there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

Ascesa e declino: perché l’Italia non cresce più

Da “Ascesa e declino dell’economia italiana” di Emanuele Felice.

“Affinché le produzioni italiane possano prosperare (o almeno resistere) con il cambio forte, è necessario che si specializzino lungo la catena alta del valore aggiunto, cioè nei settori a maggiore innovazione tecnologica che meno soffrono la concorrenza delle economie emergenti. Ciò richiede corposi investimenti in ricerca e sviluppo, pubblici o privati; se non altro perché dagli anni novanta importare innovazione è diventato assai più difficile, fortemente sfavorito dai nuovi accordi internazionali sulla proprietà intellettuale siglati nell’ambito del Wto (in particolare l’ Agreement on Trade- Related Aspects of Intellectual Property Rights del 1994, che ha di fatto introdotto una forma di protezionismo sulla proprietà intellettuale). Ora, l’Italia ha sempre avuto sepse per ricerca e sviluppo inferiori alla media Ocse, ma almeno per un quindicennio sono state in aumento (anche se altre spese pubbliche, improduttive, aumentavano di più.)
Nel ’95 la quota sul pil era scesa all’1% e nel 2010 era ancora sull’1,3% mentre la Spagna, per dire, era all’1,4%. Il sistema produttivo ha peggiorato la sua spesa in ricerca, sviluppo, innovazione, proprio quando era più necessario investirci.
Per scuola e università ci sono stati tentativi di modernizzazione, ma i test pisa dimostrano lacune di efficienza, i soldi vengono spesi quasi tutti nel personale, la media dei laureati è inferiore a quella degli altri Paesi.
“il tessuto produttivo italiano – in particolare quello dei distretti – è basato più di altri sulla conoscenza tacita, non codificata e che quindi, oltre a sfuggire a misurazioni di questo tipo, potrebbe anche risentirne meno. Quella tacita è però, appunto, un tipo di conoscenza che meglio si confà a produzioni leggere, a più basso valore aggiunto e minore intensità di capitale: cioè proprio le produzioni più sensibili alla concorrenza dei paesi emergenti incentrata sul costo del lavoro, e che per questo più ne hanno sofferto. In altri termini, in Italia sembra essersi creata una sorta di «circolo vizioso»: le produzioni leggere del made in Italy o dei servizi (ad esempio, quelle legate al turismo) non richiedono molta istruzione formale, ragion per cui si va a scuola relativamente poco (e si studiano meno le materie scientifiche); ma allo stesso tempo, proprio i livelli di istruzione insoddisfacenti ostacolano quel miglioramento tecnologico che sarebbe proprio di un paese avanzato. Detta ancora diversamente: la crescita non fondata sul capitale umano è andata bene fin quando non vi era la concorrenza manifatturiera dell’Asia e la lira si svalutava (e infatti, una volta tenuto conto della scarsa scolarizzazione, nel lungo periodo la performance dell’Italia è anche al di sopra della media); ma negli ultimi anni, non più.”
“Il sistema amministrativo costituisce un’infrastruttura fondamentale per la crescita economica. Gli studiosi concordano sul fatto che quello italiano sia stato per gran parte della storia unitaria in grado, tutto sommato, di adattarsi alle mutevoli esigenze del tessuto produttivo italiano, e quindi di «servirlo». Ma questa condizione sembra essere venuta meno negli ultimi decenni. A evidenza di ciò, un recente studio di Magda Bianco e Giulio Napolitano esibisce soprattutto due misure di performance. Una è l’offerta di infrastrutture, dove all’espansione degli anni cinquanta e sessanta ha fatto seguito un lungo periodo di rallentamento, che ha finito per portare l’Italia al di sotto dei livelli medi degli altri paesi avanzati: il problema, scrivono Bianco e Napolitano, «consiste non tanto e non solo nell’insufficiente spesa, quanto nella sua scarsa qualità e nell’insufficiente capacità realizzativa». L’altra è l’efficienza della giustizia, che si può approssimare con la durata dei procedimenti (civili) in primo grado e in appello: anche in questo campo, si osserva un netto peggioramento dopo la Seconda guerra mondiale e poi, ancora, dalla fine degli anni settanta. A oggi (2010), la durata dei processi civili è in Italia, per il primo grado, di 564 giorni, assai più alta di quella di ogni altro paese avanzato e contro una media Ocse di 238 (e ci si riferisce solo al primo grado, per la durata totale i dati sono ancora più sconfortanti: 2.866 giorni in Italia contro una media Ocse di 788!). Da notare che questo poco invidiabile primato non è dovuto all’assenza di risorse: come quota del bilancio pubblico destinato alla giustizia (sul Pil), l’Italia si colloca nella media. Circa l’evoluzione storica di queste inefficienze, Bianco e Napolitano osservano che i «tratti distintivi» del sistema amministrativo odierno – «personale malpagato, procedure complicate e lunghi ritardi»– si erano andati formando nel periodo 1973- 