Da “Il macigno” di Carlo Cottarelli
L’austerità eccessiva fa male ma anche un debito eccessivo fa male.
C’è il rischio che diventi difficile rinnovare o emettere titoli di stato. Basta un colpo di vento e i mercati potrebbero non finanziarci.
Il debito è una zavorra rispetto alla crescita tendenziale dell’economia. Il debito toglie risorse al settore privato o le rende disponibili a tassi di interesse elevati che scoraggiano gli investimenti.
Il debito pubblico è il totale di quanto le amministrazioni pubbliche hanno preso a prestito in passato.
Il debito pubblico cresce in un anno se c’è deficit pubblico.
Il deficit pubblico si ha quando lo Stato spende più di quanto incassa.
La politica fiscale è quella che riguarda le spese pubbliche e le entrate tributarie.
Quando le entrate sono inferiori alle spese lo Stato e le altre pubbliche amministrazioni si devono indebitare.
Il debito pubblico è la somma di tutti i deficit passati.
il debito pubblico è pari al valore nominale di tutte le passività lorde consolidate delle amministrazioni pubbliche (amministrazioni centrali, enti locali e istituti previdenziali pubblici). Il debito è costituito da biglietti, monete e depositi, titoli diversi dalle azioni – esclusi gli strumenti finanziari derivati – e prestiti, secondo le definizioni del Sec 2010.
Si parla di passività lorde. Sarebbero nette se si togliessero i prestiti che lo Stato concede ad altri.
Il sec è il sistema statistico europeo in uso.
Il Pil rappresenta le risorse a cui lo stato può attingere attraverso la tassazione per pagare gli interessi e, in linea di principio, per ripagare il debito in scadenza.
Il debito italiano a fine 2014 era di 2136 miliardi di euro. Pari a circa 35000 euro a testa su 60,8 milioni di abitanti. Se lo stato decidesse di farvi ripagare il debito potrebbe chiedere a ogni italiano quella cifra.
Il debito pubblico è oltre il 130% del pil.
L’unificazione, l’aumento delle infrastrutture pubbliche, le spese di guerra portarono il debito dal 40% all’inizio del Regno d’Italia, al 130% a fine secolo. Con Minghetti iniziò la discesa, per arrivare al 77% prima della grande guerra. Questa fece esplodere il debito, che arrivò al 160% del pil nel 1920. Seguì un periodo di discesa e poi una nuova salita con la seconda guerra mondiale, fino al 100% del pil. L’inflazione lo erose e crollò sotto il 20% del pil. Fino a fine anni sessanta il debito restò tra il 25 e il 35% del pil. Dopo cresce in continuazione arrivando al 120% nel 1994. Quindi riprende a calare, fino all’incirca al 100% del pil. La crisi economica spinge il rapporto oltre il 130% e lì sostanzialmente resta.
In media negli altri paesi avanzati il rapporto debito pil a fine 2014 era del 75%. L’Italia era terza col 132% dopo Giappone (246%) e Grecia (177%). Il Giappone però ha molte attività finanziarie liquide su cui guadagna interessi che possono servire a pagare il proprio debito: al netto di queste il debito giapponese scende al 126% del pil, non troppo lontano dal debito netto italiano che è il 110% del pil).
Anche i paesi emergenti hanno debiti inferiori al 100% del pil anche se verso di loro la tolleranza del debito è più bassa che verso i paesi avanzati.
Composizione.
Il debito pubblico italiano è quasi tutto nazionale. Comuni, province e regioni hanno poco debito perché i vincoli imposti dal centro impediscono loro di indebitarsi.
Il debito pubblico è per l’85% costituito da titoli di Stato a varia scadenza. Ci sono titoli che scadono tra pochi mesi, altri che scadono tra qualche anno e così via. Più breve è la scadenza più elevata è la pressione che si può creare sui mercati se questi non vengono rinnovati. La vita media residua italiana è di sei anni e mezzo, in media con gli altri paesi avanzati (la Gran Bretagna è quella messa meglio, con 14,5 anni) ma poiché il debito è elevato l’ammontare di titoli che scadono e devono essere rinnovati anche nel breve periodo è comunque elevato. Nel 2014 lo stato ha emesso circa 455 miliardi di titoli (circa 38 miliardi di titoli al mese), la maggior parte per rifinanziare quelli a scadenza, il resto per finanziare il nuovo deficit. È il 28% del pil. È come se avessi un reddito di 10 000 euro e dovessi ottenere ogni mese nuovi finanziamenti per 2800 euro.
Chi presta allo stato
Se il debito è detenuto prevalentemente da investitori esteri il rischio di una crisi è più forte perché gli investitori esteri sono i primi a scappare se ci sono problemi. Un governo potrebbe essere inoltre tentato di non ripagare il debito perché gli investitori esteri non votano e perché le ripercussioni sull’economia nazionale sono minori perché chi perde sta fuori. Ovviamente poi sarebbe un problema andare a chiedere di nuovo soldi all’estero, però.
Il debito italiano è detenuto per circa due terzi dagli italiani. Chi sta bene è il Giappone: quasi tutto il debito è in mano ai giapponesi.
Debito e moneta.
Lo stato può battere moneta legalmente. Può finanziare il deficit chiedendo a prestito e pagando interessi o stampando moneta. Le banconote sono emesse dalla banca centrale, la quale (se non è di proprietà dello stato, come la banca d’italia, che non lo è) le presta allo stato in cambio di un interesse. Però i profitti della banca vengono girati comunque allo stato. Il debito verso la banca centrale quindi sostanzialmente non esiste: è come se lo stato si finanziasse emettendo direttamente banconote.
Perché lo stato non si finanzia direttamente stampando moneta? Perché troppa moneta in circolazione genera inflazione. La moneta non scade e quindi la gente non può chiedere di essere rimborsata ma può liberarsi della moneta che vale meno comprando beni o servizi e questo fa alzare i prezzi (a un certo punto i beni e servizi richiesti saranno più di quelli disponibili sul mercato). I casi di iperinflazione sono dovuti allo stato che stampa troppa moneta che diventa carta straccia.
Perché è cresciuto il debito pubblico?
Primo periodo. Anni sessanta. La spesa primaria accelera, soprattutto in sanità e pensioni. La scelta riflette l’invecchiamento della popolazione e l’ampliamento del sistema di welfare. Inoltre in Italia il governo cercava di allentare in questo modo le tensioni sociali. Le entrate però non aumentano allo stesso modo. Il deficit totale sale dal 2-4 per cento del pil a fine anni 60 fino al 10-11 per cento a metà anni 70 quando l’Italia deve ricorrere ai prestiti del FMI.
Il debito cresce ma la crescita è contenuta perché la banca d’Italia stampa moneta per finanziare il deficit. Questo crea inflazione, ma tiene bassi i tassi d’interesse reali ed erode il valore reale del debito pubblico.
Secondo periodo. Governo e banca d’Italia decidono il divorzio. La banca d’Italia riduce gli acquisti di titoli di stato. L’inflazione viene messa sotto controllo ma con meno titoli comprati dalla banca d’Italia i tassi d’interesse che lo stato deve pagare crescono. Aumenta la spesa per interessi. Non viene ridotta la spesa primaria. Il rapporto debito pil sale oltre il 100%. Il debito aveva iniziato a crescere anche negli anni 70, comunque. All’aumento di spesa primaria si è aggiunta quella per interessi, negli anni 80.
Terzo periodo. Dopo la crisi del ‘92 il deficit primario viene ridotto, soprattutto attraverso aumenti di tasse. I deficit e il rapporto debito pil scendono, anche sotto la spinta di rientrare nei parametri di Maastricht. Il deficit scende sotto il 3% e l’Italia raggiunge avanzi primari del 5% din media tra il 1996 e il 2000.
