Immaginate una squadra composta esclusivamente da calciatori nati in una delle province basche o da persone di origine basca anche se nati in altre parti del mondo, meglio se anche questi ultimi sono cresciuti nel vivaio della Società.
Immaginate un regime, quello di Franco, che vi espropria del nome e lo cambia da Athletic ad Atletico, chiama le vostre province traditrici, vi costringe a una diaspora. Voi siete orgogliosi del vostro nome da pronunciare all’inglese. Furono dei cittadini di oltremanica che lavoravano nei porti e nelle miniere della regione a portare il calcio a Bilbao. Nei primi anni era ammessa la presenza in squadra di calciatori inglesei residenti in Biscaglia. Poi, dal 2013, vigerà la regola non scritta ma accettata dell’autarchia.
Immaginate vittorie su vittorie nei primi anni del Novecento, col rischio di essere presi a sassate dai tifosi del Real Sociedad dopo due sconfitte, undici gol subiti e zero realizzati. Immaginate incontri tra varie squadre della città e poi della regione e poi di tutta la Spagna, inizialmente gratuiti, poi, via via che gli spettatori aumentavano, a pagamento.
Immaginate un decennio di trionfi, prima della Guerra Civile e della crisi successiva, ma anche la risalita dalla quasi scomparsa alla vittoria del campionato 1942/43. Immaginate centocinquantamila persone in delirio per le strade della città.
Immaginate i rosicamenti del regime a seguito delle vittorie negli anni Cinquanta e lo stupore che porta i giornali a titolare di successi ottenuti “con soli compaesani.”
Immaginate la finale di coppa del 1958 conquistata a Madrid, di fronte a Franco e ai vertici della dittatura e di fronte a centoventicinquemila tifosi madridisti indottrinati dalla propaganda a tifare contro i traditori rosso-separatisti baschi. Immaginate una partita senza storia, chiusa già nel primo tempo e l’acquisizione totale dell’orgoglio basco e autarchico da parte di giocatori, personale tecnico, tifoseria biancorossa e non solo. Immaginate pure la fine della rivalità col Real Sociedad di San Sebastian nel nome della solidarietà basca.
Immaginate una bandiera proibita, l’ikurrina. La gente sventolava la bandiera italiana perché aveva gli stessi colori. Poi,
“all’indomani della morte di Franco, quando la democrazia ancora non era realtà e l’ ikurriña era ancora proibita per legge, i capitani di Athletic e Real Sociedad, Iribar e Kortabarria, lanciarono un segnale fortissimo al popolo basco, scendendo in campo in occasione di un derby svoltosi a San Sebastián a dicembre 1976 portando insieme un’ ikurriña . Li seguivano i loro compagni di squadra, tutti baschi.”
Nel 1977, poi, quella bandiera poté finalmente essere esposta ovunque.
Immaginate il modo più delirante ed entusiasta di festeggiare e proiettatelo sui festeggiamenti seguiti ai successi dei primi anni Ottanta, l’età dell’oro del popolo basco, calcisticamente parlando:
“un’incredibile nidiata di campioni, sommata a una razionalizzazione dei settori giovanili tinse di bianco, rosso e verde Liga, Coppa, Nazionale spagnola e persino il Barcellona campione d’Europa. Tra il 1981 e il 1984, quattro campionati su quattro andarono a squadre interamente formate da giocatori baschi (la Real e l’Athletic, due titoli ciascuna); a ciò possiamo aggiungere due Coppe del Re e il raggiungimento di altre finali (perse) in tale competizione da parte dei club di Bilbao e San Sebastián, oltre alle Supercoppe 1982 e 1984, appannaggio rispettivamente dei biancazzurri e dei biancorossi. Saccheggiando quella Real e quell’Athletic, un Barcellona imbottito di baschi (e perciò soprannominato Vascolona, «Bascolona») vinse, tra le altre cose, la sua prima Coppa dei Campioni.”
Immaginate un patto: “se una nostra sconfitta serve a far vincere il campionato a un’altra squadra basca, ebbene possiamo perdere (come fa il Bilbao nell’82,) anche se questo ci costa la qualificazione in coppa Uefa (come succede al Real Sociedad nell’84.)
Stop.
Campionato 1982-83. L’Athletic vince il campionato dopo ben 27 anni di digiuno.
