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Lo stupore delle prese elettriche

Ascesa e declino: dinamica salariale e modello di crescita irresponsabile.

Da “Ascesa e declino” di Emanuele Felice.

Nel 1975 viene sancito l’accordo sul punto unico di contingenza e sulla scala mobile. L’aumento dei salari viene ancorato a quello dei prezzi e “sarebbe stato uguale per tutte le categorie, e ancorato al livello più alto vigente fra i diversi settori e le qualifiche dell’industria («punto unico di contingenza»). Le conseguenze sono un incremento proporzionalmente maggiore per i redditi più bassi e, con un’inflazione che viaggiava allora fra il 15 e il 20%, il progressivo livellamento delle differenze di retribuzione fra le qualifiche.” Questo fenomeno di indicizzazione è il più favorevole ai lavoratori tra tutti quelli adottati in Occidente. Le imprese scaricano gli aumenti sui prezzi e sui mercati esteri sono favorite dalla contemporanea svalutazione della lira.In pratica si ritiene il salario come una variabile indipendente dalla produttività. Il meccanismo è fortemente iniquo perché l’inflazione in questo modo non colpisce i lavoratori dipendenti, ma produce perdite per i risparmiatori e non tutela i disoccupati, che nel periodo crescono come numero.
“Lo schema di indicizzazione inaugurato allora incarnerà il punto di svolta italiano verso un modello di crescita basato – appunto – su inflazione «all’interno» e svalutazione del cambio «all’esterno»; e per questa via su bassa produttività, ridotta dimensione delle imprese e specializzazione verso i settori leggeri; dato che un’inflazione elevata comporta maggiori spese per gli interessi sul debito pubblico, quel meccanismo parzialmente influirà anche sull’esplosione della spesa che si osserva negli anni ottanta.”
Il problema in sé non è tanto la realizzazione di questo modello, ma il fatto che, a differenza che in altri Paesi, tale imprinting sia rimasto nella mente e nelle azioni della classe dirigente.
Dopo il secondo shock petrolifero e l’ingresso dell’Italia nello SME, si arriverà alla graduale riduzione della scala mobile, completata con la sua abolizione solo nel ’92. L’inflazione si ridurrà fino al 4%, anche grazie all’autonomia della Banca d’Italia nell’acquisto di titoli pubblici e al legame tra inflazione programmata e aumenti salariali. Il problema è che anche laddove le riforme adottate in altri Paesi vengono in parte adottate in Italia, il processo è molto più graduale, molto più conflittuale e anche dannoso. L’inflazione viene ridotta, ma è sempre più alta che negli altri Paesi.
“Nella seconda metà degli anni settanta, in fondo, politiche espansive erano in atto in tutto l’Occidente, sul lato monetario come su quello fiscale, anche se generalmente meno ambiziose che da noi. Specularmente, negli anni ottanta la lotta all’inflazione e il contenimento della spesa diverranno obiettivi prioritari di quasi tutti i governi occidentali (anche di quelli di sinistra, come il francese, che vi si dovrà adeguare), sorretti in ciò dal nuovo credo neoliberista impersonato, pur con accenti diversi, dalla Thatcher e da Reagan. Proprio da questa prospettiva comparata, Salvati ha potuto definire il caso italiano una «stabilizzazione incompleta e semi- conflittuale». Semi conflittuale, perché lo scontro con i sindacati non è stato portato alle estreme conseguenze, come avveniva nell’Inghilterra della Thatcher, e come sarebbe stato se il governo Craxi avesse proposto l’abolizione tout court della scala mobile; nei fatti, l’esecutivo italiano si è fermato su una soluzione di compromesso, che se l’ha visto rompere con il sindacato maggiore (la Cgil), gli ha consentito di accordarsi con le altre organizzazioni confederali. Al tempo stesso, però, non si è trattato nemmeno di una stabilizzazione consensuale, come quella realizzata in ampie aree dell’Europa continentale (dai Paesi Bassi alla Germania, alla Scandinavia) dove, a differenza che in Italia, la magna pars della sinistra era rappresentata da partiti di governo, con una radicata tradizione riformista e una buona capacità di orientare il movimento operaio verso i nuovi obiettivi; unico caso in Europa occidentale, da noi il maggiore partito della sinistra era privo di esperienza di governo e, di contro, il Partito socialista non aveva né la forza, né l’autorevolezza necessarie per fare accettare alla maggioranza dei lavoratori proposte impopolari.”
Malgrado la riduzione dell’inflazione, l’Italia poté continuare a svalutare la lira e quindi il modello pernicioso inflazione-svalutazione perdurò negli anni Ottanta.
“Il processo favoriva infatti le piccole imprese e quelle attive nei settori a minore contenuto tecnologico. Per capire come ciò potesse accadere, occorre considerare una fondamentale discrasia: l’aumento dei prezzi, ancorché sintetizzato da un indice medio (l’inflazione, appunto), non è uguale per tutti i prodotti, nel senso che ci sono alcuni beni e servizi i cui prezzi salgono più di altri; la svalutazione del cambio, invece, ha valore erga omnes , ovvero riguarda allo stesso modo tutte le merci da esportare che diventano più competitive (e rende più costose, ugualmente in modo uniforme, tutte le importazioni). Le imprese di piccole dimensioni, che non dovevano ottemperare allo Statuto dei lavoratori e soffrivano in genere di minori vincoli normativi – o più spesso potevano non rispettarli – vedevano crescere debolmente i loro costi salariali e quindi applicavano minori aumenti di prezzo; di conseguenza, traevano poi maggiori vantaggi dalla svalutazione (che scattava per compensare aumenti di prezzo originati nelle imprese maggiori o nel settore pubblico). In breve, tutto ciò rafforzava la vocazione dell’Italia verso i settori manifatturieri leggeri: in rapporto ai suoi settori «pesanti» o più intensivi in capitale (e quindi spesso a maggiore innovazione); e anche in rapporto ai settori manifatturieri leggeri degli altri partner europei, che cedevano il passo al made in Italy.”
Un altro segnale di continuità è dato dal debito pubblico.
“Il debito continuerà a crescere, sul finire della Prima Repubblica alimentato anche dal peso degli interessi (elevato perché l’Italia scontava ancora un differenziale di inflazione con gli altri paesi europei). Tuttavia, mentre l’inflazione si può riportare sotto controllo in poco tempo, lo stock del debito rimane – pure una volta raggiunto l’attivo di bilancio – come un fardello a pesare sulle generazioni successive. Anche in questo caso, occorre poi guardare un po’ più in là della variabile considerata. Così come l’inflazione (e la connessa svalutazione), pur venendo superata, lascia in eredità un modello di sviluppo orientato all’esportazione nei settori a bassa tecnologia che dura fino ai nostri giorni, anche il debito pubblico, oltre a se stesso, si trascina dietro tutta una serie di problematiche di tipo istituzionale e sociale – dal clientelismo all’evasione, al malfunzionamento del sistema burocratico e amministrativo – che in vario modo si legano all’espansione di una spesa incontrollata.”

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