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Lo stupore delle prese elettriche

CDP, TPL, economie di scala e maledette partecipate

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Da “La lista della spesa” di Carlo Cottarelli

CASSA DEPOSITI E PRESTITI

La cassa depositi e prestiti acquisice partecipazioni azionarie, compra dallo stato, mantiene le azioni in mano pubblica. È una finta per non far vedere lo stato imprenditore.

PARTECIPATE

Esiste il capitalismo degli enti locali.

Il numero delle partecipate degli enti locali (società per azioni, ma anche altre forme di gestione separata di servizi pubblici, o comunque di attività di vario genere) è aumentato fino al periodo più recente.

Tanto per cominciare, non sono 8000. L’8000 arrotonda il numero censito nella banca dati del ministero dell’Economia e delle finanze (7726 per la precisione, di cui il grosso, 5459, sono partecipate dai comuni, le cosiddette municipalizzate). Queste partecipazioni sono per l’85 per cento in forma societaria (società per azioni, a responsabilità limitata, cooperative, società consortili), ma sono inclusi nella banca dati anche enti pubblici locali e altre entità di questo tipo nel cui capitale gli enti locali partecipano in diverso modo. Il numero effettivo è più elevato. Non tutti gli enti locali rispondono al censimento del ministero. C’è poi il problema delle “scatole cinesi”: una partecipata che controlla un’altra partecipata che controlla un’altra partecipata eccetera. Non tutti gli enti comunicano al ministero le partecipate di secondo e terzo grado. La banca dati del dipartimento delle Pari opportunità della presidenza del Consiglio, che comprende un livello di controllo più indiretto, ne censisce oltre 10.000.2 Sono tante? In Francia, che certo non è famosa per avere un settore pubblico snello, le partecipate locali sono circa un migliaio. Perché sono così tante in Italia? Be’, ci sono tanti comuni, il che non facilita le cose. Ma il numero delle partecipate è aumentato negli ultimi anni senza che aumentasse il numero dei comuni. Un motivo, che ha senz’altro influito, è stata la progressiva stretta imposta dalle esigenze di finanza pubblica sulla spesa degli enti locali. Se da un lato si stringevano le regole sugli enti locali, in termini di spesa complessiva, personale e, anche, di costi della politica, dall’altro, si aggiravano i vincoli creando entità – le partecipate, appunto – al di fuori del settore pubblico. Il numero di nuove partecipate aperte ogni anno è aumentato da un centinaio nei primi anni novanta a circa 400 tra il 2000 e il 2007. Solo successivamente si è cominciato a stringere il rubinetto: le nuove partecipate sono scese a circa 200 nel 2011 e 2012. Ma la vasca ha continuato a riempirsi, seppure meno velocemente che in passato.

Le partecipate sono tante al nord quanto al sud, anche se quelle del nord mostrano meno segni di inefficienza.

Che cosa fanno queste partecipate? Cosa producono? Un po’ di tutto. Ci sono quelle che producono servizi venduti solo all’ente partecipante (le cosiddette “strumentali”, una sorta di “divisioni” distaccate dell’ente stesso), per esempio servizi informatici o amministrativi (la preparazione di buste paga). Quelle che forniscono servizi vari a famiglie e imprese gratuitamente (o, meglio, con finanziamenti provenienti dalle tasse), per esempio l’illuminazione pubblica o i servizi cimiteriali. Quelle che forniscono servizi pubblici a pagamento (elettricità, gas, acqua, rifiuti, trasporto). Infine, quelle che vendono prodotti di vario genere al pubblico (terme, casinò, turismo, commercio al dettaglio e all’ingrosso, farmacie, con qualcuna che produce pure uova e latte). Si tratta quindi di un settore molto variegato, che comprende senza dubbio cose che deve fare assolutamente il settore pubblico, perché il privato non le farebbe, e cose che invece non dovrebbe fare, perché il privato può farle meglio. In ogni caso, se le fa, il pubblico dovrebbe farle in modo efficiente. Spesso non è così.