“Per tutta una generazione di tifosi biancorossi si trattò del primo titolo di Liga visto e vissuto, un trionfo da celebrare in maniera solenne. Fu un autentico scoppio di gioia collettiva: il popolo biancorosso si strinse attorno ai suoi eroi per tributare loro un’ovazione di portata mai vista (non solo a Bilbao). Un dirigente dell’Athletic ebbe l’idea di far salire la squadra campione su una gabarra , una chiatta tipica del luogo, utilizzata per il trasporto di materiale lungo le rías (versione locale dei fiordi); non una gabarra qualsiasi, ma una che da anni sfoggiava con disinvoltura un nome affatto casuale: Athletic. Risalì sul fiume. Poi un camion trasportò i giocatori di città in città. Un milione di persone, composte, e festeggianti, salutarono i calciatori.”
Anno seguente: bis in campionato, in coppa e nei festeggiamenti, con ancora più gente.
Ripresa.
Immaginate dei tifosi che preferiscono mantenere la loro identità piuttosto che comprare tutti i più forti al mondo, anche se la società potesse, o fare come il Barcellona che ha saccheggiato mezzo Real Sociedad o le giovanili di tutte le squadre spagnole. Se non fosse stato per i giocatori tifosi, che mettono il cuore oltre la maglia, questi avrebbero mollato nella stagione disastrosa 2006-2007. I tifosi sono soci, vivono il club a 360 gradi, seguono in massa le giovanili, da cui arriveranno i calciatori della squadra maggiore, sostengono ancora di più la squadra nei momenti difficili. Le tifoserie avversarie possono tranquillamente andare a Bilbano, ma gli ultras di destra di Real madrid e Real Saragozza è meglio che non si facciano vedere. Quelli sventolano bandiere franchiste nei loro stadi.
Immaginate un vivaio fortissimo, un centro tecnico all’avanguardia, tanti investimenti nel calcio di base. I giocatori così si sentono parte di una stessa comunità, hanno speranze concretizzabili, crescono insieme, restano uniti in prima squadra e coi tifosi. Dice Schiavella, italospagnolo, che le strutture sono pazzesche, gli studi e i trasporti pagati, oltre all’abbigliamento e a insegnanti privati in caso di necessità. Inoltre i giovani rischiano di allenarsi con la prima squadra. I componenti di questa non possono essere altezzosi con i ragazzi delle giovanili e devono firmare autografi ai tifosi se richiesto. Ci sono molti spettatori anche agli allenamenti delle squadre giovanili. In molti casi i giocatori del vivaio sono impiegati in prima squadra.
Immaginate che della vostra squadra abbiano fatto parte il calciatore che detiene il record di reti segnate nella storia del calcio spagnolo, vale a dire Zarra, o un portiere, Iribar, di cui si diceva che l’Athletic giocava con “Iribar e altri dieci.” Immaginate di essere tifosi di una squadra di cui si diceva, negli anni Venti del Novecento:”La finale di coppa è tra l’Athletic e un’altra squadra.”
Immaginate i muri della città dove è scritto, da tempo immemore, che è vietato giocare a pelota e forse capirete il perché dei successi.
È un mistero come i paesi baschi rappresentino un bacino di calciatori che nessun’altra zona della Spagna ha.
Come fa l’Athletic a esistere? Condizioni fisiche: colpitori di testa, fisici più alti e robusti rispetto agli andalusi, per esempio. Condizioni economiche: con la Catalogna e Madrid i Paesi Baschi sono le province più ricche, benestanti, con maggiori quantità di impianti sportivi e maggiori possibliità di tempo libero in cui dedicarsi anche al calcio. Estremadura e Andalusia sono più povere, hanno fornito meno calciatori e soprattutto hanno vinto di meno. Questioni di passione: storicamente lassù il calcio piace.
Immaginate uno stadio, il San Mames, dove le squadre che vi si recano per la prima volta, devono depositare dei fiori davanti alla statua del Pichichi, il padrone del gol: Rafael Moreno Aranzadi.
Immaginate che chiunque di voi sia proprietario della società, attraverso un «azionariato popolare» in virtù del quale circa trentamila soci, rappresentativi di ogni classe sociale e anagrafica, posseggono una quota paritetica del club. La società è amministrata con trasparenza e secondo metodi
«democratici». «La sovranità e il governo del club spettano ai soci», recita, all’articolo 14, lo Statuto della compagine bilbaina. Nessun magnate può impadronirsi della squadra a colpi di milioni di euro e fare il bello e il cattivo tempo. L’Athletic è una «piccola repubblica», col suo Parlamento e il suo Esecutivo, e chi è al vertice del club vi è arrivato per libera scelta del popolo dei tifosi, e se sgarra paga dazio.