Quarto periodo (occasione perduta). L’Italia entra nell’euro, i tassi d’interesse calano, la spesa per interessi scende anche per la discesa del debito stesso. I governi italiani ne approfittano e ricominciano a spendere. Il debito scende non tanto rapidamente come se avessimo mantenuto gli avanzi primari degli anni precedenti il 2000. Se questo fosse successo il rapporto debito pil a inizio crisi del 2008 sarebbe potuto essere dell’80% anziché Del 100%.
Quinto periodo. la crisi mondiale del 2008-2009 colpisce l’Italia causando la caduta del Pil e delle entrate tributarie e un aumento del deficit. L’alto livello di debito ci impedisce di sostenere l’economia, attraverso aumenti di spesa o tagli delle tasse, tanto quanto fatto da altri paesi (come gli Stati Uniti e il Regno Unito). A partire dal 2010 si comincia anzi a ridurre la spesa perché i mercati sono preoccupati per la capacità dell’Italia di rimanere nell’area dell’euro e di rifinanziare il proprio debito. Nonostante il bilancio primario migliori un po’ per effetto di questa stretta fiscale, il debito ricomincia a crescere rapidamente rispetto al Pil, per l’aumento della spesa per interessi (il differenziale tra tassi italiani e tassi tedeschi – il famigerato spread – raggiunge i 550 punti base a fine 2011) e, soprattutto (ed è questa la novità), per la riduzione del Pil reale (cioè il Pil a prezzi invariati). Tra il 2007 e il 2014 il Pil reale cade del 9 per cento: il che, di per sé, causa un aumento del rapporto tra debito e Pil di circa 13 punti percentuali, una bella botta. Alla fine la tempesta si quieta, anche perché la stretta fiscale in Italia e negli altri paesi colpiti dalla crisi viene vista come un’adeguata contropartita all’intervento della Banca centrale europea che inonda il mercato di liquidità. I tassi d’interesse cominciano a scendere, il Pil si stabilizza e la crescita del debito italiano rispetto al Pil viene quasi interrotta. Quasi, perché la necessità di aiutare paesi come Grecia, Portogallo e Irlanda (che non riescono più a finanziarsi sul mercato) richiede all’Italia di aumentare il proprio debito per finanziarli. Non si tratta di cifre enormi (meno di 4 punti percentuali di Pil al 2014), ma senza questi aiuti la dinamica del debito pubblico italiano sarebbe stata un po’ più favorevole.
Analisi del debito per macroregioni
Tra il 1963 e il 2009, il Sud ha avuto deficit primari (spesa delle pubbliche amministrazioni meno tasse pagate da quella macroregione) del 20-35 per cento del Pil del Meridione fino al 1994 e del 15-20 per cento nel periodo seguente. Il Nord, invece, ha avuto dei surplus primari, superiori al 3 per cento del Pil (con punte comprese tra il 6 e l’8 per cento) nella maggior parte degli anni, registrando deficit primari solo in quattro su quarantacinque anni (il Centro ha una posizione intermedia tra Nord e Sud, non solo geograficamente).
Comunque il debito essenzialmente dello stato centrale, che deriva da politiche dello stato centrale, anche se esse hanno avuto effetti diversi geograficamente. Per esempio, visto che il reddito del Nord è più elevato di quello del Sud, è chiaro che il Nord paga più tasse (a maggior ragione in un sistema a tassazione progressiva, quando cioè si pagano aliquote più alte al crescere del reddito). Quanto alla spesa, una parte del maggior esborso al Sud riflette politiche redistributive dello stato a favore dei meno abbienti (che sono più concentrati nel Meridione). Quanto al resto, non c’è dubbio che il Sud sia più inefficiente del Nord (come documentato nel mio libro La lista della spesa). Ma le risorse per finanziare questa spesa venivano comunque dallo stato centrale che, in qualche modo, validava tali inefficienze. Operazioni di riallocazione del debito non sono compatibili con il mantenimento di uno stato unitario. Riallocazioni di questo tipo sono avvenute nella storia di alcuni paesi, ma sono sempre state accompagnate da una spaccatura della nazione (come la jugoslavia o il sudan)
Quando il debito causa una crisi?
Basta poco a scatenare la tempesta. I debiti raggiungono livelli alti perché i governi cercano di salvare le banche che hanno concesso troppi prestiti a gente che non poteva restituirli un po’ perché li rivendeva e un po’ perché i tassi erano molto bassi e scoppia la crisi del 2008.
Uno stato indebitato deve tornare sul mercato ogni mese per chiedere nuovi prestiti per colmare lo squilibrio tra entrate e uscite e per ripagare i titoli che scadono e devono essere rinnovati (il fabbisogno per l’Italia nel 2014 era di 38 miliardi di euro al mese). Se i creditori pensano di essere ripagati rinnoveranno il loro investimento. Se pensano che i rischi di non essere ripagati aumentino chiederanno tassi di interesse più alti (il premio al rischio di insolvenza). Tassi più alti rendono più difficile ripagare il debito che diventa anche più alto per effetto degli interessi e questo può aumentare il rischio.
Cosa può far pensare agli investitori che lo stato sarà in grado di ripagare il debito? Che abbia delle risorse sufficienti e delle prospettive buone che facciano pensare che interessi e debito saranno ripagati all’occorrenza. Quindi occorre un surplus primario ampio a sufficienza da tenere buoni i creditori. Se c’è un deficit primario occorre rivolgersi ai mercati per pagare gli interessi, per rinnovare il debito e per pagare lo squilibrio tra entrate e uscite primarie. Questo può andare avanti finché i creditori si convincono che lo stato non avrà un flusso di risorse tali da poter pagare ciò che deve.
È un po’ uno schema Ponzi.
Però i creditori possono accettare questa situazione. Se lo stato ha entrate per 700 miliardi, spese primarie per 720 miliardi, spese per interessi per 70 miliardi, ha un deficit primario di 20 miliardi e un deficit totale di 90 miliardi da finanziare sul mercato. Questa era la situazione dell’Italia nel 2009, ma la crisi scoppiò due anni dopo. I mercati possono infatti ritenere la situazione sostenibile perché ritengono che lo stato cambi le proprie entrate e le proprie spese in futuro. Possono ritenere cioè che lo squilibrio sia temporaneo e i conti miglioreranno in futuro. Ecco che possono dare fiducia agli annunci dei governi, sempre che i governi non abbiano sistematicamente mentito.
Quanto deve essere alto e quanto deve essere mantenuto nel tempo l’avanzo primario? Questo si ottiene tagliando le spese e aumentando le tasse. Arrivati oltre un certo punto c’è il rischio di perdere le elezioni e i mercati questo lo sanno. Più è alto poi il livello del debito più alti sono gli interessi e più alto dovrà essere il surplus primario. Oltre un certo punto i creditori potrebbero pensare che lo stato non voglia o non riesca più a garantire l’avanzo primario. Quindi tanto più alto è il rapporto debito pil tanto più alto è il rischio di una crisi di fiducia verso lo stato e di una crisi sul mercato.
Il surplus primario necessario a mantenere sostenibile per gli investitori il debito dipende anche dal tasso di crescita dell’economia e dal tasso di interesse sul debito.
Se l’economia cresce rapidamente il debito può aumentare perché il peso del debito sarà eroso dalla crescita del pil. La crescita sostituisce l’avanzo primario. Se si cresce rapidamente è anche più facile mantenere un avanzo primario.
Più alto è il tasso di interesse da pagare più il debito sarà onerato dagli interessi e debiti più gravati di interessi richiederanno surplus primari maggiori per essere giudicati sostenibili. Quindi i paesi che hanno sempre interessi più alti avranno i loro debiti meno ritenuti sostenibili. Il tasso di interesse in effetti non dipende solo dal livello del debito ma anche da altri elementi. Sarà più alto se la maggioranza degli investitori è straniera perché la tentazione di non pagare sarà maggiore. Il rischio quindi è più alto. Inoltre se la scadenza media del debito è bassa (ogni mese lo stato deve sottoporsi al giudizio dei mercati) l’esercizio di equilibrismo è più complicato e il rischio è più alto.
