Da Carlo Cottarelli: “Sette peccati dell’economia italiana”
La popolazione diminuisce e invecchia.
Si vive più a lungo.
Si fanno meno figli.
È problematico se un numero maggiore di genitori deve essere sostenuto da un numero minore di figli. Per rimediare si può risparmiare di più da giovani. L’economia avrà più capitale disponibile per produrre reddito e questo può compensare il calo del numero dei lavoratori.
Oppure si può ritardare l’età del pensionamento affinché aumenti il numero di anni in cui si è produttivi.
La spesa per pensioni rappresenta il 36% della spesa pubblica al netto degli interessi. Questo comprime tutte le altre forme di spesa, comprese quelle che sostengono la crescita economica.
Si risparmia sull’istruzione, per esempio. Inoltre anche lì: nel 1970 c’erano 10 milioni di studenti e 573mila insegnanti. Nel 2013 c’erano 8,9 milioni di studenti e 778000 insegnanti. Il numero di studenti per insegnante è sceso da 17,3 nel 1970 a 11,5 nel 2014. In Italia ci sono venti studenti per classe. La media dell’ocse è di 24. Alle superiori siamo a 21 contro 27.
Effetti sul pil
“Per definizione, il Pil è uguale al numero di persone occupate moltiplicato per il prodotto per occupato, cioè la produttività per occupato. Se ci sono 1000 persone al lavoro in un paese e ognuna produce beni per 1000 euro, il prodotto totale, il Pil, è di un milione di euro. Per cui, per capire come influiscono i cambiamenti demografici sul Pil, possiamo chiederci come questi influiscano sul numero di persone al lavoro e sulla produttività di chi lavora. Cominciamo con il numero di persone al lavoro, che dipende da diversi fattori: se gli imprenditori non assumono perché non pensano di riuscire a vendere ci saranno meno occupati, se le tasse sul lavoro sono troppo alte magari la gente preferisce lavorare di meno, e così via. Ma il punto di partenza per capire quante persone potenzialmente possono lavorare è verificare quante persone sono in età lavorativa, che le agenzie statistiche considerano di solito compresa tra i 15 e i 64 anni. È da qui che passa l’effetto principale del calo demografico sul totale degli occupati. Se calano le nascite, dopo un po’ cala anche il numero di persone in età lavorativa – a meno che non aumenti il numero degli immigrati. L’effetto ritardato dell’onda demografica, temperata dall’immigrazione negli ultimi quindici anni, è evidente dai dati dei censimenti. Il censimento del 1971 ci diceva che i residenti in Italia tra i 15 e i 64 anni erano 34.800.000, con un aumento del 4,2 per cento rispetto a dieci anni prima. La crescita della forza lavoro si mantiene elevata durante gli anni settanta e ottanta (anzi accelera, perché diventano maturi i baby boomer degli anni sessanta), ma crolla negli anni novanta, quando i figli dei figli dei fiori (i nati negli anni settanta) raggiungono l’età lavorativa. Il censimento del 2001 ci dice che la forza lavoro è calata di 800.000 unità, ossia del 2 per cento rispetto a dieci anni prima. Poi riprende a crescere, anche se in misura modesta, nel decennio successivo, un aumento di poco più di mezzo milione, ossia dell’1 per cento in dieci anni. Ma è puramente l’effetto degli immigrati che aumentano in quel decennio da 1,3 milioni a 4 milioni, un vero boom. Gli immigrati di età compresa tra i 15 e i 64 anni aumentano di 2,1 milioni, per cui senza di loro la forza lavoro si sarebbe ridotta di 1,6 milioni, a una velocità doppia rispetto agli anni novanta. Passiamo all’effetto del calo demografico sulla produttività di chi lavora. Qui le cose diventano meno ovvie. Una popolazione meno giovane sarà meno inventiva, meno motivata e quindi meno produttiva? Inoltre, si può pensare che se un lavoratore ha meno figli tenda a lavorare di meno, o a impegnarsi di meno sul lavoro, perché non deve preoccuparsi del futuro dei figli, che sia quindi meno produttivo?10 Fino a pochi anni fa, gli studi dell’effetto che cambiamenti demografici possono avere sul livello e sul tasso di crescita della produttività si occupavano soprattutto dei paesi in via di sviluppo. Negli ultimi anni, però, la minore crescita economica in diversi paesi avanzati ha stimolato varie analisi del legame tra demografia e produttività anche per questi paesi. Le analisi hanno solitamente portato alla conclusione che la produttività di chi lavora è molto influenzata dall’invecchiamento della popolazione. Per esempio, uno studio