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Lo stupore delle prese elettriche

Di corporativismo morirà l’Italia. Ma quando è nato?

“L’individuo non esiste se non in quanto è nello Stato e subordinato alla necessità dello Stato”. Questa frase trasmette orrore puro, come pure le seguenti che si leggono su Wikipedia, che ci dice anche che per l’Appeso di Piazzale Loreto “lo Stato non è fascista se non è corporativo e se non è corporativo non è fascista.”
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Corporativismo
Quale mentalità sarà portata avanti per venti lunghi anni dal regime? Non certo una mentalità liberale.
Leggiamo in “Storia della Repubblica” di Guido Crainz, che «l’abitudine alla tessera» si diffonde a livello di massa proprio durante il regime (e lo stesso vale per l’iscrizione ai sindacati). Naturalmente il Partito unico non è in alcun modo accostabile alle organizzazioni sorte dopo la Liberazione ma un dato non può essere rimosso: fu con il fascismo che «le grandi masse degli italiani videro entrare il partito nella loro vita quotidiana […], si abituarono a considerare il partito come mediatore abituale –e in un certo senso addirittura obbligato –del loro rapporto con lo Stato».
Così nel dopoguerra “è difficile sostenere che sia scomparso senza lasciare tracce il carattere «onnivoro» del Partito fascista: quel suo articolarsi in ogni piega della società o quel suo contornarsi di istituti ed enti in cui collocare gli elementi fedeli, discriminando in base all’appartenenza. Quel suo porsi (e quel suo essere visto) come strumento di mobilitazione e al tempo stesso come dispensatore di favori, capace di fornire sicurezze ideali e vantaggi materiali. Sempre durante il regime inoltre si afferma la politica come mestiere. Alla fine degli anni trenta, ad esempio, la Federazione fascista di una piccola città come Arezzo conta ben 30 gerarchi e 200 impiegati: una enormità, in paragone alle organizzazioni politiche e sindacali del prefascismo.”
Anche un paper di Paolo Onofri dal titolo “Uno sguardo retrospettivo alla politica economica italiana” (http://amsacta.unibo.it/5031/ ) sottolinea che “la cultura liberale dell’inizio del secolo era uscita decisamente minoritaria dall’alleanza antifascista. Anche se l’esponente forse più autorevole della cultura laica e liberale era passato dalla guida della Banca d’Italia a quella della Repubblica, dominava una formazione dirigistica, anche di origine corporativa, che andava riversandosi su due impostazioni ideologiche alternative: la cultura economica di origine cattolica e quella marxista.”
A cosa porta tutto questo? Al mantenimento, non solo della classe dirigente fascista, ma della mentalità corporativa, statalista, nazionalista, protezionista, assistenzialista, illiberale (salvo in alcuni casi ma sempre troppo limitati). In sostanza alla prosecuzione del fascismo con altri mezzi.
Il potere del Partito Unico, semplicemente, diventa partitocrazia: “Nel marzo del 1947 Piero Calamandrei rifletteva criticamente sul nuovo ruolo che i partiti stavano assumendo. La ragione di partito –scriveva –«intorbida le nozioni comuni di onestà e disonestà, e rende sfumati ed evanescenti i confini tra la tattica politica e la furfanteria. privata. Una persona onesta, che mai sarebbe capace di rubare un centesimo per sé, può ritenere lecito e magari meritorio, per fanatismo politico, rubare milioni per il proprio partito» (Patologia della corruzione parlamentare). Altrettanto profetico appare quel che Calamandrei scrive l’anno successivo: il difetto fondamentale del sistema proporzionale «è quello di portare in Parlamento non uomini qualificati per i loro meriti individuali ma pedine di un partito». E alla fine del 1949: «l’uomo politico, per il quale il mandato parlamentare era solo un onere e un onore, si avvia a diventare un funzionario retribuito dalla politica, che vive per questa e di questa, trovando in essa il suo pane. Ciò sovverte tutte le idee di un tempo». Si prendano in esame anche gli intenti dichiarati dei partiti, il loro tendenziale porsi come «veri dirigenti di tutta la vita nazionale». (Leggiamo ancora in Crainz).
Prendiamo uno come Fanfani. https://it.m.wikipedia.org/wiki/Amintore_Fanfani “Per Fanfani, erede spirituale e politico di Dossetti, contavano soprattutto tre fattori: lo Stato, il partito e il singolo. Il partito doveva imporre dall’alto, al popolo, la propria visione del mondo. Si dimostrò un convinto sostenitore del corporativismo, insieme ad Agostino Gemelli e altri, nel quale riconobbe uno strumento provvidenziale per salvare la società italiana dalla deriva liberale o da quella socialista ed indirizzarla verso la realizzazione di quegli ideali di giustizia sociale suggeriti dalla dottrina sociale della chiesa, una delle questioni centrali che riguardava il rapporto tra cultura cattolica e il mondo fascista. Tra corporativismo di stampo cattolico e quello di stampo fascista Fanfani propendeva per quest’ultimo”.
Nel 1959 Fanfani verrà messo in minoranza dalla corrente dorotea che voleva “dar voce ai valori già presenti nella società, interpretarli e tradurli in una dimensione politica”. Pensate che questi soggetti avessero in mente i cittadini? A me vengono in mente le associazioni, le corporazioni, e la difesa doveva riguardare i loro interessi particolari contro l’interesse generale.

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