Il debito privato? Il rischio è che i settori indebitati richiedano l’intervento dello stato per salvarli, più che altro, come è successo per le banche. Il rischio è maggiore se le banche hanno in pancia molti titoli di stato. In caso di risparmio privato elevato può essere meno rischioso il debito se gli investitori ritengono alta la probabilità di una patrimoniale per ripagarli, ma empiricamente la relazione tra debito o risparmio privato e rischio del debito pubblico non è stata dimostrata.
Il debito verso la banca centrale? Questo è come se non esistesse, sostanzialmente. Quanto più alto è sul totale tanto più sostenibile è il debito perché questa parte di debito non mette pressione sui tassi di interesse. Molto del debito pubblico di Giappone, Usa e Regno Unito è detenuto dalle banche centrali e questo ne facilita il finanziamento. La banca centrale europea ha acquistato molti titoli di debito.
Ricordiamo però che avere troppo debito finanziato dalla banca centrale espone al rischio di inflazione.
Esistono dei criteri empirici di rischiosità del debito. Secondo il fmi per i paesi emergenti la quota a rischio è 70%, per i paesi avanzati è l’85% in media e con tutte le approssimazioni del caso.
Anche se i tassi sono oggi bassi occorre preoccuparci del livello del debito perché finché le dimensioni sono quelle di oggi del debito italiano restiamo esposti a shock che possono colpire l’economia e restiamo esposti alla reazione eccessiva dei mercati finanziari, oltre al fatto che un debito più basso e interessi più bassi lascerebbero più spazio fiscale per fare politiche pro crescita o anche pro welfare state.
Una crisi finanziaria come quella del 2011, dovuta al rischio che l’Italia uscisse dall’euro (che comportava il rischio di avere il debito denominato in nuove lire), ha reso difficile avere prestiti da parte dello stato, delle banche, delle imprese e delle famiglie. Dal 2011 al 2013 il pil reale è sceso di più di 4 punti. Da una crisi del mercato dei titoli può derivare poi una crisi bancaria e da questa un credit crunch e lo stop dell’economia con conseguenze pesanti in termini di utili, innovazione, disoccupazione.
La rete di protezione della banca centrale? Non può durare per sempre. Inoltre il processo di risanamento potrebbe essere una condizione per ottenere gli aiuti.
Ricerche empiriche mostrano che se il rapporto tra debito e pil si riduce di tre punti percentuali l’anno la probabilità di una crisi scende di quasi il 30 per cento a parità di livello di debito rispetto al caso in cui il debito sia costante rispetto al pil. In sostanza se i mercati credono che sia stato avviato un processo di riaggiustamento credibile saranno tranquilli. Se il debito è alto e pure crescente invece sono guai.
È importante avviare la riduzione del debito pubblico. Ne beneficeremo anche prima che sia arrivato all’80% del pil.
Un alto debito pubblico può scatenare una crisi finanziaria ed economica tale per cui il pil scenda molto al di sotto di quel che il paese potrebbe produrre, se ci sono forti dubbi sulla capacità dello stato di ripagare i propri debiti.
Anche senza crisi finanziarie il debito può avere effetti sulla crescita.
Primo. Riduce lo spazio che lo stato ha per sostenere la domanda di beni e servizi e quindi la produzione attraverso aumenti di spesa pubblica o tagli di tasse in caso di recessione.
Secondo. Ridurre le potenzialità di crescita dell’economia.
Pil
Supponiamo che l’economia italiana sia una fabbrica di auto e che in condizioni normali possa produrre mille automobili l’anno. Questa è la capacità produttiva, il pil potenziale.
La fabbrica produrrà mille auto se pensa di venderne mille (assumendo che non ci siano scorte da smaltire o da aumentare). Nel breve periodo, cioè “senza aumentare la capacità produttiva”, la quantità prodotta dipende dalla domanda di macchine. In aggregato, nel breve periodo, il pil del paese dipende dalla domanda complessiva di beni e servizi purché sia più bassa del pil potenziale dell’economia.
Quando la fabbrica raggiunge la produzione di mille un aumento ulteriore della domanda non potrà portare a un aumento di produzione (a meno che non sia strutturale e in quel caso occorre potenziare gli impianti o costruirne di nuovi o aumentare la produttività dell’impianto attraverso cambi tecnologici): per evitare che gli impianti si surriscaldino l’impresa alzerà i prezzi.
Anche per l’economia ne suo complesso nel lungo periodo (“a piena capacità produttiva”) il pil dipende dal pil potenziale e la sua crescita è determinata da quanto cresce la capacità di produrre, da quanto la fabbrica Italia riesce ad aumentare il pil potenziale.
Come è influenzato il pil dal deficit e dal debito pubblico nel breve periodo?
Un aumento delle tasse o un taglio di spesa causeranno un calo della domanda, a parità di altre condizioni, perché la gente ha meno soldi in tasca. Quindi nel breve periodo un minor deficit genera minore crescita e minore pil di solito. Un aumento del deficit pubblico ha un effetto espansivo sulla domanda e sul pil a meno che l’economia non stai già producendo il massimo che possa produrre (nel qual caso aumentano solo i prezzi). Nel breve periodo quindi una stretta fiscale fa male alla domanda aggregata (per quanto in certe condizioni questo non sia vero). In ogni caso l’austerità è necessaria quando l’economia si sta surriscaldando e quando serve a evitare una crisi finanziaria.
E il debito? Se è elevato può essere un freno per la crescita anche nel breve periodo. Pe rlo stato sarà più difficile aumentare il deficit (mettere più soldi in tasca alle famiglie attraverso tagli di tasse e aumenti di spesa per sostener l’economia) perché un deficit elevato accelera l’accumulazione del debito e il rischio di sfiducia che può generare crisi finanziarie. Le politiche keynesiane sono difficili da fare se si ha un debito elevato. Durante la crisi del 2008 l’Italia non ha potuto fare politiche espansive e altri paesi sì.
Ridurre il debito quindi serve a creare spazio fiscale.
Il debito pubblico può influire anche sul pil potenziale. Il peso del debito può far morire il paese di morte lenta. Il potenziale dipende dall’occupazione e dagli impianti, nel caso della fabbrica, e quindi dagli investimenti che è disposta a fare.
Ora. Un debito elevato puà frenare gli investimenti perché richiede un avanzo primario più elevato. Quindi un debito alto significano tasse maggiori (oggi o in futuro) e questo penalizza l’attività economica spingendo gli investitori a non investire o a investire all’estero, come dsciveva Ricardo . Il debito dovrà essere ripagato e per farlo si alzeranno le tasse.
Inoltre un debito pubblico elevato alzerà i tassi di interesse (che incorporano il rischio paese). Questo renderà più costoso per le imprese prendere a prestito. Ciò sarà anche più difficile per l’effetto spiazzamento, il crowding out. Una quota maggiore di risparmi disponibili all’economia sarà assorbita dal debito pubblico . I tassi di interesse saranno, a parità di altre condizioni, più alti, gli investimenti in nuovi impianti per aumentare la produzione saranno più bassi. Troppo debito pubblico spinge fuori dal portafoglio dei risparmiatori o delle banche il debito privato (quello che serve a finanziare gli investimenti privati e lo stock di capitale). Lo stato assorbe dunque risorse che potrebbero essere usate per investimenti privati e per far crescere l’economia.
Paesi con debito alto come l’Italia e il Giappone nei venti anni precedenti la cirsi del 2008 avevano il più basso tasso di crescita tra i paesi avanzati.