Immaginate la finale di coppa del 1984 giocata con calciatori come Zubizarreta in porta e Sarabia in attacco.
“Al Bernabéu, sede unica dell’ultimo atto del torneo, si affrontarono Athletic (quarantamila tifosi al seguito) e Barcellona (trentamila). Maradona, con dichiarazioni del tipo «affrontare i biancorossi è come essere in guerra in Vietnam», aveva esacerbato gli animi di tifosi e compagni di squadra. Sulle tribune non si andò al di là di sfottò e fischi, ma in campo si videro provocazioni di ogni tipo, botte da orbi (lo stesso Pibe de oro uscì in barella, e come lui Núñez, Sola e De Andrés) e persino il lancio di una bottiglietta da parte di Schuster contro i tifosi biancorossi. In mezzo a tanto bailamme, un solitario e repentino gol di Endika bastò per conquistare la ventiquattresima Coppa e il quinto doblete della storia del club di Bilbao. A Bilbao, la festa fu di nuovo di proporzioni immani, perfino superiori a quelle della stagione precedente. Dopotutto, si dovevano incensare non solo i campioni di Liga, come nel 1983, ma anche i campioni di Coppa e persino di Supercoppa.
Immaginate di vincere sì meno, ma non smettere mai del tutto nemmeno ai tempi del calcio superprofessionistico. Immaginate di essere protagonisti con una squadra di compaesani anche dopo la sentenza Bosman. Immaginate le feste dopo il secondo posto nel 1998 o dopo la salvezza conquistata grazie a cinque vittorie di fila al termine del campionato 2004 o ancora dopo la conquista della finale di coppa nel 2009. Applausi seguirono anche alla sconfitta, a quell’ultimo atto, contro il Barcellona per 4-1 a Valencia.
Tutto questo è realtà se parlate dell’Athletic Bilbao. La sua è una storia di diversità, di unicità, di autenticità, di passione, di democrazia.
Saez, uno degli allenatori della squadra negli anni Sessanta, ai giornalisti che gli chiedevano se avesse mai pensato di acquistare stranieri, ha dichiarato: “Come allenatore, spero che questa eventualità non sia mai necessaria. Come socio, preferisco non vedere mai una tal cosa».
“«Alla base della filosofia dell’Athletic c’è una sfida» sintetizza Mariann Váczi, antropologa, dottoranda in Studi baschi presso l’Università del Nevada con una tesi sulla tifoseria biancorossa «affrontare con giocatori locali una competizione globalizzata. È una filosofia che risponde allo spirito d’avventura e all’amore per il rischio che sono propri della storia di Bilbao. Non a caso esiste la parola bilbainada per indicare la “spacconata”. La filosofia dell’Athletic riflette il desiderio non di vincere, ma di vincere in maniera speciale e contro ogni pronostico. Una comunità si definisce non tanto attraverso il circuito quotidiano di relazioni politiche ed economiche, quanto attraverso la trasgressione delle leggi altrui: l’Athletic è amato perché rappresenta una trasgressione, secondo la stessa logica della sepoltura del fratello da parte di Antigone.”
La sfida autarchica del club, oltre che sui supporter, ha effetti rilevanti sui calciatori: l’Athletic può vantare autentici giocatori- tifosi, che quando arrivano a vestire la maglia della prima squadra si sentono definitivamente appagati e non sognano di poter approdare ad altri lidi. Gente che in campo dà l’anima; in tribuna, a guardarli, magari c’è un padre tifoso e socio dell’Athletic (quindi anche «datore di lavoro»).”
Immaginate un ricordo mio personale, che mi riporta all’età di cinque anni. Il Bilbao, nel 1977, arriverà terzo in campionato e perderà due finali. Quella di coppa del Re contro il Betis è ricordata come la partita dei mille rigori. La “lotteria” gioca male per i bilbaini. Per uno scherzo del destino è basco l’allenatore dei rivali e sono baschi i due portieri che tireranno i rigori decisivi: quello del Betis finisce dentro, quello dell’Athletic fuori. La finale di coppa Uefa invece viene giocata contro la Juventus e io mi ricordo una radio arancione e forse una tv in bianco e nero. Ricordo di essere seduto a tavola, in cucina, forse col Guerin Sportivo aperto davanti e ricordo nitidamente il nome dell’Atletico (come si chiamava in Italia) Bilbao e il due a uno che sancì la vittoria della coppa Uefa da parte della Juventus.
Immaginate un libro che racconta tutto questo e merita una lettura. Le citazioni riportate nell’articolo provengono da questo libro: l’utopia calcistica dell’Athletic Bilbao.