Da “I dieci comandamenti dell’economia italiana” di Cottarelli e De Nicola. La parte sulle pensioni è scritta da Giuliano Cazzola.
La legge 153 del 1969 (http://briguglio.asgi.it/immigrazione-e-asilo/2010/aprile/legge-153-1969.html) è stata modificata dalla legge 335 del 1995 ( https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1995-08-08;335!vig=). Modificata profondamente ma assumendo una transizione troppo lunga per essere ritenuta adeguata e equa sul piano intergenerazionale.
La legge del 1969 introduce il metodo retributivo e prende a riferimento la retribuzione pensionabile degli ultimi tre, poi cinque, anni di lavoro (nel pubblico impiego era equivalente all’ultimo anno di servizio). Voleva garantire ai pensionati un trattamento equivalente al livello di retribuzione o di reddito (nel 1990 vennero applicati gli stessi criteri ai lavoratori autonomi) raggiunto alla fine della vita attiva.
In realtà si volle garantire una pensione dignitosa a chi aveva avuto una storia lavorativa e contributiva accidentata nel dopoguerra o aveva visto sfumare i versamenti di prima della guerra per via dell’inflazione.
La formula di calcolo era 2% x n = % della retribuzione pensionabile degli ultimi anni di lavoro. N era il numero degli anni di servizio. Quindi chi aveva 40 anni di assicurazione prendeva l’80% degli ultimi periodi retributivi.
Il disavanzo pensionistico e anche gran parte del debito pubblico sono derivati dall’aver concesso per decenni pensioni non supportate da contributi versati. A ciò si aggiunsero le pensioni di anzianità, che consentivano la pensione sulla base di contributi versati per 35, 25, 20 anni (o ancora meno nel pubblico impiego) a prescindere dall’età anagrafica, per risarcire i cosiddetti lavoratori precoci.
Così negli anni 80 tanti episodi di ristrutturazione industriale finirono in pensionamenti. Furono 400mila per una spesa di 50mila miliardi di lire. Dopo la riforma dini fu inserito un requisito anagrafico: da 52 a 57 anni.
Aumentava la speranza di vita, si abbassava l’età effettiva di pensionamento. Il sistema sarebbe collassato, arrivando a una spesa del 23% del pil intorno al 20130 se non ci fossero stati cambiamenti. Tra il 76 e il 2016 la speranza di vita è passata da 69 a 80 anni per gli uomini e da 76 a 85 per gli uomini.
La riforma Dini introduce il calcolo contributivo per superare lo squilibrio dato dal fatto che venivano riconosciuti ai pensionati anni di prestazioni non coperte dal montante contributivo.
Col contributivo (il montante su cui calcolare il trattamento è dato dalla somma degli accrediti annuali rivalutati sulla base del pil nominale moltiplicato per i coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età di pensionamento all’interno di un range flessibile) si è ristabilito un sinallagma tra contributi versati e prestazione ma lo si è fatto solo per i nuovi assunti a partire dal 1996 mentre chi aveva almeno 18 anni di anzianità è rimasto col retributivo. Gli altri sono inclusi nel sistema misto col criterio del pro rata fino a che il contributivo è stato esteso pro rata a tutti dal 2012.
La riforma Dini ha scaricato l’equilibrio del sistema sui futuri pensionati salvaguardando nell’aspetto chiave del’età pensionabile i lavoratori più anziani. Si diceva che il giovane potrà colmare il tasso di sostituzione più basso iscrivendosi ai fondi di previdenza integrativa ma l’aliquota obbligatoria del 33% non consente di avere una adeguata base economica per la previdenza complementare.