Ma se fosse la bassa crescita ad alzare il debito anziché l’alto debito ad abbassare la crescita? Le ricerche empiriche hanno concluso che un debito elevato comporta tassi di interesse più alti e investimenti privati più bassi, quindi una crescita potenziale ridotta. Un po’ di debito pubblico serve a finanziare utili infrastrutture e alza la crescita potenziale di un paese. Oltre una certa soglia (per alcuni 40 50%, per altri 70 80% del pil) causa una riduzione della crescita potenziale. Un paese con un debito del 120% del pil tenderà ad avere una crescita potenziale più bassa dell’1% l’anno rispetto a un paese con un debito del 60% del pil. In venti anni si sarà creato un differenziale del livello del pil pari al 22%.
Alcuni studi hanno mostrato che conta non solo il livello del pil ma anche se il rapporto stia scendendo o salendo. Uno studio non ha trovato una soglia speciale ma ha stabilito che la relazione tra debito e crescita sparisce se il debito scende. Gli effetti negativi del livello del debito sono attenuati se questo scende.
debito sia un problema.
Non si deve pretendere né il bilancio sempre in pareggio né l’azzeramento del debito pubblico. Si parla di rapporto tra debito nominale e pil quindi è importante ridurre questo rapporto in modo da farlo arrivare a un 50% o anche al 100% purché ci sia la riduzione attesa.
Bisogna anche considerare i costi della riduzione: alzare le tasse ha effetti negativi sull’economia e quindi anche sul denominatore del rapporto. La cura potrebbe essere peggiore del male.
Quindi che fare?
Uscire dall’euro? Ristrutturare il debito come è stato fatto in Grecia? Mutualizzare il debito con gli altri paesi europei? Fare un po’ di austerità moderata tenendo conto dei cicli economici? Rilanciare la crescita per far salire il denominatore?
Basta euro?
I paesi con la propria moneta si finanziavano a tassi bassi nel 2011
Torniamo alla lira, potremo ridurre il debito perché stare nell’euro ci obbliga a prendere a prestito a tassi insostenibili e non ci fa crescere.
L’assenza di una moneta indipendente impedisce di rassicurare gli investitori che il debito sarà ripagato?
L’appartenenza all’area euro ci impedisce di essere competitivi e crescere?
Stare nell’area euro richiede il rispetto di regole di bilancio troppo restrittive?
Si creano situazioni di equilibrio multiplo e aspettative che si autorealizzano. Se i mercati temono che il debito non sia sostenibile si spaventano, i tassi schizzano, il debito diventa insostenibile. Se la banca centrale può emettere moneta i mercati sanno che il debito sarà comunque pagato, al limite emettendo moneta.
Nel 2012 con livelli di debito simili l’Inghilterra stampava e la Spagna no e i tassi di interesse a lungo termine pagati dalla Spagna erano superiori.
Il problema è che la stampa di moneta può diventare inflazione. Risolvere il problema dei debiti con l’inflazione è un classico. Il governo stampa moneta e con questa rimborsa i debiti o paga le spese. Questo è il potere di signoraggio. Se lo stato stampa tanta moneta quanta richiesta dall’economia non c’è inflazione e il signoraggio è il prezzo del servizio lo stato fornisce per l’emissione di banconote. Ma il signoraggio in assenza di inflazione non rende molto nelle economie avanzate dove le banconote non sono comuni. Quando lo stato stampa più moneta di quanto necessario si crea inflazione e l’inflazione erode il valore reale dei titoli di stato emessi a tassi fissi. Se presto allo stato 100 euro e fra un anno lo stato mi restituisce 100 euro ma nel frattempo i prezzi sono aumentati e io con 100 euro ci compro meno cose, io ci perdo e lo stato ci guadagna. Ed evita nuove tasse o tagli di spesa.
La principale causa di inflazione a due o tre cifre è proprio il finanziamento del deficit pubblico da parte della banca centrale.
Il signoraggio e l’inflazione possono funzionare a ridurre il valore del debito ma sono una tassa. Se il valore dei titoli viene eroso chi ha comprato titoli subisce una perdita e chi ha comprato i titoli sono dei cittadini italiani, per i due terzi. Inoltre prezzi e salari non sono perfettamente indicizzati e quindi quando l’inflazione è alta le perdite e i guadagni possono essere elevati. L’inflazione attesa inoltre farà sì che gli investitori richiederanno tassi più alti sui nuovi titoli. L’inflazione può aiutare se è improvvisa e uno studio ha mostrato che potrebbe essere del 25%. Per due anni.
Con inflazione elevata e crescente però i mercati chiederanno un premio sui tassi per ssere coperti per le aspettative di inflazione e per l’incertezza sull’inflazione futura, per cui aumentano i tassi nominali e quelli reali. Per gli investitori scende il rischio di non essere pagati ma cresce quello di essere pagati con moneta svalutata.
La Turchia pagava interessi al 100%.
Il quantitative easing ha funzionato perché le banche si sono tenute per sé la moneta e non l’hanno distribuita quindi il circolante non è aumentato. La moneta in circolazione era quella richiesta dall’economia. Non c’è stata inflazione. Occorrerebbe tenere d’occhio anche i prezzi delle attività finanziarie e i prezzi delle azioni sono saliti. Se le banche centrali vorranno tornare in condizioni normali quando la domanda di moneta tornerà normale le banche centrali dovranno riassorbire la moneta emessa vendendo i titoli che hanno acquistato ma per essere venduti i conti pubblici dovranno essere raddrizzati.
Con una nuova lira lo stato dovrebbe emettere titoli a tassi di interesse più alti come avveniva nei decenni prima dell’ingresso nell’euro, che ha invece permesso di avere tass più bassi. Il premio al rischio sarebbe più alto senza la garanzia europea e senza le garanzie di solidità. Ci sarebbe il premio per il rischio svalutazione, per la scarsa credibilità dei governi ecc.
Nel 2011 l’euro non ha protetto? Ma il rischio era che l’Italia uscisse.
L’italia fuori dall’euro tornerebbe a crescere perché si avvantaggerebbero le esportazioni e l’indotto e i posti di lavoro e nuove attività legate all’export?
L’Italia è cresciuta poco dopo il 2000. Prima cresceva poco perché la popolazione cresceva meno e la crescita del reddito procapite era uguale a quella dei paesi euro. Ma la produttività era già calante. Dopo il 2001 il reddito procapite scende ma negli altri paesi. Dal 2001 il reddito procapite in termini di potere di acquisto è diminuito di oltre il 20 per cento rispetto alla media dell’area euro (eh ma gli altri quindi son cresciuti).
Ci sono stati: l’aumento del prezzo del petrolio, la crescita della Cina, la globalizzazione che ha colpito un paese che esportava soprattutto prodotti trazionali in concorrenza con quelli cinesi.
Si parla di aree valutarie ottimali. I paesi membri avrebbero cicli sincronizzati e quindi possono aggiustarsi tutti nello stesso modo. Aree con cicli non simili non potranno fare una politica monetaria o fiscale che valga bene per tutti. Si potrebbe risolvere se i disoccupati si potessero per esmpio spostare facilmente da aree in recessione ad aree in espansione ma la mobilità del lavoro è bassa in europa e quindi l’area euro non sarebbe ottimale. Ma lo sarebbe un paese come l’Italia? Quel che rileva però è la crescita di lungo periodo non la politica monetaria ottimale.
