there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

Cibo, multinazionali e articoli a tesi.

 

 

Racconta un tipo, secondo quanto si legge qua: http://www.internazionale.it/opinione/martin-caparros/2015/07/16/consumatori-multinazionali-cibo. “Amavo i dolciumi, bevevo bevande gassate, non mangiavo mai verdura, andavo nei fast food e mi abbuffavo di cibo industriale. Quindi sono finito in un letto d’ospedale.”

Quindi la colpa è tua, solo tua, esclusivamente tua.

Inoltre anche se avesse mangiato tutti i giorni pane fatto in casa, dolci fatti in casa, patate e zucchine prese dall’orto, formaggio fatto da sé, frutta comprata dal fruttivendolo di famiglia, salumi e carni presi da un allevatore di fiducia e funghi raccolti in un bosco e poi fritti, il risultato sarebbe stato simile. Una dieta ad alto contenuto di cibi ad alto indice glicemico soprattutto combinata ad un’attività fisica inesistente conduce con probabilità elevata a un letto di ospedale per diabete o infarto o tumori.
Che peraltro sono malattie legate anche alla vecchiaia e dipendono quindi pure dall’allungamento della vita.

Già. Perché, per quanto sembri strano ai catastrofisti di professione, la vita si è allungata a seguito della rivoluzione industriale, della rivoluzione verde e malgrado il cibo si “produca” sempre meno e si “compri” sempre di più.
Volete esempi di gente che ha mangiato secondo i crismi del cibo genuino, casalingo ed è morta di tumore o ha il diabete? Guardate pure nelle vostre famiglie, tra i vostri avi.
In ogni caso il tipo è perfettamente libero di vivere come vuole adesso e di lasciarsi vivere o lasciarsi morire come voleva prima: basta che non imponga le sue idee agli altri. Per il bene degli altri, magari.

Per fortuna sembra che il tipo non voglia imporre le sue scelte. Sensibilizza, diciamo. Pone dei problemi, secondo le sue opinioni e qualche pregiudizio, ma va bene: ognuno ha la possibilità di verificare cosa dice. Ho scritto “sembra” perché ancora non ho guardato il suo blog. Mi riservo di farlo in seguito.
L’articolo, comunque, cerca di convincere i lettori di una tesi: i consumatori oggi sono cambiati e grazie alla nuova domanda le multinazionali si trovano in difficoltà. Può essere vero, ma solo in parte.

I cibi industriali non sono di per sé troiai: vengono sottoposti a prove, sia di gusto che di salubrità, per motivi di legge, di immagine, di marketing. Ogni azienda spera di fornire il prodotto giusto a ogni cliente che lo desideri. Ogni azienda spera di soddisfare i bisogni del cliente in modo da renderlo fedele.

E’ comunque vero che i processi di raffinazione, conservazione ecc.non siano il massimo. Gli ingredienti di molti prodotti possono avere effetti dannosi, soprattutto a lungo termine, specie se consumati in eccesso. Mangiare prodotti surgelati è sconsigliato. Ma se andiamo in qualche grande città internazionale troviamo tantissime persone che si fiondano al supermercato per mangiare piatti preconfezionati al volo a pranzo o a cena. E’ il tempo la risorsa più preziosa: farsi il cibo da sé e scegliersi gli ingredienti costa tempo. C’è chi preferisce cucinare e chi preferisce comprare il cibo già pronto. Tutto è lecito, finché uno dei due non rompe le palle all’altro. I consumatori sono liberi di gestire il tempo, usare le risorse, mangiare il cibo che vogliono.

Per tornare all’articolo, qui l’autore sembra cadere nell’wishful thinking: mi piace pensare questo e prendo dei dati (cherry picking) che confermerebbero il mio desiderio.

In realtà le aziende conoscono il mercato sicuramente meglio di lui. Hanno uffici studi e ricerche con gente istruita, qualificata e sicuramente anche sensibile che senza pontificare cerca di ottimizzare la produzione, ridurre gli sprechi e i costi, intensificare le ricerche, soddisfare i clienti. Per aumentare i profitti, certo. Giustamene. Queste aziende sanno che tra i consumatori c’è chi preferisce morire per l’insalata poco lavata appena colta dal terreno anziché per il conservante messo in quella industriale solo per il fatto che la prima è “coltivata da soli.” Questo crea un mercato di nicchia in cui qualcuno riesce a fornire l’insalata dell’orto col baco dentro a un prezzo triplo di quella industriale, ma anche questo è mercato. (Nota bene: questo post non prende in considerazione gli aspetti ambientali o quelli legati all’agricoltura biologica di cui abbiamo già parlato. Questo post si oppone al tentativo di affibbiare agli altri le proprie colpe e ai tentativi di imporre la propria idea di salutismo al resto del mondo.)

Se il mercato chiede più attenzione a certi tipi di prodotto, insomma, state pur sicuri che le aziende  hanno già percepito l’andazzo, lo hanno studiato e sono già pronte con linee di prodotti che cercano di colpire quella tipologia di clienti. Se non cambiano insieme al  mercato, falliscono. Esistono anche delle multinazionali del biologico, aziende tradizionali che hanno immesso prodotti vegetariani  o linee green. Se lasci fare al mercato i venditori  cercheranno di trovare la propria nicchia e i compratori chiederanno che i loro bisogni vengano soddisfatti.

L’articolo passa a fare degli esempi che dimostrano…un tubo. Innanzitutto il singolo caso è irrilevante. Quindi non ha senso (a meno di voler dimostrare una tesi precostituita) prendere cinque aziende a caso e buttare giù dei numeri, tutti di significato diverso tra loro e confrontare soltanto due anni. Le aziende non appartengono allo stesso settore: dire “multinazionali del cibo” significa poco. La McDonald per esempio sarà una multinazionale della ristorazione. La Kellogg’s produce alcuni prodotti legati al cibo. La Kraft è forse l’unica reale multinazionale del cibo. Fai un’analisi dei settori, no? Fai comparazioni nel tempo e nello spazio se vuoi essere davvero convincente.
I numeri, dicevamo. La Coca Cola risparmia. Eh brava. E quindi?
La Kraft ha avuto l’utile in calo. Eh. E allora? Se vai a vedere il bilancio vedi che questo è dovuto all’aumento dei costi delle materie prime e NON a una diminuzione di ricavi.

L’autore, infine, non si pone due problemi. O meglio li considera indirettamente. I poveri, dice, vanno a mangiare nei fast food. Ok. Tu vuoi togliere i fast food, che peraltro danno anche lavoro, oltre che sfamare i poveri. Quindi se mcdonald fallisce dove vanno a lavorare i lavoratori e dove vanno a mangiare i poveri che restano comunque tali? Devono essere sussidiati dallo Stato, gli uni e gli altri, per caso? La posizione: “Non me ne frega niente se fallisce, i lavoratori vanno da un’altra parte e i poveri muoiono” è legittima. Basta che venga proposta una soluzione a questo problema, o che almeno venga affrontato, se vogliamo fare un’analisi completa.
La stessa cosa vale per le altre aziende: essere contenti del calo degli utili della Kraft può voler dire essere contenti del licenziamento di un…che so…ventimila lavoratori, sicuramente i meno qualificati oltre magari a qualche migliaio di amministrativi burocrati. La posizione, ripeto, è legittima: basta mettere questa o una qualche sua alternativa sul piatto.

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