1990. Dopodiché negli anni novanta, grazie principalmente all’opera dei ministri della Funzione pubblica Sabino Cassese (1993- 1994) e Franco Bassanini (1996- 1998 e 1999- 2001), diverse leggi sono state approvate per favorire la trasparenza e la responsabilità (1990), la semplificazione (1993 e 1997), il decentramento (1997 e 2001), la valutazione della performance (1994, 1999): ma queste riforme non hanno sortito gli effetti sperati, soprattutto a causa delle resistenze incontrate all’interno dell’amministrazione. Per comprendere appieno le ragioni di tale fallimento, occorre però esaminare il problema dell’«iperregolazione», con le conseguenze che essa riveste per l’architettura dell’intero sistema e i rapporti di potere fra le sue diverse componenti. L’iperregolazione – cioè la produzione ipertrofica di leggi e regolamenti – si è manifestata storicamente, e progressivamente, come reazione alle diffuse inefficienze già presenti nell’organismo pubblico: nuove norme venivano introdotte perché risultava difficile far rispettare quelle che c’erano, procedure ad hoc servivano per ovviare alle lungaggini dei percorsi standard. Un esempio è la crescita delle amministrazioni parallele, sorte in origine per ovviare alla complicatezza e vischiosità di quelle ordinarie; esse in effetti hanno svolto inizialmente un ruolo propulsivo nello sviluppo del paese (è il caso, già discusso, della Cassa per il Mezzogiorno, per l’intervento «straordinario» nel Sud Italia). Il problema però è che le amministrazioni parallele, con il tempo, hanno mostrato la tendenza a diventare simili a quelle ordinarie. Nel corso dei decenni questo ha causato il disordinato sovrapporsi di enti, sfere di competenza, regolamenti. Di conseguenza, il sistema è diventato ancora più complesso e ingovernabile. Al vertice si è andata formando una «nomenclatura» fatta di servitori dello stato spesso straordinariamente preparati, ma di cultura giuridico- amministrativa e contabile attenta più alla procedura che al risultato: per difendersi dall’«assalto» dei politici della Seconda Repubblica (assai più inesperti dei precedenti e a volte espressione di partiti a vocazione antisistema per i quali l’amministrazione era quasi un intralcio), questa nomenclatura ha sviluppato un linguaggio ancora più specialistico, di fatto incomprensibile ai policy maker, che le ha consentito di tenere le redini della cosa pubblica. Il prezzo, però, è stato l’immobilismo. ambiziosa, deve attendere l’emanazione dei decreti attuativi, i quali non di rado possono tardare anni.
Allora si sono istituiti i commissariamenti. Commissari straordinari nominati dal governo che possono derogare alla normativa. Si agisce per emergenza, per eccezione, per compromesso e si creano nuovi poteri.
Dal fatto che l’apparato amministrativo è diventato sempre più complesso e sempre meno governabile, al di fuori di una ristretta cerchia di tecnocrati che ne conoscono davvero i meccanismi, discende la fatica di riformare il sistema dall’esterno: gli interventi proposti diventano sempre più difficili da realizzare. E discende anche la sostanziale paralisi, decisionale e soprattutto operativa: fra le conseguenze vi sono appunto l’incapacità di far progredire il paese sul versante infrastrutturale (come si converrebbe a un’economia avanzata, e come richiederebbero le trasformazioni tecnologiche e perfino geopolitiche in corso, e le inefficienze della giustizia civile (e quindi l’incertezza del diritto).
Di fronte alle lungaggini procedurali e all’astrusità dei regolamenti, una soluzione provvisoria può essere la corruzione, «oliare gli ingranaggi»: ma se pure efficace nel raggiungere gli obiettivi, l’attività corruttiva causa perdite nette di risorse al sistema, introduce incentivi negativi, può favorire le posizioni di rendita e la creazione di circoli viziosi, appunto, che rinsaldano il sottosviluppo. Non è un caso che essa sia in genere molto più diffusa nei paesi arretrati, che non in quelli avanzati. Con l’eccezione dell’Italia. Come dimostrano le statistiche di Transparency International.
Gli studi disponibili suggeriscono che il fenomeno corruttivo, pure presente già in passato, è diventato pervasivo in Italia a partire dagli anni settanta ; negli ultimi vent’anni ha interessato soprattutto i livelli medio- bassi della macchina amministrativa e del sistema politico (più rari invece i casi che hanno riguardato l’alta nomenclatura, la quale è molto ben pagata).
Sulla giustizia penale, poi, si è combattuta una battaglia che ha portato a delle limitazioni all’attività di indagine, alla riduzione dei reati fiscali e societari, al favore
Questa azione di limitazione dell’attività giudiziaria va contro a quelle regolamentazioni che dovrebbero far parte di un sistema capitalistico avanzato e favoriscono il mpermanere della cultura dell’illegalità. Anche i condono non fanno che perpetuare incentivi perversi