L’euro è una valuta forte che segue le tendenze della produttività tedesca? La competitività dipende da quanto cresce la produttività e da quanto aumentano i salari, oltre che da altre cose. Se un’operaio italiano produce dieci matite in un’ora e un operaio tedesco venti, l’impresa italiana può essere competitiva se paga i suoi operai la metà di quella tedesca. Il costo di lavoro per unità di prodotto sarebbe lo stesso. La differenza di salario è giustificata dalla minore produttività. Il problema sorge quando i salari nominali, in termini di euro, si muovono per conto proprio e non tengono conto della produttività. Il clup in italia è aumentato più che in germania e francia perché le retribuzioni crescevano più dela produttività. Per recuperare bisognerebbe anche eliminare il gap accumulato a partire dal 2000 (14 15%). La perdita di competitività rispetto alla media euro non è però enorme. La Spagna è risucita a recuperarla. Occorre cercare di riacquisire competitività nel costo del lavoro nei settori tradizionali e diventare più bravi a fare nuove cose. La detassazione del lavoro e delle imprese può aiutare a recuperare margini di competitività se finanziata da tagli di spesa in modo da essere credibile per un paese ad alto debito. Il crollo delle materie prima ci avvantaggia perché dipendiamo più degli altri dalle materie prime. Anche in futuro la crescita dei redditi nominali dovrà essere coerente con la crescita della produttività. Sarà più facile se riusciremo a far crescere la produttività, se renderemo più efficiente e produttival a nostra economia.
L’uscita dall’euro potrebbe far recuperare competitività solo se i salari non aumentano quando la nuova lira si svaluta. Il recupero di competitività significa che i margini di profitto in caso di uscita dall’euro aumenterebbero rispetto ai salari reali. Si avrebbe una riduzione dei salari reali, al netto di svalutazione e inflazione cioè, che servirebbe ad annullare l’aumento rispetto alla produttività manifestatosi dopo l’entrata nell’euro.
Uscire dall’euro? Sì, altri paesi hanno cambiato moneta tranquillamente ma l’Italia è grossino e opera in un’area particolarmente rilevante. Entrarci è stato sbagliato? Path dependence, i tuoi percorsi finora sono basati sulle tue scelte passate e ti muovi da dove sei adesso, non da dove eri prima.
Se il debito poi è nominato in nuove lire ci sarebbe inflazione.
Se il debito è rinominato in euro ci sono da pagare tanti interessi.
Ripudiare il debito?
Si può e a volte è necessario. Anche il fmi lo propone, a volte. È stato fatto anche da diversi paesi. Tagliando gli interessi, lasciando agire l’inflazione, facendo haircut.
Dare un taglio secco al problema anche per evitare agonie più lunghe è fattibile.
Sono falliti 370 paesi in un secolo. Di solito paesi emergenti con debito posseduto da stranieri.
C’è un effetto reputazione: vai a chiedere di nuovo debito. Però non è così rilevante. Dopo un po’ i mercati tornano a darti credito.
Il debito tagliato vuol dire che i creditori sono lasciati a bocca asciutta e tra i creditori ci sono italiani. Quindi è come una tassa che va a colpire alcuni. Forse sarebbe più equa una patrimoniale, allora, per quanto enorme.
Effetti recessivi come quelli legati ad aumenti delle tasse si verificherebbero.
Non è meglio un percorso di riduzione basato su austerità moderata?
Ristrutturare il debito vuol dire meno austerità? Ci sono costi di reputazione, vieni a chiedermi un prestito di nuovo se hai coraggio (panizza borensztein: il ripudio dura poco).
Una ristrutturazione del debito implica una stretta fiscale: è una tassa sui titoli di stato, sui creditori, che hanno meno soldi attesi (inizialmente la loro liquidità non cambia) e anche meno fiducia e spenderanno meno e investiranno meno e sono colpiti. Lo stato inoltre non rimborsando e non pagando interessi fa calare il flusso di denaro ai soggetti che lo ricevevano in cambio di titoli. Tra i creditori ci sono le banche ma dietro le banche ci sono risparmiatori e depositanti. Se le banche vanno in crisi perché i titoli che hanno non valgono niente o ricapitalizzano o devono restringere i prestiti o vanno in perdita e devono essere salvate dallo stato e nuovo debito si forma. Inoltre l’impatto di una ristrutturazione del debito italiano sui mercati finanziari sarebbe rilevante. Si rischiano crisi finanziaria e crisi bancaria.
Ma non è meglio cavare il dente subito? Bisogna vedere se un ripudio è percepito come intervento una tantum.
Postilla: può essere conveniente ripudiare il debito rispetto al costo dell’aggiustamento fiscale e anche i mercati la possono imporre. Se un paese non è in grado di prendere a prestito sui mercati e non ha sostegno internazionale è obbligato a non pagare i creditori altrimenti dovrebbe in un colpo solo pareggiare il bilancio e avere un surplus pari al debito che scade ma l’Italia non è in questa situazione e può uscire dalla crisi senza ristrutturare il debito.
Un’uscita dall’euro creerebbe anche immediati problemi per la gestione del debito pubblico. Il debito è denominato quasi tutto in euro. Se uscissimo, cosa succederebbe a questo debito? Ci sarebbero due possibilità. La prima è convertire per legge il debito in “nuove lire” a un tasso di cambio arbitrario. Ci penserebbe poi l’inflazione che inevitabilmente seguirebbe all’uscita dall’euro a erodere il valore del debito in termini reali. Ne abbiamo già parlato. La seconda possibilità è di mantenere il debito in euro. In questo caso, la svalutazione del tasso di cambio (che seguirebbe pure l’uscita dall’euro, anzi ne sarebbe la sua motivazione principale secondo i sostenitori dell’uscita) comporterebbe che il debito dovrebbe essere ripagato in valuta pesante. Il peso del debito aumenterebbe, quindi, rendendo probabilmente inevitabile un ripudio del debito stesso, almeno in parte. In entrambi i casi (conversione in nuove lire o ripudio esplicito), ci sarebbe un cambiamento dei termini del contratto sui titoli di stato, un default sul debito pubblico italiano.
Una politica fiscale restrittiva è utile a ridurre il peso del debito? Chi sostiene che “l’austerità non serve, anzi è controproducente” lo fa sulla base del fatto che quando si stringe la politica fiscale (per esempio tagliando la spesa o aumentando le tasse; consentitemi di usare ancora questi termini vaghi; li abbiamo chiariti nella sezione precedente) il Pil, di solito, si riduce (rispetto a quello che sarebbe se non si stringesse la politica fiscale). Ma se il Pil si riduce, lo stato incassa meno tasse, il che attenua l’effetto sul deficit della stretta fiscale iniziale. Inoltre, dato che quello che ci interessa è come si muove il rapporto tra debito e Pil, se si riduce il Pil non è possibile che il rapporto tra debito e Pil aumenti quando si stringe la politica fiscale? Chiariamo con un esempio. Prendiamo un paese che ha un debito pubblico di 1300 euro, un Pil di 1000 euro (il rapporto tra i due è quindi del 130 per cento, vicino a quello italiano) e, per semplicità di calcolo, un bilancio in pareggio e un Pil costante. Se non succede niente, il rapporto tra debito e Pil resta al 130 per cento, visto che il debito non cresce perché il bilancio è in pareggio e il Pil è costante per ipotesi. Supponiamo di tagliare la spesa permanentemente di 20 euro e che questo riduca il Pil di un pari ammontare (in questo caso, quello che gli economisti chiamano il moltiplicatore fiscale – cioè il rapporto tra variazione della spesa e conseguente variazione del Pil – è di 1, in linea con molte stime empiriche). Ipotizziamo ora che l’aliquota media di tassazione del Pil sia del 40 per cento (un po’ più bassa di quella italiana, ma arrotondiamo per semplicità). In questo caso, quando il Pil scende, le tasse calano di 8 euro (20 per 0,4). Il deficit quindi si riduce di 12 euro (20 di minori spese, meno 8 di minori entrate), ossia si passa da un deficit di zero a un surplus di 12 euro. Il miglioramento è quindi inferiore alla stretta fiscale iniziale, ma comunque si va nella direzione giusta.