Non si sa quanto costano le partecipate. Dai bilanci delle partecipate censite dal ministero dell’Economia e delle finanze, le perdite nel 2012 risultavano essere di circa 1200 milioni.3 Il settore in maggior disavanzo è il trasporto pubblico locale (300 milioni con l’Atac, l’azienda di trasporto locale di Roma, responsabile per la metà delle perdite del settore), ma società in perdita si trovano quasi ovunque. Alcune partecipate, però, non evidenziano perdite nei propri bilanci perché ricevono trasferimenti a vario titolo dagli enti partecipanti, anche attraverso i cosiddetti contratti di servizio, che regolano la vendita di prodotti dalla partecipata all’ente partecipante. Questi trasferimenti equivalgono a veri e propri sussidi, se i prezzi di acquisto sono superiori a quelli che sarebbe possibile pagare qualora le partecipate fossero efficienti. Il totale dei vari trasferimenti alle partecipate ammontava a circa 16 miliardi e mezzo nel 2012. C’è chi considera, erroneamente, tutto questo importo come una spesa parassitaria, recuperabile chiudendo le partecipate. Ovviamente è sbagliato perché molte delle cose comprate dalle partecipate dovrebbero comunque essere acquistate, anche se magari a prezzi più bassi. Una parte, pur difficile da quantificare, comunque, è certamente rappresentata da sussidi che coprono inefficienze di gestione. Quindi ci sono le perdite palesi, le perdite coperte da trasferimenti e, infine, i costi pagati direttamente dai cittadini: per esempio nel settore dei rifiuti, per legge le tariffe devono coprire il costo del servizio, anche se questo è gonfiato da inefficienze. Tutto sommato, si può pensare che gli sprechi nel settore ammontino a qualche miliardo ogni anno. Non è una cifra enorme rispetto al volume della spesa pubblica italiana. Ma neanche irrilevante. Inoltre, una parte di queste spese riflette trattamenti di favore di cui beneficiano individui (amministratori e dirigenti) o lobby di potere. I consigli di amministrazione delle partecipate costano circa un miliardo all’anno. Rapportandolo alla quota pubblica nelle partecipate (molte sono miste, cioè hanno anche una parte privata), la quota di pertinenza pubblica di questi costi è di circa 500 milioni. Non è una cifra marginale.

Gli sprechi? Spese per il personale sovrabbondanti, acquisti a prezzi troppo alti o per quantità eccessive, trasferimenti versati a qualcuno (compresa la fornitura di servizi pubblici a tariffe che non coprono i costi).

Come intervenire?

Ridurre drasticamente il numero delle partecipate chiudendo o privatizzando quelle non necessarie all’attività pubblica.

Si eliminerebbero così anche società in perdita o comunque inefficienti; secondo, si semplificherebbe il sistema rendendolo quindi più facilmente monitorabile. Vediamo quindi prima di tutto come si può sfoltire il numero delle partecipate. Da cosa partire? Ci sono diversi interventi diretti che potrebbero aiutare. Primo, si potrebbero chiudere le “scatole vuote”, cioè quelle partecipate che non hanno dipendenti, o molto pochi. Ci sono circa almeno 1300 partecipate senza dipendenti (cioè solo con il consiglio di amministrazione), oltre 2000 che hanno un numero di dipendenti inferiore al numero dei membri del consiglio di amministrazione, oltre 3000 con meno di 6 dipendenti. Almeno 1300 hanno un fatturato inferiore a 100.000 euro (e il numero raddoppia se si arriva al milione di euro). Il sospetto è che molte di queste piccole partecipate siano nate per creare “poltrone” per qualche dirigente o membro del consiglio di amministrazione, o che comunque non siano essenziali. Secondo, si potrebbe limitare il fenomeno delle “scatole cinesi”, ossia le partecipazioni indirette. Naturalmente chi svolge attività d’impresa mantiene spesso, per motivi di efficienza organizzativa, strutture societarie anche complesse. Ma molte partecipate non vendono beni e servizi sul mercato per cui non c’è alcuna giustificazione, in termini di efficienza organizzativa, per mantenere strutture organizzative complesse. Terzo, non si vede perché piccoli comuni, che non hanno capacità gestionali elevate, dovrebbero avere partecipate. Se proprio le devono avere, che si associno. Al momento, quasi la metà delle partecipate dei comuni (quindi diverse migliaia) appartiene a comuni con meno di 30.000 abitanti. Quarto, molte partecipazioni sono così piccole (meno del dieci, cinque, spesso anche meno dell’uno per cento del capitale societario) da porre il dubbio sulla loro effettiva utilità strategica. Queste micropartecipazioni sono normali nel caso di società controllate da tanti piccoli comuni, ma ci sono 1400 partecipate in cui la quota combinata dei vari enti pubblici non raggiunge il 5 per cento, 1900 partecipate in cui non raggiunge il 10 per cento e 2500 partecipate in cui non raggiunge il 20 per cento. Perché non si vendono queste micropartecipazioni? Si semplificherebbe il sistema (anche se una partecipazione è piccola, ci vuole comunque sempre qualcuno nell’ente partecipante che se ne occupi, sprecando risorse che potrebbero essere dedicate ad altri scopi).

