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Lo stupore delle prese elettriche

Ascesa e declino. Gli anni Novanta

Da “Ascesa e declino dell’economia italiana” di Emanuele Felice.

Crollo del muro, integrazione franco tedesca, riunificazione della Germania, unione europea, spostamento degli Stati Uniti che considerano meno importante l’Italia e più importante la Germania, parametri per entrare nell’unione europea stringenti.
“Questi criteri erano la stabilità dei tassi di cambio (fra l’altro occorreva trovarsi all’interno dello Sme da almeno due anni), la convergenza dei tassi di inflazione e dei tassi di interesse, un rapporto deficit/Pil non superiore al 3% e uno debito/Pil non più alto del 60%. È evidente che l’Italia versava in una situazione di particolare incertezza, se non altro per le condizioni delle sue finanze pubbliche, che rendevano praticamente impossibile centrare il traguardo del rapporto debito/Pil sotto il 60% (nel 1992 era al 105%) e alquanto incerto anche il rispetto del rapporto deficit/Pil sotto il 3% (nel 1992 era al 9,2%); ma erano elevati anche i differenziali del tasso di inflazione e del tasso di interesse.” Per realizzare questi obiettivi Amato arriva all’espropriazione dei depositi bancari. La totale liberalizzazione dei mercati dei capitali rende i paesi deboli oggetto di attacchi speculativi. Italia e Gran Bretagna svalutano e escono dallo Sme. Viene in seguito attuata una manovra di 90000 miliardi di lire.
Gli effetti sul pil sono pesanti, anche se questo cresce in media dell’1,85 l’anno. L’Italia inanella una serie di avanzi primari per riequilibrare il rapporto tra debito e pil.
Con Tangentopoli il vento sembra cambiare. Crolla la Prima repubblica. Gli italiani passano ad eccesso di alternanza dopo decenni di assenza di alternanza.
“All’inizio degli anni novanta, l’Italia aveva bisogno di un lungo ciclo, coerente, di politica riformatrice, incarnato da una rinnovata classe dirigente e capace di indirizzare il paese verso un più maturo modello di sviluppo, come richiedeva il nuovo contesto internazionale contraddistinto dalla globalizzazione e dalla nascita dell’euro. Quel ciclo politico sarà però troppo breve, limitato agli anni novanta e comunque, al suo interno, turbolento e discontinuo. E forse non è senza significato il fatto che la sua fine prematura si debba in massima parte a errori di quella stessa classe politica che avrebbe dovuto, invece, mostrare larghezza di vedute e profondità strategica.”
Alla fine l’Italia entra nell’euro ma per farlo un quinto della ricchezza prodotta viene prelevato dallo Stato.
“Il traguardo dell’euro fu centrato. Sembrò allora un risultato storico, che avrebbe stabilmente rimesso l’Italia sul sentiero della crescita. Assai poco nell’opinione pubblica si ragionò a quel tempo sul fatto che il vincolo dell’euro rendeva non più prorogabile il cambiamento nel modello di sviluppo, giacché la politica monetaria, valutaria e anche fiscale, ma pure la politica industriale, la performance amministrativa, il sistema di ricerca e innovazione, in sostanza si sarebbero dovuti improntare agli standard della Germania. Si pensi che lo stesso andamento del Pil che abbiamo testé ricordato, tutto sommato apprezzabile, era dovuto al crollo del cambio, che fra il 1993 e il 1996 (data di rientro nello Sme) aveva perso ben il 30% del suo valore e quindi aveva fatto da traino alle esportazioni. Eravamo insomma ancora all’interno del modello di sviluppo seguito a partire dagli anni settanta: la svalutazione competitiva. Ma da ora in avanti la crescita basata su inflazione, svalutazione e debito pubblico non sarebbe più stata possibile.”
Cosa è stato fatto per adeguarsi agli standard della Germania?
“nel 1990 era stata finalmente introdotta la normativa antitrust (di cui come si ricorderà si parlava fin dagli anni sessanta); nel 1993 il Testo unico bancario aveva eliminato ogni residua specializzazione fra credito a breve, medio e lungo termine e aveva permesso limitate partecipazioni delle banche nelle imprese e viceversa; fra il 1990 e il 1993 si era avviata la privatizzazione delle imprese pubbliche (ne parleremo). Si era poi fatto molto sui fondamentali macroeconomici – inflazione e debito pubblico – come accennato: per il contenimento della spesa, la riforma di maggiore impatto era stata quella pensionistica del governo Dini, nel 1995, la quale introduceva, se pur gradualmente (ma si procedeva con cautela anche negli altri paesi), il sistema contributivo in luogo di quello retributivo. Restavano però carenti ben altri fondamentali dello sviluppo economico italiano. Due aree in particolare meritano di essere approfondite: una riguarda le attività di ricerca, l’innovazione, la formazione del capitale umano; la seconda concerne la performance del sistema amministrativo e, più in generale, la congruità dell’architettura istituzionale italiana rispetto ai livelli propri dei paesi avanzati.”

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