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Lo stupore delle prese elettriche

Ascesa e declino: i segni del declino erano già presenti negli anni del boom.

Da “Ascesa e declino” di Emanuele Felice.

E’ importante capire che in quegli anni la situazione economica era molto florida e non si sentiva la necessità di toccare rendite di posizione o interessi precostituiti dato che il Paese sembrava indirizzato verso il raggiungimento del massimo benessere per tutti. La crescita del pil continuava: +5,8% all’anno fino al 1969.
I lavoratori ottengono aumenti dei salari superiori a quello della produttività (oltre a ottenere altri benefici come la settimana lavorativa di quaranta ore) e le stesse rivendicazioni del’68 sono in buona parte accolte.
“è con il 1968 che si apre in Italia la stagione delle «grandi illusioni», destinata a durare per tutti gli anni settanta (e forse anche oltre)”
Ancora fino al 1973 il Pil comunque cresce, anche se meno che negli anni passati.
(4,1%.) L’inflazione aumenta, ma era ragionevole pensare che presto sarebbe stata rintuzzata, come era avvenuto dopo il ’63. Gli shock petroliferi futuri non potevano essere previsti.
In tutto l’Occidente si assisteva a una ripresa dell’inflazione, a guadagni salariali maggiori rispetto alla produttività, a rivendicazioni di maggiore equità ecc.
“Mai le cose erano andate così bene, in tutto l’Occidente (si pensi allo sbarco sulla Luna, nel 1969) così come in Italia. E da noi, in particolare, perfino l’ambizione di coniugare crescita ed equità sembrava stesse dando i suoi frutti: dal 1948 al 1973 il reddito medio si era moltiplicato per quattro, mentre la popolazione era passata da 46 a 55 milioni; contemporaneamente il Sud era riuscito ad accorciare le distanze con il resto del paese, di 10 punti (da 61 a 71, fatta 100 l’Italia); il coefficiente di Gini, che misura la disuguaglianza fra le persone, era diminuito (invece di aumentare, come di
solito accade nelle fasi di rapida crescita); e ancora, la speranza di vita alla nascita era salita da 65 a 72 anni; anche nell’istruzione si erano registrati enormi passi avanti (pur ammettendo che si sarebbe potuto fare di più, essendo il divario con gli altri paesi avanzati tutt’altro che colmato). Il tasso di analfabetismo complessivo era crollato in vent’anni (1951- 1971) dal 14 al 6%; praticamente. Profonda era stata la trasformazione sociale del paese, o quel che si dice il «cambiamento strutturale»: nel 1973, ormai 7,7 milioni di italiani lavoravano nell’industria (il 38% dell’occupazione totale) e 8,9 milioni nei servizi (il 44%); in agricoltura gli addetti si erano ridotti a 3,6 milioni (il 18%), mentre ancora nel 1963 ammontavano a 5,7 milioni (il 28%)  . Era scomparsa la classe dei grandi proprietari fondiari e si andava riducendo a vista d’occhio quella, contrapposta, dei contadini poveri; accanto ai grandi capitalisti, stava emergendo un vasto ceto di piccoli imprenditori, attivi nell’industria ma anche nei servizi; si ingrossavano le fila dei dipendenti pubblici, della media borghesia, dei professionisti; si era formata una formidabile classe operaia, coesa e determinata; nel 1972- 1973 circa 800 mila erano i giovani iscritti all’università, più che triplicati rispetto ai 240 mila di fine anni quaranta. Con il miracolo economico si assisteva al diffondersi di una varietà di beni di consumo durevoli (i diversi elettrodomestici, le macchine per ufficio, naturalmente le automobili e le moto) che segnavano anche materialmente l’innalzamento del tenore di vita degli italiani; dal gennaio 1954, la televisione stava entrando nelle case. Si trattava ormai di prodotti di massa: alla portata delle classi lavoratrici si profilava un’agiatezza che i loro padri riuscivano a malapena a sognare. In breve, l’Italia stava agganciando i livelli di reddito delle economie più progredite e i suoi abitanti godevano di un grado di benessere mai visto prima; le distanze fra le aree del paese e fra le classi sociali si erano accorciate.

Alla luce di tutto ciò, forse non bisognerebbe tanto chiedersi perché la classe dirigente non abbia previsto quello che, in effetti, difficilmente poteva immaginare; ma piuttosto perché, una volta arrivata la crisi (cioè una volta cambiate le condizioni di contesto), non abbia saputo reagire in maniera adeguata. Nell’euforia del boom si erano creati – e si erano andati progressivamente rafforzando, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni settanta – istituzioni, assetti sociali, comportamenti e mentalità  che sarebbero poi stati d’ostacolo per il passaggio a un modello di sviluppo più avanzato. Ma questa è solo una parte della risposta giacché gli ostacoli si possono superare, ed è proprio questo che fa, normalmente, una classe dirigente all’altezza del proprio compito. Per comprendere le cause del declino italiano sarà quindi opportuno spostare l’analisi più avanti, all’ultimo quarto del Novecento, allorquando, fra la «grande inflazione» degli anni settanta e il «grande debito» degli anni ottanta, si delineano le più importanti «occasioni mancate» della Prima Repubblica con l’aggravante che, in questi casi, le classi dirigenti (e la società nel suo insieme) non potranno più addurre la giustificazione di non sapere.”

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