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Lo stupore delle prese elettriche

Da Monti a Renzi, cioè dalla padella nella brace (e i giovani ci rimettono di più).

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Da “L’austerità fa crescere” di Veronica De Romanis

L’Italia nel 2011 aveva conti in disordine, elevata disoccupazione, scarsa produttività.
Dal 2011 al 2013 ha realizzato un surplus primario tra l’1% a il 3,7%. È sceso poi al 2,5% del 2016
La flessibilità è stata usata per finanziare spesa corrente. Per Renzi maggiore spesa pubblica in disavanzo avrebbe dato impulso alla crescita ma non è stato così.
L’Italia non ha chiesto aiuti all’Europa.
Il consolidamento è stato maggiore che in Spagna, la crescita seguente è stata minore. Si è ridotta la spesa per investimenti, si sono aumentate le entrate. La spesa corrente è aumentata sia in rapporto al pil (3,4%) che in termini nominali (1,3%). La spesa per investimenti è scesa da 45 a 38 miliardi di euro. Le entrate sono aumentate: 5,4% in rapporto al pil, 3,3% in termini nominali. La pressione fiscale è passata dal 41,6 al 43,6%.
L’austerità cattiva è più semplice per un governo tecnico e poi c’era poco tempo.
I consumi intermedi e i trasferimenti alle imprese non si sono toccati
Le riforme delle pensioni e del mercato del lavoro sono state degne di nota.

Arriva Renzi. Bisogna ridurre il debito, dice, ma non fa. Dal 2014 al 2016 il debito sale da 131,8 a 132,6. Il deficit diminuisce da 3 a 2,4 solo per il qe della bce che compra titoli, il cui prezzo sale e il tasso di interesse scende. Il calo del deficit dello 0,6% è stato pari a quello della spesa per interessi (Da 4,6 a 4% del pil).
Nel 2015 ottiene 4,5 miliardi di euro di flessibilità e nel 2016 altri 14,4 miliardi di euro. La flessibilità è stata ottenuta in cambio di clausole di salvaguardia: si spende e se non si trovano le coperture aumentano le tasse in automatico. Il governo non taglia le spese, non aumenta le tasse ma aumenta il disavanzo pubblico. Su 17,6 miliardi di maggiore indebitamento 16,8 sono serviti al finanziamento delle clausole di salvaguardia. Il problema si sposta in avanti. L’economia intanto è cresciuta dello 0,7 nel 2015 2016. La Spagna è cresciuta del 3,2%. Uk del 2%.
La flessibilità ha finanziato spesa corrente. Ottenendo più tempo e non più soldi ha di fatto aumentato il debito. La spesa per gli interessi è arrivata all’8% del pil. Ogni euro speso in interessi è un euro non speso in servizi.
Azzardo morale. I bassi tassi disincentivano il risanamento. Come un pescatore che in assenza di regole cerca di pescare tutto il pesce. Danneggia gli altri che rischiano di non avere pesci. Crea rischi di instabilità finanziaria.
In Italia ci sono settecento voci di spesa, per 300 miliardi all’anno, 8% del pil, quando in Europa in media pesano per il 3% del pil.

L’Italia, a questo proposito, si posiziona agli ultimi posti della classifica europea: nel 2015 la percentuale tra gli under ventiquattrenni che cercano lavoro è stata pari al 40,3%, il doppio della media dell’area dell’euro;
Riforme efficaci non si sono viste.

A due anni dall’entrata in vigore, il bilancio del Jobs Act è in chiaroscuro. Dopo oltre un quinquennio di incrementi, il tasso di disoccupazione ha iniziato a calare, attestandosi nel 2015 all’11,9% . In particolare, dal mese di marzo – data di introduzione delle misure – a novembre 2016 si è riscontrato un aumento di occupati pari a 442 mila unità. Ma i numeri, in questo caso, possono essere ingannevoli: su tali risultati hanno pesato fortemente gli incentivi fiscali promossi dal governo. A partire dal 2015, infatti, le aziende che assumono sono esonerate dal versamento dei contributi previdenziali per un massimo di trentasei mesi. Visto che i due interventi sono entrati in vigore nello stesso periodo, è difficile stabilire quali cambiamenti siano da imputare alle norme introdotte con la riforma del lavoro e quali al cosiddetto «Bonus assunzioni».

Un’agevolazione, quest’ultima, che ha certamente reso il contratto a tutele crescenti più conveniente: nel 2015 la percentuale dei nuovi rapporti di lavoro attivati a tempo indeterminato sul totale dei rapporti è stata del 42,5%, circa 10 punti percentuali in più rispetto al 2014 e pari al 31,7%. Il vantaggio della decontribuzione, però, si è rivelato temporaneo: nel 2016, quando l’incentivo viene confermato ma più che dimezzato, la percentuale cala nettamente, attestandosi al 30,2%, un risultato inferiore persino a quello del 2014, anno in cui la decontribuzione non c’era e la crescita economica era sostanzialmente piatta. Bisognerebbe, quindi, interrogarsi sulla reale efficacia di una misura che ha portato certamente qualche risultato, ma pagato a caro prezzo (il costo stimato per i contribuenti dell’intera operazione dovrebbe superare i dodici miliardi di euro). Senza contare poi che provvedimenti di questo tipo non fanno altro che «drogare» il mercato – e i dati atti a rappresentare le dinamiche nello stesso periodo – senza cambiarlo in modo permanente, dal momento che il taglio del costo del lavoro non è strutturale, come invece la Commissione europea richiede da tempo.