 

EURO
Fu lo stesso Stato a portare il prezzo dei biglietti del lotto da mille lire a un euro. In realtà le rilevazioni ufficiali non mostrano un aumento dei prezzi generalizzato.
“È da notare che i sostanziosi rincari che si verificarono nel corso del 2002 (negli affitti, in diversi generi di consumo al dettaglio, nei servizi alla persona) si tradussero in un massiccio trasferimento di risorse, dai lavoratori dipendenti e dai pensionati verso commercianti, professionisti e piccoli imprenditori, cioè verso quanti costituivano la base elettorale del nuovo governo. Sulla domanda aggregata, la fiammata inflattiva comportò una significativa contrazione del mercato interno, con l’effetto quindi di restringere le opportunità di vendita per le imprese. Peraltro, questa contrazione si andò sommando a quella dei mercati esteri, dovuta al progressivo apprezzamento della nuova valuta: apparentemente un’anomalia ben strana rispetto alla normale dinamica macroeconomica (avviene di solito il contrario, l’inflazione interna si accompagna alla svalutazione all’esterno), ma ormai il cambio della nostra moneta dipendeva solo in minima parte dalle variabili nazionali. Sarà bene però chiarirsi su un punto. Il cambio forte, e anche la vampata dell’inflazione, non sono dovuti alla parità fissata in precedenza fra l’euro e la lira.”
C’è chi suggerisce che il cambio avrebbe dovuto essere afissato a duemila lire.
Una tale cifra era però del tutto fuori portata. La parità lira/ euro non avrebbe potuto discostarsi di molto da quella lira/marco, che era stata stabilita nel novembre 1996 in occasione del rientro nello Sme, e fissata a 990 lire per un marco: dato che la richiesta italiana era fra 1.010 e 1.000 lire (quest’ultima cifra tonda e vero obiettivo), dato che la proposta tedesco- olandese era di 925 (forse per arrivare a 950), e dato che il cambio di mercato in quei giorni viaggiava intorno a 985 lire, l’accordo a 990 si può considerare un buon risultato, peraltro raggiunto al termine di un’estenuante trattativa  . In conseguenza di ciò, due anni dopo, nel dicembre 1998, veniva decisa una parità lira/euro (1.936,27) che corrispondeva a 989,999 lire per un marco . Va inoltre tenuto conto del fatto che in quegli anni (a partire dal 1993) i saldi italiani della bilancia di conto corrente erano positivi (e lo erano anche quelli della bilancia commerciale, che ne era parte, e della bilancia dei pagamenti, che la includeva): non sussisteva quindi motivo per fissare una parità della lira significativamente svalutata rispetto a quella di mercato.
segni dei conti con l’estero erano destinati a cambiare di lì a breve , ma questo dipese piuttosto dal successivo apprezzamento dell’euro rispetto alle altre valute, anziché dal cambio lira/marco stabilito nel 1996. Certo, pochi dubbi vi sono sul fatto che una valuta più debole, e una politica espansiva sul lato monetario e fiscale, avrebbero aiutato, così come aiutano oggi. A parte ogni altra considerazione di fattibilità politica, occorre però chiedersi: aiutare a fare cosa? A mantenere (questo è il timore) il modello di sviluppo imboccato negli anni settanta, fatto di indebitamento e svalutazione. Cioè quello stesso modello che, pure avendo nel breve periodo un effetto sulla crescita, non ha contribuito a superare le difficoltà strutturali di cui abbiamo parlato, e anzi in buona misura ha posto le premesse per l’attuale declino. Si tratta di un modello, è bene ribadirlo ancora, da paese che rincorre, e che soffre maggiormente la competitività delle economie emergenti specializzate come noi nelle manifatture a basso valore aggiunto; e non invece da paese prospero e avanzato, sulla frontiera tecnologica, uno status al quale l’Italia sembrava di poter ambire nei momenti migliori della sua storia. È giusto ritenere che nell’attuale contingenza l’Unione Europea farebbe bene ad allentare la stretta deflattiva, consentendo maggiori spese per investimenti e lasciando cadere il vincolo del 3% sul rapporto deficit/Pil (e prima lo fa, meglio è: nel lungo periodo siamo tutti morti, come diceva Keynes). Sarebbe però anche opportuno, anzi indispensabile, che le classi dirigenti e
l’opinione pubblica italiane si chiedano non come fare a tornare indietro, lungo il modello precedente, ma come invece andare avanti: come dotarsi cioè dei fondamentali – capitale umano e tecnologia, efficienza del sistema amministrativo e delle istituzioni in generale – che sono propri delle aree più forti del continente e delle economie prospere nel mondo, e che consentirebbero di trarre benefici da un nuovo e più maturo modello di sviluppo. È la sola strada da percorrere se si vogliono mantenere, nel lungo periodo, i livelli di benessere che
abbiamo raggiunto.

Non è possibile lasciare nuovi commenti.