Da “Ascesa e declino dell’economia italiana” di Emanuele Felice.
Le riforme cedono a spinte elettoralistiche e non sono costruite in modo organico. La sanità riesce a coprire solo nel 1965 fino al 90% della popolazione (ancora erano escluse le cure a chi ne aveva bisogno a causa di una sua colpa.) Però la tutela era stata estesa di categoria in categoria sulla base di spinte elettorali e clientelari. Il sistema sanitario avrà tutela universalistica solo nel ’78.
Il sistema pensionistico assicurava una tutela universale, ma “rimaneva frammentato in una pluralità di casse e gestioni autonome, che si erano andate formando tra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta; inoltre, vale la pena di osservare fin d’ora che il criterio retributivo, introdotto nel 1969, nel lungo periodo non poteva che porre forti problemi di sostenibilità all’intero sistema (dato che ancora la pensione alle ultime retribuzioni percepite, indipendentemente dai contributi versati che di norma sono inferiori), a differenza del criterio contributivo (che invece calcola l’ammontare delle pensioni sulla base dei contributi versati): a mano a mano che la vita media si allunga e aumenta la percentuale di pensionati sul totale della popolazione, il sistema retributivo si fa più pesante sui conti pubblici.”
Il disavanzo pubblico primario era stato colmato negli anni Cinquanta, ma dal 1965 riappare stabilmente. Dal 1965 al 1973 il debito pubblico sul pil passa dal 28 al 50%. Si poteva pensare allora che la crescita del pil lo rendesse sostenibile (anche se non per il sistema pensionistico, comunque.) Però tra il ’71 (fine di Bretton Woods) e il ’73 (primo shock petrolifero) lo scenario economico cambia, la curva dell’indebitamento si impenna e il lassismo nelle finanze dello Stato rimane.
In quegli anni si afferma il modello di clientelismo che rende gli enti economici succubi della politica.
“È forse esemplare guardare alla graduale estensione del clientelismo politico sul sistema economico, in relazione alle vicende del Sud Italia. Con la legge del 1957, l’industrializzazione di questa parte del paese viene affidata in misura consistente alle imprese pubbliche, che devono localizzare nel Mezzogiorno il 60% dei nuovi impianti e il 42% dei loro impianti totali. Nello stesso anno, la creazione del ministero per le Partecipazioni statali (dicembre 1956) pone quelle imprese direttamente sotto il controllo dell’autorità politica, e non di rado le subordina ai suoi obiettivi di consenso: «la definitiva affermazione del comando politico delle Partecipazioni statali», a opera principalmente della Democrazia cristiana, avverrà proprio nella stagione della programmazione . Pochi anni più tardi comincia a stringersi il cerchio dell’ingerenza partitica sull’azione della Cassa per il Mezzogiorno: nel 1965 viene istituito il ministero per il Mezzogiorno, alla cui approvazione i programmi della Cassa d’ora in avanti saranno vincolati. La norma corrisponde agli obiettivi della programmazione, fra i quali vi è appunto il superamento del divario Nord- Sud; ma è altrettanto vero che con ciò si stabilisce la supremazia della direzione politica su una sfera che sarebbe dovuta restare prevalentemente economica, o «tecnica» (gli interventi della Cassa, per realizzare infrastrutture e finanziare l’industria): una supremazia che si sarebbe rivelata letale negli anni settanta e ottanta, dato che la politica che esercita il comando è fondamentalmente clientelare. Di conseguenza, l’ente che nei primi quindici anni aveva funzionato piuttosto bene proprio perché autonomo dai particolarismi e dai clientelismi – operando attraverso un canale separato dell’amministrazione, definito «straordinario» – progressivamente finirà anch’esso imbrigliato nella logica degli interventi assistenziali o «a pioggia». Per gli stessi motivi nemmeno i nuovi centri del potere locale, le regioni, avrebbero dato buona prova di sé, specie nel Mezzogiorno, riducendosi per molti aspetti a un’altra fonte di sprechi e clientelismi, che si intrecciano con quelli derivanti dalla fase degenerativa dell’intervento straordinario: le due distorsioni si rafforzarono a vicenda, fin da quando nel 1971 verrà trasferita ai nuovi enti – ma lentamente, con molte sovrapposizioni e ritardi – una lunga serie di competenze in aree di intervento della Cassa.”
Le riforme non godevano di appoggio nella base elettorale.
Gli imprenditori e i possessori di mezzi di produzione avevano paura delle nazionalizzazioni, della tassazione dei dividendi, della riforma urbanistica di Sullo, che mirava a espropriare i terreni soggetti a speculazione ed era sostanzialmente liberale, poiché mirava a togliere rendite di posizione e monopoli.
La rinuncia alla riforma Sullo dette il là alla cementificazione selvaggia e al futuro dissesto idrogeologico.
La dc non aveva a sua volta interesse a garantire tutele a tutti e le concedeva a pioggia sotto le pressioni del momento a coltivatori diretti, artigiani e a chi poteva garantirle il mantenimento del potere.
La sinistra stessa non partecipava con entusiasmo alle stesse riforme di sinistra.
Nel ’64 muore Togliatti, che aveva avuto un atteggiamento dialogante. Il bipartitismo imperfetto che esisteva in Italia era stato ereditato dal Dopoguerra ed è alla base della mancanza di capitale sociale in buona parte del Paese.
“Alla mancanza di volontà politica, si somma l’inadeguatezza della struttura amministrativa dello stato, nel recepire e implementare le indicazioni che provengono dall’alto: i pianificatori sono resi di fatto impotenti, dovendo districarsi fra un groviglio di preesistenti regolamenti e poi attendere i lunghi intervalli di tempo che si interpongono fra le decisioni di politica economica e l’effettiva erogazione delle somme. Sulla mancata riforma della pubblica amministrazione ordinaria (ministeri e loro ramificazioni), e sulla sua progressiva inadeguatezza – manifestatasi fin dal primo dopoguerra – ad affrontare i compiti sempre più complessi di un grande paese in piena trasformazione industriale, hanno prodotto studi molto approfonditi Guido Melis e Sabino Cassese . Sui motivi di questa mancata riforma del sistema nel secondo dopoguerra, le opinioni divergono. Secondo Paul Ginsborg, la frammentazione degli strumenti operativi, la burocratizzazione e la lentezza delle procedure, l’impreparazione della pletora di impiegati pubblici erano in fondo funzionali agli interessi costituiti (e in particolare al clientelismo democristiano). Secondo Barca – e qui veniamo a un altro cardine del «compromesso senza riforme» – i settori più progressisti della Democrazia cristiana erano concentrati sulla gestione delle imprese a partecipazione statale come motore dell’industrializzazione, e più in generale degli enti pubblici di ispirazione nittiana come fattori di modernizzazione, e pertanto trascurarono la gestione ordinaria dello stato, che fu così lasciata ai settori più conservatori del partito: di conseguenza, l’amministrazione ordinaria rinunciò a programmare (cioè a costruire le strutture che le avrebbero consentito di impegnarsi direttamente nella modernizzazione dell’apparato produttivo, come in Francia, o nella costruzione dello stato sociale, come nel Regno Unito) e a regolare (cioè a fissare le regole del gioco per assicurare ai diversi attori pari opportunità); e in assenza di questa regolazione generale, si limitò a svolgerne una particolaristica, cioè a intervenire di volta in volta per tutelare l’interesse dell’uno o dell’altro gruppo sociale.”