there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

Ascesa e declino. Il capitalismo industriale italiano. (2)

La crisi economica degli anni settanta, dovuta all’improvvisa impennata del prezzo del petrolio, contribuì a indebolire su scala mondiale il paradigma della grande impresa: riducendo la redditività dei settori pesanti, energy intensive , favorì il superamento della produzione standardizzata di impianto fordista. Per questa via condizionò anche le traiettorie dell’industria italiana, dove il fordismo – pure presente e importante – non aveva mai assunto i caratteri dominanti che si osservano in altri paesi avanzati. Da noi i primi due decenni che seguono lo shock petrolifero (1973- 1993) si caratterizzano per la grande vitalità delle produzioni leggere e tradizionali, le quali sembrano riuscire a trainare l’intera economia. A partire dagli anni novanta, i vincoli internazionali e le condizioni di competitività si fanno più stringenti: l’Italia perde quei vantaggi di sistema (svalutazione del cambio, una certa elasticità sul piano della normativa fiscale e del lavoro) che avevano permesso alle sue piccole imprese di prosperare; al contempo, proprio in molti settori del made in Italy si intensifica la concorrenza dei paesi emergenti. Le produzioni leggere – cresciute di più con il modello di sviluppo precedente – sono quelle che soffrono maggiormente, nel nuovo contesto macroeconomico di cambio forte e politiche ortodosse . È un fatto comunque, al di là delle dinamiche intersettoriali e dei cambiamenti di fase,che in generale la dimensione d’impresa va diminuendo; e che nel complesso la forma artigiana, la quale come si ricorderà era rimasta viva negli anni del miracolo economico anche grazie a specifici sussidi, continua a rimanere un tratto fondante della demografia industriale italiana . Nelle esperienze di maggiore successo, la piccola impresa si è andata organizzando attorno ai distretti industriali. Questi sono stati individuati e descritti per primo da Giacomo Becattini . A partire dal caso toscano, lo studioso ha intuito che bisognava spostare l’oggetto di indagine dalla singola ditta o società ai sistemi di piccole imprese, per poi riprendere la definizione adoperata da Alfred Marshall alla fine dell’Ottocento nel descrivere il distretto industriale di Manchester. Fin da subito queste analisi si sono intrecciate con altre, condotte soprattutto da Aldo Bagnasco e Carlo Trigilia, le quali, da una prospettiva preminentemente sociologica, hanno rintracciato particolari condizioni sociali e politiche nelle regioni della cosiddetta «Terza Italia» (che in larga parte, ma non completamente, coincide con il Nord- Est e Centro), condizioni dalle quali discende una presenza diffusa di beni pubblici ovvero di economie esterne («esternalità» positive). Nella definizione di Becattini, i distretti sono un sistema di piccole e medie imprese, altamente specializzate e in genere orientate all’esportazione, il cui punto di forza è dato da un’ampia disponibilità di beni collettivi nel territorio: infrastrutture sociali ed economiche, procedure e codici comuni anche di tipo informale, sinergia con le altre istituzioni locali, dalle università alle pubbliche amministrazioni, alle società di credito; tutte esternalità positive, appunto, che consentono di ridurre i costi di transazione senza dover ricorrere alla struttura gerarchizzata della grande impresa . Così precisati, i distretti vengono a configurarsi come un vero e proprio nuovo paradigma interpretativo degli studi d’impresa, alternativo al capitalismo manageriale di derivazione «chandleriana» ; nuovo paradigma che ha esercitato notevole appeal anche all’estero. La recente affermazione della piccola impresa, e con essa dei distretti, è favorita da condizioni tecnologiche: in particolare il miglioramento nelle comunicazioni che incentiva le economie di rete e può rendere conveniente organizzare la produzione in fasi e stabilimenti geograficamente distanti, ad esempio per evitare effetti da congestione o per avvantaggiarsi dei differenziali di costo. Specificamente all’Italia, è da tenere in conto anche la delocalizzazione a opera delle grandi imprese seguita all’autunno caldo, allo scopo di ridurre la pressione sindacale e allentare i vincoli della nuova legislazione sul lavoro. I distretti industriali sorgono però anche grazie a tradizioni locali che incoraggiano l’imprenditorialità su scala familiare, in particolare nelle zone agricole del Centro Italia di derivazione mezzadrile . In alcuni casi si può rintracciare la presenza di «protodistretti», artigianali più che industriali, già in epoca liberale. Ciò vale soprattutto per l’abbigliamento,
Sul finire degli anni ottanta, secondo Becattini potevano contarsi sessanta distretti principali: in gran parte nei settori leggeri e, comunque, tutti nel Centro- Nord [ 105 ] . Più di recente, negli anni novanta (ma a dire il vero già dagli anni settanta), alcuni distretti sono germinati anche al Sud, lungo la dorsale adriatica (in Puglia, oltre che in Abruzzo, Molise e parzialmente in Basilicata).
sul finire degli anni settanta, la crescita dei distretti e delle regioni del Nec apparve ormai talmente intensa da poter trascinare con sé l’economia del paese intero, mentre le piccole imprese pervadevano anche una regione di antica industrializzazione come la Lombardia. È a quel punto che iniziò a prendere corpo il paradigma dei distretti: un insieme di imprese pienamente autonomo rispetto alla grande dimensione. L’entusiasmo toccò forse l’apice all’inizio degli anni novanta: in quanto struttura portante su cui si fondava il made in Italy , i distretti arrivarono a essere elogiati come «punto più alto dell’esperienza industriale italiana» , e come tali portati a esempio perfino dal presidente americano Bill Clinton . Ma non doveva passare molto, affinché questa visione esaltante fosse ugualmente messa in discussione . Il ripensamento è stato in gran parte dovuto al fatto che, già nel corso degli anni novanta, si sono moltiplicati i segnali di crisi all’interno dei distretti. Da sempre più voci la grande impresa è stata rimpianta, come l’unica in grado di condurre la ricerca scientifica nei settori ad alta intensità di capitale che fanno la ricchezza dei paesi avanzati.