Cosa succede, però, al rapporto tra debito e Pil? Visto il surplus di bilancio, il debito si ridurrà di 12 euro, scendendo a 1288 euro. Ma, rispetto al Pil, il debito aumenta a 131,4 per cento (1288 diviso per 980), più alto di prima. L’austerità è quindi controproducente? Vediamo che succede l’anno dopo: il surplus resta a 12 euro e quindi il debito si riduce ulteriormente di 12 euro (a 1276 euro). Visto che non si stringe ulteriormente la politica fiscale, il Pil resta costante a 980 euro (ricordiamo che, nel breve periodo, la crescita del Pil dipende dalla variazione del deficit pubblico, non dal suo livello). Il rapporto tra debito e Pil scende quindi al 130,2 per cento (1276 diviso 980). L’anno dopo, per lo stesso meccanismo, scenderà al 129,0 per cento e continuerà a scendere negli anni seguenti.
Inoltre nel tempo l’effetto della stretta fiscale sul Pil si attenua perché la domanda privata rimpiazza quella pubblica, a causa del minor assorbimento di credito da parte del settore pubblico, il che contribuisce a un’ulteriore riduzione del debito rispetto al Pil. L’austerità funziona. Tranne che in casi speciali. Le cose possono andare storto in due casi. Il primo è quello in cui i mercati finanziari si focalizzino troppo sugli andamenti di breve periodo e prendano male l’iniziale discesa del Pil e il conseguente aumento iniziale del rapporto tra debito e Pil. Se, in risposta a queste brutte (anche se temporanee) notizie, i tassi d’interesse sul debito cominciano a salire, allora il deficit stesso può ricominciare a crescere e si può cadere in una spirale da cui è difficile uscire. Ho illustrato questo caso in un lavoro scritto nel 2012 in cui si sosteneva che, empiricamente, ciò può accadere più facilmente quando la stretta fiscale iniziale è particolarmente forte, il Pil è in caduta rapida e i mercati sono particolarmente nervosi.
Non dovrebbe però essere un problema in condizioni più normali. L’altro caso è quello in cui la caduta iniziale del Pil abbia effetti duraturi sulla crescita stessa del Pil, per esempio perché gli investimenti cadono in modo permanente. Ma occorre un effetto duraturo sul tasso di crescita del Pil, non soltanto sul suo livello,
La legge di stabilità per il 2016 prevede un obiettivo di deficit del 2,4 per cento del Pil per il complesso delle pubbliche amministrazioni. Nel piano di medio termine del governo, il pareggio di bilancio verrà raggiunto nel 2019, fra tre anni. Quanta restrizione fiscale serve per raggiungere questo pareggio di bilancio? Si potrebbe pensare che servano misure fiscali pari al 2,4 per cento del Pil. In realtà basta molto meno, circa lo 0,8 per cento del Pil. Vediamo perché. Nei prossimi anni l’economia italiana dovrebbe continuare a crescere e questo farà aumentare le entrate dello stato anche senza alzare le aliquote di tassazione (o ampliare la base imponibile). Perché il bilancio pubblico possa beneficiare di quest’aumento delle entrate, è però necessario che le spese crescano meno del Pil effettivo. Le spese dovrebbero invece crescere in linea con il Pil potenziale (cioè in linea con le dimensioni normali dell’economia italiana). Abbiamo visto che questa è una politica fiscale neutrale, che non comporta quindi una restrizione economica che frena l’economia rispetto alla sua crescita potenziale. In un periodo di ripresa economica la crescita effettiva dovrebbe essere un po’ più alta di quella potenziale. Nei piani del governo la crescita annua media del Pil reale (cioè al netto dell’inflazione) nel periodo 2017-2019 è dell’1,5 per cento, quella potenziale è stimata a circa lo 0,5 per cento.4 La velocità “normale” delle spese dovrebbe quindi essere dello 0,5 per cento annuo al netto dell’inflazione (e del 2,2- 2,3 per cento annuo in termini di euro, cioè inclusa l’inflazione). Se si facesse questo – non cambiare le aliquote di tassazione e aumentare le spese in linea con la crescita potenziale dell’economia, quindi senza una vera restrizione fiscale – il deficit scenderebbe comunque nei prossimi tre anni dal 2,4 allo 0,9 per cento del Pil.5 Dunque, il rimbalzo ciclico dell’economia italiana migliorerà il bilancio pubblico, sempre che non aumentiamo la spesa troppo rapidamente. Ricapitoliamo: se nel periodo 2017-2019 non aumentiamo le tasse (o, più precisamente, le aliquote di tassazione e la base imponibile) e se facciamo crescere la spesa in termini reali dello 0,5 per cento per anno, in linea cioè con la crescita potenziale del Pil prevista per quel periodo, non imprimiamo nessuna spinta recessiva all’economia, e il deficit scenderà allo 0,8 per cento del Pil nel 2019. È questa la parte “strutturale” del deficit, quella che non va via a meno che non si prendano misure di austerità (in aggiunta al contenimento delle spese in linea con il Pil potenziale che però non è vera austerità). Tra il 2016 e il 2019, però, la spesa per interessi si dovrebbe ridurre dello 0,1 per cento del Pil (via via che giungono a scadenza titoli emessi in passato a tassi più alti di quelli attuali), per cui le misure richieste sono pari allo 0,8 per cento del Pil (0,9 meno 0,1). Misure pari allo 0,8 per cento del Pil non sembrano certo impossibili da accumulare nell’arco di tre anni. Si tratta di una manovra di un po’ meno dello 0,3 per cento del Pil ogni anno, ossia un po’ meno di 5 miliardi annui, il cui effetto si cumulerebbe a 14 miliardi dopo tre anni.
Tagliare la spesa o aumentare le tasse? Se si tagliasse la spesa per uno 0.8% del pil in tre anni, considerando l’inflazione, la spesa reale resterebbe la stessa tra il 2016 e il 2019, quindi non sarebbero richiesti tagli in termini di potere d’acquisto. La popolazione è stabile, la spesa e i servizi sarebbero immutati. Poi la spesa potrebbe tornare a crescere.
Non tutti i tagli o aumenti hanno gli stessi effetti sul pil. Tagliare le pensioni d’oro porterebbe i pensionati a ridurre un po’ gli acquisti ma anche un po’ i risparmi. Tagliare gli acquisti della pa avrebbe un impatto diretti e di ammontare intero sulla domanda e sulla produzione.
Si sa ancora poco sull’effeto dei diversi strumenti fiscali sul pil.
Sulla crescita di medio periodo bisognerebbe ridurre le spese in particolare in quei paesi dove la spesa e la tassazione sono già elevate e dove è inefficiente la pubblica amministrazione. Come in Italia.
Occorre anche una distribuzione equa dell’aggiustamento fiscale: lotta all’evasione.
Se il bilancio è in pareggio non sono più necessarie misure di restrizione e quindi effetti sulla crescita di breve periodo. Se c’è uno shock però può essere opportuno fare deficit. Nei periodi (della durata di qualche mese) di recessione non è necessario pareggiare il bilancio. Questo sarà compensato quando la crescita sarà più rapida, con un surplus. Il bilancio in pareggio deve essere inteso in media, durante un ciclo economico.
Mantenendo il bilancio in pareggio il debito scenderebbe e questo porterebbe a una crescita del pil potenziale. Però ridurre il debito è come dimagrire: richiede sforzi che potrebbero far male alla crescita potenziale alzando le tasse o abbassando la spesa. In fin dei conti un’impresa troppo tassata o che riceve servizi pubblici di scarso livello potrebbe andarsene. Paesi con un debito non troppo alto, quindi non a rischio elevato di crisi finanziarie, potrebbero preferire un debito più elevato per evitare i costi di aggiustamento.
In Italia però ridurre il debito è giusto per evitare rischi di crisi finanziarie, per aiutare la crescita potenziale attraverso i bassi tassi di interesse reali e investimenti facilitati, per eliminare sprechi.
Mantenere nel tempo un due per cento del pil di risparmi in più degli altri, quando possiamo attingere a una spesa pari al 45% del pil, non sembra molto penalizzante, soprattutto se tagliamo la spesa meno produttiva.