La ricetta di Bruxelles è nota ed è sempre la stessa: spostare il carico fiscale dai fattori produttivi ai consumi e alle proprietà. Si tratta, ovviamente, di un suggerimento, non di un’imposizione, come diversi politici lasciano intendere, poiché le decisioni in materia fiscale sono di competenza nazionale. A questo proposito, Renzi ha sempre risposto in modo netto: «Le tasse da tagliare le decidiamo noi». E, infatti, con il provvedimento inserito nella legge di Stabilità 2016, che ha previsto la cancellazione dell’imposta sulla prima casa, il governo è andato nella direzione opposta a quella caldeggiata dall’esecutivo comunitario. Eppure, i dati parlano chiaro: mentre la tassazione sugli immobili in Italia è in linea con la media europea, il cuneo fiscale, ossia la differenza tra ciò che paga il datore di lavoro e l’effettiva retribuzione del lavoratore, è tra i più alti al mondo e in costante aumento. Dal 2000 al 2015 per un lavoratore senza figli è cresciuto dal 47,1% al 49%; nello stesso periodo la media dei paesi Ocse scendeva dal 36,6 al 35,9%. La Commissione insiste per intervenire sul costo del lavoro in modo permanente anche per un altro motivo: agire sul basso tasso di occupazione femminile, un’ulteriore debolezza strutturale dell’economia italiana.

2015 il tasso di occupazione femminile tra le ventenni e le sessantaquattrenni è stato pari al 50,6%, 14 punti in meno rispetto alla media dell’area dell’euro. L’Italia, peraltro, non solo si posiziona in fondo alla classifica in termini di presenza femminile sul mercato del lavoro (è al terz’ultimo posto precedendo solo la Grecia, al 46%, e la Turchia, al 32,5%), ma è anche il paese che negli ultimi dieci anni ha registrato la performance peggiore: dal 2006 a oggi, il tasso di occupazione è aumentato del 2%, un terzo della media europea e un sesto dell’incremento registrato in Germania. Nel Sud del paese la situazione è ancora più preoccupante: solo il 31% delle donne ha un’occupazione (la percentuale scende al 7,6% per le giovani donne). Peraltro, nonostante meno della metà delle italiane non abbia un lavoro, il tasso di fecondità è inferiore a quello della media dei paesi europei – 1,35 contro 1,58 – e in diminuzione (nel 2010 era 1,46), a dimostrazione che l’occupazione femminile non incide in senso negativo sulla natalità, semmai la favorisce. In Francia, per esempio, lavorano il 60% delle donne e il numero medio di figli è pari a 1,96. Portare l’occupazione femminile ai livelli europei rappresenta agli occhi di Bruxelles una delle sfide primarie che l’Italia dovrà affrontare nei prossimi anni, per due ordini di motivi. In primo luogo, perché una maggiore presenza delle donne sul mercato del lavoro favorirebbe la crescita; l’evidenza empirica dimostra che se il tasso di occupazione femminile salisse al 60% (il livello medio europeo), la ricchezza per abitante aumenterebbe di circa un punto percentuale all’anno. In secondo luogo, perché contribuirebbe a invertire il processo di denatalità: un obiettivo che richiede interventi strutturali, che vanno ben oltre i provvedimenti della legge di Stabilità 2017, come il Bonus mamma domani erogato ancora prima della nascita per far fronte alle spese di diagnostica legate alla gravidanza o il raddoppio del Bonus bebè per le famiglie disagiate a partire dal secondo figlio, la cui implementazione, peraltro, si sta dimostrando ben poco efficace. A conti fatti, però, è ancora troppo presto per poter valutare appieno l’efficacia del Jobs Act. Bisognerà aspettare la fine del 2018, quando saranno esauriti gli sgravi per chi assume. Sarà inoltre decisivo il destino dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal), organismo che ha il compito di coordinare il sistema degli uffici di collocamento,

Eppure, l’Italia ha un disperato bisogno di centri per l’impiego moderni ed efficienti, dal momento che tre italiani su quattro sono costretti a rivolgersi a familiari o conoscenti per trovare lavoro; l’ennesimo record negativo, visto che nella media europea questa percentuale scende al 30% (al 20% in Germania) e, ancora una volta, peggio di noi fa solo la Grecia. Per quanto riguarda l’impatto del Jobs Act sull’occupazione giovanile, invece, è già possibile trarre qualche conclusione. Il bilancio è complessivamente deludente: i dati più recenti indicano che tra gli occupati italiani ci sono sempre più ultracinquantenni e sempre meno giovani. I fattori che spiegano queste dinamiche sono molteplici: l’invecchiamento della popolazione, la crisi che ha penalizzato i lavoratori meno esperti e le norme in ambito pensionistico che hanno allungato la vita lavorativa. Tuttavia, nonostante il tasso di occupazione degli over cinquanta e dei ventiquattro-trentacinquenni sia simile, il primo è cresciuto mentre il secondo è diminuito, andando così a colmare il divario di circa 30 punti percentuali registrato all’inizio degli anni dieci. In particolare, se si confrontano i dati del primo trimestre 2015 con quelli del terzo 2016, si evince che gli occupati della fascia d’età trentacinque-sessantacinque sono triplicati rispetto a quelli fra i quindici e i trentaquattro anni. Del resto, non c’è da stupirsi.

