Qui la prima parte: https://www.riccaricci.com/convention-perugia/
Ecco la descrizione di un po’ di personaggi che hanno partecipato a quella convention
Il responsabile di reparto del negozio di Arezzo. Da venticinque anni nel mondo degli articoli sportivi. Ci ha spiega tutto sulle scarpe mettendoci dentro tutta la sua passione. Sottolinea anche lui la differenza tra scarpe tecniche (anche da trekking, oltre da corsa o specifiche per i vari sport) e scarpe “fashion”. Spiega la strategia dell’azienda in questo settore. Sembra che prima di arrivare lì si sia detto a lungo: “Ma che gli racconto?”. Tiene sempre spento il microfono, non gli piace dover parlare in piedi, usa molti termini dialettali (“te tu c’hai”, “come ‘ll’è), parla a ruota libera, ogni tanto dà per scontate cose che andavano spiegate, non si ferma a chiedere se qualcuno vuol fare domande, è molto schietto. Per queste ragioni viene anche ripreso dal Direttore Generale (le maiuscole sono a presa in giro, per la cronaca), di cui dirà: “Al liceo lo coprivo di scapaccioni e ora mi riprende. Mah!”. Dice cose di sostanza e viene ripreso sulla forma. Normale. Al di fuori della sala congressi ci spiega cosa andremo a fare e è anche lui molto gentile e simpatico. In ogni caso l’unico che là dentro abbia osato far ridere! Voto 8,5.
La ragazza dell’ufficio acquisti. Avrà sui ventotto anni. Ci spiega due cose in mezz’ora con un tono da persona che sta ripetendo una lezione imparata a memoria. Io farei molto peggio, ovviamente. Voto 6.
Una certa Simona: la proprietà la voleva buttare fuori, ma il figlio della proprietà l’ha portata con sé all’estero e “ogni volta che torna dalla Cina è maturata” (parole del direttore generale. Maturata come le arance? dico io. A forza di maturare si marcisce.). Viene oggi definita dalla proprietà “Un fenomeno!”. Dubbio: se la proprietà la definisse in un modo opposto, oltre a non far più parte dell’organico aziendale, il direttore generale come ne parlerebbe? Voglio dire: sarà ammesso che il diggì abbia delle opinioni diverse dalla proprietà?
Una certa Francesca: lei mi ha fatto il colloquio in inglese. Attualmente si trova in Cina. Tutti sono rimasti colpiti dal suo essere “bella figheira”. Per il resto non è mai stata citata. (Attualmente è durato poco: ha cambiato presto lavoro, dopo avere fatto tanti viaggi e avere preso pochi soldi.)
Il figlio del proprietario. Si chiama come il proprietario con l’apposizione di jr.al nome. Come se io chiamassi mio figlio Riccardo jr. Il motivo ufficiale è che la proprietà non ricorda mai i nomi e quindi chiama tutti “testa secca”, “gambe lunghe”, come usualmente si faceva nei paesini. La proprietà sperava che diventasse il nuovo Alberto Tomba (10 per lo sci, 9.5 per le emozioni che mi ha regalato, 8 per aver picchiato un fotografo rompipalle, 0 per aver fatto il grosso accendendo le sirene per superare una fila di auto, 6 per l’evasione fiscale visto che non ne aveva bisogno, 9 per come era all’inizio, 8 per tutto il resto, puttanate comprese). Non lo è diventato. Ha i contatti diretti con tutti i fornitori cinesi. E’ spesso in Cina. Ha ritmi disumani pieni di lavoro, voli, stress. Controlla la produzione in Cina insieme a quelli dell’ufficio acquisti. Osserva i campionari delle grandi marche in modo da sapere quali scarpe saranno di moda due anni dopo. Tiene i contatti coi referenti in Australia e America dove il mercato è anticipato di un anno e dove si creano le mode. Verifica cosa portano i ragazzi di colore nei ghetti americani, per esempio, il che di solito definisce le mode. Dice che le multinazionali spendono miliardi per fare questo e l’azienda è pronta ogni volta che c’è da essere i primi a copiarle.
Il direttore del negozio di Prato. Era un semplice e umile commesso del negozio di Marcon (Venezia). Faceva sport come la canoa, il kajak oltre a un po’ di calcetto e probabilmente altro. Poi la proprietà gli fece fare la scalata fino a responsabile di reparto e quindi a direttore. Era un bravo direttore. A Prato andavano male. Gli arrivò una telefonata: “Devi andare a Prato.”. “A fare che?”. “Il direttore”. “Ah. E quando devo esserci?”. “Oggi alle due”. Da quando ci è andato lui il negozio si è risollevato. L’anno scorso ha realizzato un fatturato di dieci miliardi. Lui se ne è beccato uno e mezzo. Ora gira orgoglioso in Mercedes. Fa molto meno sport (in pratica solo nelle due settimane di ferie). Si sente orgoglioso di far parte di un gruppo in cui crede molto. Fa il suo lavoro con passione. E’ competente, capace, voglioso. Crede nel progetto. Si sente parte di una famiglia, di una squadra, di un esercito (parole sue). E’ lui che ha creato i cinquantanove punti che un direttore deve seguire e far seguire: un mansionario. Segno, comunque, di organizzazione, un po’ militaresca forse o appunto familistica. Ha spiegato cosa dovrebbe fare un direttore e si sente che crede profondamente in quello che dice. Ha un approccio collaborativo coi suoi commessi salvo quando meritano che gli si tiri il collo. Del resto è stato anche lui un commesso. Ha detto che chi vuol fare il capo-area deve prima aver dimostrato di essere un buon direttore, se no se va da lui potrebbe finire “spellato”. Ha una concezione gerarchico-paternalistica del tipo: “Io sono qui e comando: se fate i bravi figliuoli va tutto bene, se no arrivederci”. Rispetta comunque i suoi commessi e si fa rispettare. Rispetta i clienti che restituiscono la merce facendo credere qualsiasi cosa, ma di solito vince lui facendo credere agli altri che abbiano vinto loro. Parla in modo molto spregiativo di extracomunitari che mettono sotto la giacca delle placche anti-anti-taccheggio o usano altre tattiche geniali. Ce l’ha coi ladri perché lui ci si gioca il culo (e loro ci si giocano la vita? ndrr). Ha due “carabinieri di fiducia”. Crede evidentemente anche nelle istituzioni repressive. Probabilmente non ha mai sentito parlare di Reggio Emilia 1960 o non ha ascoltato la canzone “Il disertore”. Tra le guardie e i ladri sta dalla parte delle guardie. Non ha probabilmente mai letto Don Chisciotte, non dico Proudhon (“la proprietà è un furto”). Per il suo lavoro, per le sue competenze, per essere partito dalla gavetta, perché crede in quello che fa, perché si è realizzato, perché tende ad avere rapporti umani coi suoi dipendenti e per altre ragioni legate al lavoro prenderebbe 7. Per quello che pensa merita 5. Quindi voto finale 6