Inoltre il nostro debito pensionistico è tra i più bassi dei paesi avanzati. Quindi la nostra spesa pensionistica rispetto al pil si ridurrà (con la legge fornero) mentre aumenterà negli altri paesi.
Se poi la riduzione del debito comporterà una maggiore credibilità e una discesa dei tassi reali il surplus primario potrà diminuire ancora più rapidamente.
In un contesto di riforme il pil nominale potrebbe crescere del 3% (un punto e mezzo di inflazione e un punto e mezzo di crescita reale). Tra il 2001 e il 2007 è cresciuto del 3,8%, ma con un po’ troppa inflazione. È rimasto fermo negli ultimi anni.
Il debito potrebbe allora calare all’89% nel 2029 e al 66% nel 2039.
Patrimoniale?
La ricchezza delle famiglie italiane ammontava a fine 2008 a 9000 miliardi di lire, di cui più della metà erano titoli di debito. La metà più povera delle famiglie deteneva solo il 10% del patrimonio, mentre il 10% più ricco deteneva il 44%). Una tassa del 16% sul 10% avrebbe reso 650 miliardi.
La patrimoniale ha effetti restrittivi. Però potrebbe colpire chi può permettersi un sacrificio, inoltre colpirebbe meno la domanda perché i ricchi non rinuncerebbero allo stile di vita (cosa diversa per tasse prolungate nel tempo che influenzerebbero anche la decisione di investire all’estero). L’effetto della patrimoniale sarebbe immediato.
Però l’effetto sulla liquidità di chi deve pagare non è indifferente. Qualcuno dovrebbe vendere pezzi di casa. Buona parte della tassazione dovrebbe riguardare le proprietà immobiliari, che rappresentano metà della ricchezza.
Perché avere delle regole fiscali? Per aumentare la credibilità nella gestione della politica fiscale, che è più prevedibile e riduce il rischio che sia usata per raggiungere obiettivi contingenti, elettorali, invece che perseguire obiettivi di lungo termine e assicurare la capacità dello stato di ripagare i ceditori. Se un governo ha credibilità fiscale riesce a prendere a prestito più facilmente, paga interessi più bassi, avvantaggia l’intera economia.
Se non esistesse questo problema di credibilità sarebbe ottimale avere una discrezionalità massima nella politica fiscale. In recessione potrei aumentare la spesa ma i mercati come farebbero a sapere se la spesa verrà ridotta in fase congiunturale positiva o se sia dovuta a contingenze elettorali?
Tanti paesi hanno regole fiscali. Alcuni non le hanno formali ma pubblicano piani fiscali vincolanti, come australia e nuova zelanda. Blair introdusse l’obbligo di pareggiare il bilancio al netto della spesa per investimenti nella media di un ciclo economico e un tetto al debito pubblico del 40% del pil. La svizzera ha regole fiscali.
Naturalmente le regole fiscali possono venire disattese o le leggi possono essere modifichate.
Le aree a moneta unica hanno regole fiscali. In usa, germania, canada esistono regole fiscali per stati, regioni, province.
Se non ci sono regole fiscali uno membro dell’area comune potrebbe essere tentato di condurre una politica irresponsabile perché potrebbe non pagarne le conqeguenze.
Se il deficit aumenta troppo un paese con la propria moneta vede i tassi sul debito aumentare e l’elettorato potrebbe non essere contento specie se la banca centrale finanzia il deficit stampando moneta.
In un’unione monetaria uno potrebbe aumentare il deficit confidando che gli altri interverrebbero ma allora potrebbero farlo tutti.
I costi dei cattivi sono distribuiti su tutti, ma questo crea una tendenza a tutti di avere deficit superiori a quelli che avrebbero fuori dall’area comune, ma questo causa rialzi dei tassi o mette pressione sulla banca centrale comune per avere politiche monetarie troppo espansive causando inflazione. Quindi necessita di regole fiscale.
Molte regole europee sono ora calcolate rispetto a un deficit corretto per l’effetto del ciclo economico, si concedono margini di flessibilità ai paesi che sono in una situazione economica difficile e a quelli che fanno riforme e investimenti.
Per l’italia ci sono due vincoli stringenti. Il deficit strutturale deve gradualmente azzerarsi raggiungendo nel medio termine il bilancio in pareggio. Il deficit strutturale si dovrebbe ridurre di almeno mezzo punto percentuale di pil l’anno. L’italia beneficia di flessibilità perché il pil è sotto il potenziale, per le spese per i migranti, per sta facendo riforme e investimenti. Il debito deve scendere in modo da arrivare all’86% del pil entro il 2035. Esattamente di un ventesimo rispetto all’eccedenza del debito rispetto al 60%. È il rapporto tra debito e pil che si deve ridurre, non il debito in valore assoluto o tantomeno il deficit di quel ventesimo dell’eccedenza.
Nella costituzione c’era il vecchio articolo 81 che sembrava permettere il finanziamento in deficit tra i mezzi per far fronte alle nuove spese. Ora si assicura l’obbligo di pareggio in termini strutturali. Si può ricorrere all’indebitamento solo per considerare gli effetti del ciclo economico a meno che non si verifichino cause eccezionali ma questa eventualità deve essere approvata a maggioranza assoluta dalle camere (E infatti lo è stata sempre, finora).
Non c’è motivo economico per tenere il bilancio in pareggio per sempre. Con la crescita del pil il rapporto tenderebbe a zero. L’obbligo di pareggio è definito in termini strutturali. In recessione potremo fare deficit ma in espansione dovremo ridurlo.
Questo vuol dire volare col pilota automatico. In recessione le entrate scendono da sole e il deficit è automatico. Ciò che non si può fare è aumentare la spesa discrezionale (cioè aumentare la spesa a un tasso superiore a quello del pil potenziale, non vuol dire che non potremo aumentare la spesa) o tagliare a discrezione le aliquote di tassazione
Durante la crisi del 2008 gli investitori fuggivano dai paesi deboli facendo salire i tassi e andavano verso i paesi forti facendo abbassare i tassi. Ma non si dovrebbero condividere i rischi in una sorta di mutualizzazione del debito? In realtà non è semplice nemmeno in usa, canada o germania, figuriamoci dove manca un’unione politica
Se siamo insieme dovremmo condividere il rischio. se uno ha problemi dovrebbe essere aiutato perché i singoli paesi non hanno più politica monetaria e gestione del cambio autonomi e sono vincolati a politiche fiscali. Inoltre una crisi in uno stato può contagiare gli altri. Quindi ognuno dovrebbe beneficiare dell’aiuto altrui, sia che ci sia una crisi in un solo paese sia che sia una crisi di tutto il club.
Come può avvenire l’aiuto?
Trasferimenti di risorse a fondo perduto. Questo accade quando esiste un bilancio federale comune. I paesi in recessione pagano meno imposte quando sono in crisi e ricevono più sussidi. Esiste però il bilancio federale al quale mettere fondi e dal quale attingerli. I singoli paesi o stati o lander cedono sovranità sia monetaria che fiscale al governo federale, che ha poteri di decisione in termini di entrate e di spese.
Prestare soldi. Negli usa il governo federale non ha mai prestato soldi ai singoli stati. La germania lo ha fatto per i lander. In generale quando uno stato va in crisi vengono dati dei soldi in cambio di riforme: è stato creato per questo il meccanismo del mes in Europa.
