena o qualcosa del genere. Sia quella al formaggio che quella al pesto sono buonissime. Si è fatto mezzogiorno. Ero venuto a Genova anche per andare al Festival della Scienza. La mostra sui cambiamenti climatici non è granché: sono delle enunciazioni di idee fatte da degli studenti di scuola media. Leggo un cartello che dice che a Genova le serate sono tutte uguali e ricordo che c’era chi si lamentava della noia di vivere a New York. Non so cosa penserebbero se dovessero vivere in un posto in vetta a una montagna.
In piazza De Ferrari c’è una libreria scientifica in un gazebo. Ne approfitto per segnarmi alcuni titoli da comprare eventualmente su Amazon. In una pasticceria accanto ci sono le Madeleine, ma mi limito a un caffè e soprattutto alla toilette. Esco. Inizia a piovere. Trovo riparo nel palazzo ducale, dove ci sono degli allestimenti per il festival, due mostre, tra cui quella su Andy Warhol, delle panchine su cui mi siedo in attesa che smetta di piovere. Ne approfitto per leggere qualcosa e per caricare i miei aggeggi elettronici al powerbank.
Decido di tornare in Via del Campo e così passo per i vicoli genovesi, i famosi Caruggi, di cui ho studiato la storia nelle panchine di cui sopra. Nel giro, scopro anche la chiesa della Nunziata, molto ricca di ornamenti. Mi guardo bene dal lasciare l’offerta desiderata, arrivo al negozio di Via del Campo oggi dedicato ai cantautori. Mi piacque di più quando ci capitai una quindicina di anni fa.
Dato che non tira vento, fa meno freddo di stamani. Sono ormai le 17,30 e c’è una conferenza all’aula magna dell’università. Un tale Silvio Micali, che ha vinto il Turing Awards nel 2013 e lavora al MIT, parla delle prove computazionali. La cosa che mi è rimasta più impressa è che nell’universo il numero di particelle è di 2 alla 300.
Facendo un giro su Facebook scopro che ci sono troppe cose che presuppongo che gli altri sappiano e me ne sorprendo. Esco comunque dall’aula magna e mi dirigo verso la casa di Alessandro, che mi ospiterà. Curiosamente la metro ha i tornelli aperti, ma non vuol dire che non si debba pagare il biglietto, anche perché all’uscita c’è il rischio che ci siano i controllori. Non si capisce perché non tengano i tornelli chiusi, allora.
Della trattoria in cui siamo stati a mangiare non ricordo il nome (rettifica: si chiama “Come a Casa”, ndrr). La zona era Sant’Agostino, una di quelle che la vulgata internautica dice siano state riqualificate. Le lasagnette col pesto e i pansoti in salsa di noci hanno valso la pausa cena. Naturalmente, col pesto bisogna fare la scarpetta. Da non perdere i frisceu e i cuculli. Uno dei due si chiamerebbe coccolo a Firenze.
Nei vicoli dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi siamo entrati al bar La Lepre che ci ha deliziato di San Simone e Assenzio mentre Alessandro e un suo amico parlavano di meeting di couchsurfing. Poi ho saputo della cattedrale di San Lorenzo dei tredic scalini, della scacchiera disegnata, del cane scolpito, di Cristoforo Colombo e della sua presunta casa natale. Uno dei posti più carini che ho visto forse in tutta la mia vita si trova poco prima o poco oltre porta Soprana: il bar Piccolo Mondo. È tenuto da un greco che ha vissuto mille peripezie e conosce fisica, chimica, ingegneria e simili e costruisce tanti rompicapo che intrattengono i clienti, tra una gaussiana, un momento angolare, un moto perpetuo, tante curiosità scientifiche trasformate in giochi a cui puoi giocare tutta la sera, un bicchiere di mirto e una barista discreta. Il titolare si chiama Stavros, per la cronaca.
La mattina dopo giriamo per i vicoli di nuovo, per Sotto Ripa che serviva per il trasporto delle merci da mare a terra quando ancora non esisteva il porto, per via Balbi, per via Pré che sembra una delle periferie parigine piene di extracomunitari (ma non gli ecuadoregni, sfrattati a Sampierdarena dai nordafricani), per piazza Banchi con la sua chiesa verde e rossa, per le vie dove ci sono i bassi in alcuni dei quali fanno affari le prostiute, per il quadrilatero della morte, per piazza Don Gallo, dedicata al prete degli ultimi nelle vie degli ultimi, quelle dove non è sicuro passare di sera e forse nemmeno di giorno. Si vedono le mille chiese e la prima banca del mondo, forse, il Banco San Giorgio, dalla cui nascita deriva anche lo stereotipo dei genovesi tirchi. La vista di una delle creuze è l’ultimo passo prima di giungere alla stazione, passando per il porto antico e dando un ultimo sguardo al mare.

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