Bisogna capire quale debba essere il perimetro appropriato delle partecipate locali e delle imprese pubbliche.

Il settore pubblico può fare qualunque cosa purché non sia in perdita? Il rischio è che produca servizi turistici, latticini, frutta, verdura col rischio che finché vanno bene ok ma quando vanno male non chiudoono e diventano un peso economico.

Un altro approccio è di considerare che le imprese pubbliche debbano operare solo quando esistano motivi per pensare che le imprese private non possano fare la stessa cosa. Si parla di fallimenti di mercato, ma è un concetto che varia nel tempo. Un tempo si pensava che le imprese private non sarebbero riuscite a produrre un bene essenziale come il latte in quantità e con una copertura territoriale sufficiente per cui le aziende produttrici di latte erano pubbliche. Oggi non è più così in molti casi. Stessa cosa per le farmacie, che una volta erano quasi tutte pubbliche e oggi sono quasi tutte private.

C’è anche il rischio che le partecipate siano costituite solo per creare poltrone e posti di lavoro non giustificabili economicamente. O per aggirare i vincoli posti agli enti territoriali sul governo centrale, come i patti di stabilità interni.

Nel 1903 esisteva la legge Giolitti che stabiliva che per creare una partecipata ci voleva una consultazione popolare. Se gli elettori votavano no al referendum di assunzione diretta di un servizio la proposta non poteva essere ripresentata se non dopo tre anni, ridotti a uno se un quarto almeno degli elettori iscritti ne avesse fatto richiesta.

Si possono chiudere le partecipate esistenti? Sì, almeno in parte.

Si può evitare che se ne creino di nuove? Sì

Che fare con gli esuberi? Per molte il problema non esiste perché non hanno occupati o ne hanno pochi. Per altre si tratta non di chiudere ma di vendere al privato quote di importo modesto.

La privatizzazione può evitare la chiusra.

Una parte degli occupati può essere riassorbita nella pubblica amministrazione: il risparmio si materializza se in corrispondenza si riducono le assunzioni dall’esterno.

Gli ammortizzatori sociali possono fare riassorbire gli esuberi.

In ogni caso, mantenere in vita partecipate che bruciano risorse invece di produrre valore aggiunto non serve a nessuno: tanto varrebbe pagare i dipendenti per farli stare a casa. Almeno si risparmierebbero i costi di gestione e il costo dei consigli di amministrazione. In proposito abbiamo stimato che se le partecipate fossero davvero portate da 8000 a 1000 (nel giro di tre o quattro anni) il settore pubblico potrebbe risparmiare circa 300 milioni a regime, solo per la riduzione del numero delle “poltrone” dei membri dei consigli di amministrazione.

Le partecipate restanti devono operare in modo efficiente.

Fissare costi standard che consentano di valutare quanto dovrebbe costare la produzione di certi servizi pubblici e di fissare coerentemente i prezzi che gli enti territoriali devono pagare alle partecipate per l’acquisto dei servizi forniti impedirebbe di far passare come acquisti quelli che sono veri e propri sussidi all’inefficienza.

Bisogna anche evitare di comprare cose che non servono.

Alcune municipalizzate che vendono elettricità sono così inefficienti – in particolare in termini di spese per il personale, e, in generale, nei costi fissi – che si sostengono solo con la vendita di quantità di energia eccessive ai comuni controllanti. Riducendo i consumi a

quanto effettivamente necessario, si manderebbero in rovina queste municipalizzate. Capite bene che è del tutto paradossale. È chiaro che la soluzione del problema deve essere l’efficientamento delle municipalizzate, non il mantenimento di consumi energetici eccessivi. E se proprio non si possono efficientare, almeno si rendano palesi i sussidi finanziari, evitando lo spreco in termini di consumi energetici reali.

Famiglie e imprese devono pagare il prezzo giusto per i servizi che vengono loro forniti.  Il prezzo giusto deve tener conto di una produzione efficiente, non prezzi che riflettono inefficienze.