Mettere in comune il debito emettendo titoli o fornendo garanzie in comune? L’europa emette titoli e tutti garantiscono il prestito. Quindi un creditore può rivolgersi a qualsiasi paese per essere ripagato. I titoli sono emessi a tassi bassi e le risorse sono usate per acquistare i vecchi titoli dei paesi. I paesi diventano così debitori verso l’unione europea e possono ripagare il debito nel tempo fornendo attività reali come garanzie. Questo richiede un livello di solidarietà tale che non esiste nemmeno negli stati federali, dove il debito federale viene emesso per finanziare il deficit federale e non quello dei singoli stati. Ogni membro è responsabile del proprio debito. Dopo la guerra d’indipendenza il debito è stato ripagato ma era dovuto alla guerra in comune non a sovvenzionare welfare o spesa pubblica. la mutualizzazione del debito è improbabile
Una proposta interessante è la politically acceptable debt restructuring in europe
Una volta non c’era il debito pubblico ma il tesoriere del regno che gestiva i gioielli
Non si sa quanto sia la ricchezza delle amministrazioni pubbliche ma si può stimare di valori simili a quella del debito
Peraltro le attività hanno rendimenti scarsi e il debito ha tassi alti quindi vendere le attività per ripagare il debito avrebbe un beneficio in termini finanziari.
Come attivo meno passivo non cambierebbe molto
Ma è difficile non solo vendere (valori più bassi, patrimonio difficilmente vendibile, obiezioni politiche) ma anche valorizzare.
Significherebbe togliere poteri a qualcuno che le gestisce, far pagare di più chi usa i beni (pensiamo alle spiagge)
Non molte sono vendibili e quelle vendibili sono quelle che hanno già rendimento alto
Le azioni di fs, poste non sono numeri rilevanti. Le partecipate sono generalmente scatole vuote. Il patrimonio immobiliare vale 360 miliardi ma ci sono uffici della pa lì dentro. Gli enti proprietari sono diversi. L’annuncio di vendita basterebbe a fare abbassare il prezzo. l’agenzia per il demanio non può vendere di sua iniziativa. È una cosa complicata e renderebbe non tantissimo per quanto sia necessario e OPPORTUNO vendere quote azionarie in società dove non esistano fallimenti di mercato, razionalizzare l’uso degli edifici, magari cambiarne la destinazione, vendere la rai ecc. comunque si potrebbe ricavare non più del 10% del debito in un’ottica di riduzione del debito.
Una gestione diversa del debito in termini di durata, scadenza ecc è possibile ma cambierebbe poco
Austerità
Significa tagli alla spesa, riduzioni di deficit, aumenti di tasse, assenza di manovre espansive o cosa?
In Italia il deficit è già basso, quindi non servono forti aumenti di tasse o tagli di spesa. Serve mantenere il bnilancio più o meno in pareggio in media per diversi anni e questo potrebbe favorire pure la crescita
Quando nelle leggi di bilancio si parla di taglio di spese o aumento di entrate lo si fa a legislazione vigente, cioè se il governo o il parlamento non facessero modifiche. A noi non interessa questo se vogliamo vedere l’effetto di politiche espansive o restrittive sul pil.
Tasse. Nel 2014 il governo decide che le aumenterà nel 2016. Nel 2015 cancella l’aumento. Non c’è stato taglio di tasse. C’è stato “a legislazione vigente rispetto a quel che sarebbe successo se il governo non avesse cancellato l’aumento”. Rispetto al livello del 2015 non è cambiato nulla, c’è stato un mancato aumento, nessun effetto su crescita.
Spese. Alcune spese vengono approvate anno per anno. Ogni anno si ha la conferma della spesa dell’anno prima, a legislazione vigente, ma non aumenti di spese. Si parla di entrate e spese tendenziali, rispetto a quel che accadrebbe senza decisioni nuove. Questo ha senso per il legislatore ma è fuorviante come impatto sull’economia
Entrate e deficit dipendono anche dall’andamento del pil. Se il pil cresce le entrate aumentano anche se non si cambiano le aliquote. Un aumento di entrate tributarie dovuto a crescita del pil non significa politica fiscale restrittiva. Non è austerità.
Spese. Se il pil aumenta e la disoccupazione si riduce le spese per i sussidi diminuiscono ma non è una politica restrittiva.
Allora su cosa ci si deve concentrare?
Entrate. Il gettito delle tasse dipende dalle aliquote e dalla base imponibile (reddito, consumi). Aumentare un’aliquota o cambiare la definizione della base imponibile sono misure restrittive o espansive. Queste misure hanno effetto sul deficit, sul pil, sulla crescita. Se alzo l’aliquota il potere di acquisto delle persone sarà inferiore, compreranno meno, si ridurrà la crescita.
Spese. Lo stato determina quanto si spende per sanità, difesa, pubblica istruzione. È restrittiva una decisione che porta la spesa a crescere meno del pil potenziale dell’economia. Se la capacità di crescita dell’economia è dell’1% e la spesa pubblica cresce dello 0,5 c’è un effetto restrittivo.
Si può avere una riduzione della spesa sul pil e quindi una riduzione del deficit sul pil senza bisogno di misure di austerità. Se in un anno il pil cresce dell’1,5% e il pil potenziale è 1%, se le spese crescono in linea col pil potenziale il rapporto tra spese e pil scende e questo fa diminuire il deficit su pil senza austerità. Quando l’economia si riprende possiamo ridurre il deficit rispetto al pil senza tagliare la spesa rispetto all’anno prima. basta mantenere l’aumento della spesa in linea col potenziale di crescita. Una ripresa significa che l’economia cresce più del pil potenzile, le entrate accelerano e se si mantiee la crescita della spesa in linea con la crescita potenziale il deficit si riduce senza bisogno di austerità.
Austerità rispetto alla crescita del pil vuol dire aumentare la spesa pubblica meno della crescita potenziale dell’economia o aumentare le aliquote o la definizione della base imponibile.
La crescita è importante per ridurre il peso del debito pubblico ma non è facile aumentare la crescita, per ridurre il debito non è che si può aumentare la spesa pubblica o tagliare le tasse al fine di aumentare la crescita, la crescita non può supplire a un grado di austerità moderata.
Più pil vuol dire che il denominatore del rapporto debito pil sale ma soprattutto se si risparmiano le entrate che derivano da una maggiore crescita il debito aumenta meno rapidamente o scende. Risparmiare le entrate in più vuol dire che non possono essre usate per aumentare le spese se no il debito scende eventualmente a passo di lumaca.
Quindi bisogna abbinare crescita e disciplina fiscale.
Tagliare le tasse o aumentare le spese fa crescere? Le politiche keynesiane. Quando si parla di aumenti di spesa si preferisce la spesa per investimenti a quella corrente. Così la crescita futura compenserà l’aumento del deficit. Analogamente tagliare le tasse mette più soldi in tasca ai consumatori che spendono di più e fanno crescere il pil. In realtà una crescita del deficit può fare scendere il peso del debito nel breve periodo ma alla fine porta a un aumento del rapporto tra debito e pil.
Secondo alcuni un aumento della spesa pubblica può portare a un aumento del pil potenziale, che si tradurrà in aumento permanente deil pil. Un aumento degli investimenti potrebbe allora portare a una riduzione del rapporto. Questa versione si basa sull’ipotesi che i mercati credano che le entrata da maggior crescita siano risparmiate e che l’aumento di spesa sia temporaneo. Altrimenti i tassi di interesse sul debito cresceranno insieme a spesa e deficit e il rapporto debito pil non si ridurrà. Se gli stati uniti possono fare un gioco del genere l’Italia è più a rischio.
Se aumenta il pil potenziale aumenta la capacità produttiva perché aumenta la domanda di beni e servizi ma l’impresa può decidere di andare all’estero. Occorre convincerla che l’Italia fornisce un ambiente favorevole all’attività imprenditoriale favorendo gli investimenti. La crescita dipende non solo dagli investimenti, però, ma anche da quante persone sono disposte a lavorare in Italia, quanto a lungo siano disposte a lavorare (dipende cioè da quanto rapidamente cresce la forza lavoro). Dipende inoltre dal progresso tecnologico, che determina quanto produttivi siano il capitale e il lavoro impiegati dall’impresa. Come fare affinché gli imprenditori investano di più in Italia, le persone in età da lavoro vogliano lavorare di più in Italia (sempre che ci siano posto disponibili) e come facilitare il progresso tecnologico? Con le riforme strutturali.