Lungo queste traiettorie, di recente si è fatta strada l’idea di un possibile connubio fra distretti e grandi imprese: è stato notato come questo connubio fosse di fatto già in atto nella meccanica leggera, un settore in cui all’interno di uno stesso sistema territoriale le piccole imprese si sono affiancate con successo alle multinazionali, spesso operando in sinergia (o in subordine) . Sembrerebbe uno schema non dissimile, in fondo, dall’ideale combinazione di capitalismo delle grandi imprese e capitalismo imprenditoriale proposta da William Baumol, Robert Litan e Carl Schramm . A dire il vero, però, anche su questo terreno il quadro è tutt’altro che definito. In altri comparti, come la meccanica strumentale, con il tempo le piccole imprese si sono andate emancipando dalle commesse delle grandi – grazie alle quali pure avevano mosso i primi passi – potendo contare sul bacino di mercato generato dagli stessi distretti industriali . Ancora diverso è il processo di gerarchizzazione all’interno dei distretti, in corso già dagli anni ottanta e successivamente rafforzatosi: alcune imprese hanno preso il sopravvento su altre, non di rado sostituendo le relazioni formali a quelle informali che vigevano nell’organizzazione distrettuale, e riuscendo a imporre un certo controllo sui processi produttivi e quindi sulle caratteristiche dei prodotti finali; le imprese leader sono poi cresciute di dimensione, hanno acquisito know- how e competenze, e sono le stesse che oggi si pongono alla testa dell’internazionalizzazione del loro distretto, come pure dei processi più innovativi della manifattura italiana. È così che l’evoluzione dei distretti ha finito per intrecciarsi con quella delle cosiddette «multinazionali tascabili»: società di medie dimensioni ma
fortemente attive sui mercati internazionali, dove nell’ultimo quindicennio del Novecento hanno fatto registrare una crescita letteralmente esponenziale, sia per numero di sussidiarie sia per numero di addetti . Dopo il «primo» capitalismo (la grande impresa privata), il «secondo» (l’impresa pubblica) e il «terzo» (i distretti) – che non a caso ricordano da vicino le tipologie territoriali dell’economia italiana: Nord- Ovest, Mezzogiorno e Terza Italia – già alla metà degli anni novanta ecco subentrare il «quarto» capitalismo: che promana dal terzo, e sembra fare da trait d’union fra la Terza Italia e l’antico Triangolo industriale (la prima Italia).
A Turani, che nel 1996 aveva coniato l’espressione «quarto capitalismo» , si sarebbe affiancata nel 2002 la ricostruzione di Andrea Colli, che del fenomeno ha rintracciato le radici storiche, individuando tre tipologie. La prima è quella dei pionieri , sorti nel periodo fra le due guerre, come la Merloni (oggi Indesit) che da quarant’anni è la principale società italiana di elettrodomestici. Quindi arrivano i baby boomers , le imprese nate negli anni del miracolo economico, cui in parte abbiamo già accennato (la Candy negli elettrodomestici, la Mivar negli apparecchi elettronici). Gli ultimi sono i latecomers , sviluppatisi a partire dalla crisi degli anni settanta e sicuramente il gruppo più numeroso: si trovano prevalentemente nei settori leggeri, come abbigliamento (le venete Benetton, Stefanel, Diesel) e calzature (la marchigiana Tod’s del gruppo di Della Valle), ma anche in manifatture più complesse quali i veicoli a motore (è il caso dell’Aprilia, anch’essa veneta). In alcuni casi le imprese del quarto capitalismo sono arrivate a superare anche la media dimensione: un esempio è la Luxottica di Leonardo Del Vecchio, fondata nel 1961 ad Agordo, in provincia di Belluno, nel cuore di un distretto di eccellenza nell’ottica che continua a rappresentare uno dei suoi punti di forza, tanto che la Luxottica vi ha ricollocato diverse produzioni acquisite all’estero. Sul quarto capitalismo e le medie imprese Colli ha fornito anche alcune linee interpretative . Fra le caratteristiche vi sono le radici nell’ humus produttivo dei sistemi locali (il terzo capitalismo), la conduzione familiare e, dal punto di vista del posizionamento strategico, l’omogeneità: altamente specializzate, queste imprese tendono a operare su segmenti ben specifici di mercato, relativamente ristretti, al cui interno occupano normalmente una posizione di leadership in ambito nazionale, che serve da trampolino di lancio per la competizione globale. Anche le tappe che contraddistinguono il loro processo di crescita sembrano avere, in via generale e pur nella molteplicità di esperienze, alcuni aspetti in comune: sotto la guida del fondatore di solito assistiamo a una prima fase di rapida espansione, normalmente confinata all’ambito locale o regionale, molto incentrata sull’aumento della produzione; con il passaggio generazionale, dal fondatore al figlio, prende corpo una seconda fase, che segna la conquista del mercato nazionale e vede uno spostamento di focus sugli aspetti commerciali e di servizio; la terza fase, che per lo più ha avuto luogo fra gli anni ottanta e novanta, è quella dell’internazionalizzazione, commerciale ma poi spesso anche produttiva.

Non è possibile lasciare nuovi commenti.