Un caso particolare sono i trasporti pubblici locali

IL TPL

Pochi semplici numeri bastano a illustrare l’inefficienza del trasporto pubblico locale italiano rispetto a quello degli altri principali paesi europei. I costi operativi per chilometro sono del 18 per cento più alti che in Germania e dell’83 per cento più alti che nel Regno Unito. Gli autobus viaggiano spesso vuoti: questo sembrerà strano a molti perché, spesso nelle grandi città, nelle ore di punta sono affollatissimi. I dati, però, indicano che, in media, il rapporto tra passeggeri e posti è del 22 per cento in Italia, la metà di quello della Francia e della Spagna. I ricavi da traffico per chilometro sono i più bassi tra i grandi paesi europei, il 40 per cento di meno che in Germania. I biglietti e, soprattutto, gli abbonamenti costano poco e molti viaggiano senza pagare, in particolare nel Centro e nel Sud Italia.

Per effetto delle inefficienze e dell’inadeguatezza dei ricavi, il settore sopravvive solo grazie a massicci trasferimenti di denaro pubblico (oltre 6-7 miliardi l’anno), anche se questo non basta a evitare perdite. Né si può dire che la qualità dei servizi sia soddisfacente. Per risolvere il problema occorre intervenire sia sul lato dei ricavi sia su quello dei costi. Sul lato dei ricavi, sembra difficile non aumentare le tariffe, soprattutto quelle degli abbonamenti, i cui prezzi sono i più bassi tra i grandi paesi europei. Gli abbonamenti mensili e annuali costano la metà di quelli francesi e tedeschi, un quarto di quelli inglesi. Si tratta quindi di sussidi molto più elevati di quelli degli altri. Ce lo possiamo permettere? Si dirà che chi usa il trasporto pubblico riduce l’inquinamento e va premiato. È vero, ma va premiato il doppio di quanto avviene in Francia e in Germania? Si dirà che aumentando le tariffe si fanno pagare i più poveri. Il problema, però, è che delle tariffe basse beneficiano tutti, anche chi può permettersi di pagare un biglietto che copra i costi, anche i turisti stranieri che vengono a godersi le vacanze in Italia. Meglio sarebbe avere tariffe più alte e utilizzare il risparmio per ridurre le tasse sui redditi più bassi. Allora sì che ne beneficerebbero i meno abbienti. Stesso discorso, mutatis mutandis, per il mancato pagamento dei biglietti, dove occorre intervenire più energicamente, soprattutto nel trasporto su gomma, dove l’evasione è più elevata. Sul lato dei costi, occorre capire innanzitutto che si può essere più efficienti e che già certe regioni lo sono. Il corrispettivo per posto/chilometro pagato per trasporto non ferroviario in Molise è circa sei volte maggiore di quello pagato in Piemonte, Liguria e Lombardia. In generale, le regioni del Sud (più due regioni a statuto speciale al Nord, Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige) hanno corrispettivi molto più elevati di quelli del resto dell’Italia. L’auspicata introduzione di costi standard per la determinazione dei corrispettivi dovrebbe quindi portare a un efficientamento selettivo, colpendo maggiormente chi ora è inefficiente. Nel corso dei lavori per la Revisione della spesa abbiamo stimato che l’applicazione dei costi standard al settore del trasporto locale non ferroviario consentirebbe di risparmiare almeno 350 milioni l’anno. Si dovrebbe introdurre anche un po’ di competitività nel settore assegnando i servizi attraverso gare e non tramite affidamenti diretti a partecipate. Sembra inevitabile tagliare anche le linee a più scarso traffico, visto l’eccesso di offerta rispetto alla domanda.

Una parte delle risorse recuperate potrebbe essere usata per migliorare la qualità dei servizi, per rinnovare il parco autobus, per ammortizzatori sociali.

SFRUTTARE LE ECONOMIE DI SCALA

Poi occorre sfruttare le economie di scala e ridurre i costi in settori come acqua, gas, elettricità, rifiuti. Costa meno produrre su scala più grande: il costo per unità di prodotto scende.

In Italia c’è una eccessiva frammentazione. Per avere costi di produzione efficienti occorrerebbe ridurre le partecipate che agiscono nel settore idrico da 300 a 20-70. Per la raccolta rifiuti si dovrebbe passare da 400 a 20-50.

Occorre incentivare l’aggregazione con regolamentazione. Cioè affidare i srvizi su aree ampie. Appalti su ambiti territoriali vasti forzerebbero i comuni ad aggregare le proprie partecipate. Si tratta di completare la normativa già esistente e di forzare l’implementazione dove è stata carente, come al sud.

 

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