econometrico pubblicato da tre economisti del Fondo monetario internazionale, Shekhar Aiyar, Christian Ebeke e Xiaobo Shao, a fine 2016, focalizzato sui paesi europei, conclude che un aumento di un punto percentuale della quota di lavoratori di età compresa tra i 55 e i 64 anni sul totale dei lavoratori è accompagnato da una riduzione della crescita della produttività annua per lavoratore almeno dello 0,25 per cento.11 Ora, tra il 1971 e il 2011 la quota dei lavoratori in questa fascia di età è aumentata in Italia di 2,3 punti percentuali. Il che vuol dire (moltiplicando 2,3 per 0,25) che questo aumento avrebbe portato a una riduzione del tasso di crescita della produttività italiana di circa lo 0,6 per cento. Si tratta di un valore piuttosto elevato tenendo conto che il tasso di crescita della produttività media tra gli anni settanta e il primo decennio del nuovo millennio si è ridotto di circa tre punti percentuali. Quindi un quinto di questa discesa sarebbe puramente dovuto all’invecchiamento della popolazione. Il lavoro del Fondo monetario indica però che l’effetto dell’invecchiamento della popolazione sulla crescita della produttività potrebbe essere anche tre volte più grande di quello sopra riportato (il coefficiente stimato potrebbe essere di 0,7, non 0,25); se così fosse, il calo del tasso di crescita della produttività dei lavoratori italiani potrebbe essere per più della metà spiegato da fattori demografici.
Gli immigrati non qualificati hanno effetto negativo sulla produttività media perché spesso sono occupati in lavori a basso reddito e produttività (badanti…). Gli immigrati producono pil che non sarebbe prodotto altrimenti ma l’aumento del loro numero spiega in parte la bassa crescita delal produttività”.
La tendenza è per ulteriore invecchiamento. Peraltro i giovani emigrano.
Calo del tasso di fertilità: rallentamento della crescita, fattori culturali.
In Svezia
“Qualunque fosse stato il motivo del calo del tasso di fertilità, il governo svedese all’inizio degli anni ottanta decise di adottare misure per contrastare il fenomeno. Venne rafforzata l’offerta di asili pubblici (sussidiati anche per chi aveva un reddito più elevato, seppure in modo minore) e, soprattutto, vennero ampliati i sussidi ai genitori che, dopo la nascita del figlio, dovevano temporaneamente smettere di lavorare. Il sussidio era proporzionato al livello del reddito, per cui si consentiva (per un periodo anche superiore all’anno) di mantenere un reddito vicino a quello lavorativo senza lavorare. Il che funzionò perfettamente: il tasso di fertilità risalì sopra a 2 all’inizio degli anni novanta. Poi, il tasso di fertilità tornò a calare negli anni novanta in concomitanza con i tagli alla spesa pubblica che furono necessari per far quadrare i conti nell’ambito di una crisi economica che aveva ridotto le entrate dello stato, tagli che colpirono anche i benefici per chi aveva figli. All’inizio della scorsa decade, proprio per ovviare al nuovo calo delle nascite, si è tornati a espandere i benefici per i genitori, in particolare con un abbassamento delle rette per gli asili anche per i percettori di un reddito elevato (è previsto un tetto per i pagamenti). Il sistema ha funzionato e ora il tasso di fertilità in Svezia (tra 1,8 e 1,9) è uno dei più alti tra i paesi avanzati, nonostante il tasso di occupazione delle donne sia quasi uguale a quello degli uomini. È un sistema molto costoso, però. I benefici per i genitori sono una delle più importanti componenti del sistema di welfare svedese e vengono finanziati da entrate fiscali piuttosto elevate rispetto al Pil. Ma in Svezia le tasse le pagano tutti; il tasso di evasione fiscale è uno dei più bassi d’Europa: per l’Iva è intorno all’1 per cento, contro il 27-28 per cento dell’Italia”.
Cosa si può fare
L’immigrazione può aiutare.
Non è stato granché: bonus bebé, congedo parentale limitato, voucher limitati per gli asili nido.
Si può seguire il modello svedese: asili di alta qualità a basso prezzo, non penalizzare chi lascia temporaneamente il lavoro.
O il modello statunitense: detassare chi ha figli.
Il problema è il debito pubblico. Sarebbe comunque preferibile spendere per aumentare il tasso di fertilità che per le pensioni. Ma i pensionati votano e sono già nati.
Occorre anche adottare pratiche di lavoro flessibili. Se un genitore esce dall’ufficio alle 17 e poi vuole lavorare non dev eessere penalizzato