La decontribuzione e la maggiore facilità di licenziamento non sono incentivi sufficienti per assumere un giovane con un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti: dal punto di vista dell’impresa, è meglio assumere un lavoratore già formato e quindi più produttivo. Cosa fare, dunque, per favorire l’ingresso dei giovani sul mercato del lavoro?

Basterebbe introdurre una serie di cambiamenti già realizzati nella stragrande maggioranza dei paesi europei. Innanzitutto limitare a quattro gli anni del ciclo delle scuole superiori: l’Italia è uno dei pochi paesi in Europa dove gli studenti ottengo il diploma all’età di diciannove anni. In secondo luogo, agevolare (sia dal punto di vista normativo sia finanziario) l’accesso a stage professionali durante le vacanze, in particolare quelle estive, come avviene all’estero, dove si inizia già a partire dall’età di sedici anni; si tratterebbe di esperienze che, seppur brevi, potrebbero rivelarsi preziose nell’indirizzare la scelta del percorso universitario evitando così di intraprendere strade sbagliate e, quindi, di incorrere in svantaggiose perdite di tempo. Bisognerebbe poi rafforzare l’alternanza scuola-lavoro, il cosiddetto «sistema duale», in modo da facilitare l’accesso alle professioni di individui che abbiano già acquisito le competenze richieste dalle aziende: il governo ha fatto diversi passi in avanti, ma le cifre stanziate [46] appaiono davvero molto contenute, se paragonate ai due miliardi di euro che vengono spesi annualmente dalla Germania, dove la disoccupazione giovanile è in continuo calo, pari nel 2015 al 7,2%. Infine, intervenire sulla qualità dell’insegnamento. I risultati dei test sulla capacità degli studenti italiani della scuola secondaria superiore di risolvere un problema o sintetizzare delle informazioni situano l’Italia in fondo alla classifica dei paesi Ocse, davanti solo alla Spagna e all’Irlanda. Da questo punto di vista, la Riforma della scuola, enfaticamente ribattezzata «Buona scuola», ha rappresentato un’occasione mancata. L’azione di governo si è concentrata sull’assunzione di novantamila precari, mentre poco è stato fatto per incentivare iniziative volte ad avvicinare gli studenti al mondo del lavoro.

C’è una legge sulla concorrenza, che dal 2009 dovrebbe essere approvata annualmente [48], il provvedimento è fermo in parlamento da oltre due anni; peraltro, rispetto al testo iniziale, molte disposizioni (quella sulle professioni legali, per esempio) sono state indebolite, altre, invece (quelle sul trasporto locale, taxi, aeroporti e porti), non sono neanche state contemplate. Eppure, progressi in questo settore sarebbero davvero necessari, visto che, in base all’indice sulla competitività elaborato dal World Economic Forum, l’Italia è ferma al quarantatreesimo posto su centoquaranta paesi e, in Europa, fanno peggio solo Romania, Bulgaria e Grecia.

David Cameron ha descritto bene sia gli antagonisti, ossia coloro che voleva combattere – i «parassiti» che si approfittano dello Stato a spese degli altri – sia come voleva procedere – con una ridefinizione del perimetro della pubblica amministrazione, accompagnata da un’incisiva azione di Spending Review – e i protagonisti insieme ai quali voleva compiere il percorso delineato – i cittadini disposti a rimettersi in gioco. In questo senso l’obiettivo è stato raggiunto, soprattutto con il consenso dei giovani, che sono i veri destinatari delle riforme attuate.

Il principio per cui i furbetti vanno puniti è sacrosanto. Tuttavia, la priorità di un governante-regolatore dovrebbe essere non tanto la sanzione nei confronti di chi non lavora, ma l’impegno per mettere chi, invece, lavora nelle condizioni di poterlo fare nella maniera più efficiente: timbrare il cartellino è una condizione necessaria ma non sufficiente per assicurare il miglior servizio ai cittadini. Ed è, quindi, inefficace concentrarsi sui fannulloni, se ciò comporta chiedere ai dirigenti di investire tempo prezioso nella sorveglianza dei propri sottoposti inadempienti piuttosto che sull’attività di coordinamento fondamentale per ottimizzare le risorse a disposizione (peraltro, che strumenti potrebbe mai avere un dirigente di fronte a un certificato medico fasullo?). Ben diversa è stata l’azione di Cameron, partito da un’analisi rigorosa delle carenze del sistema e dei fenomeni di parassitismo concretamente rilevabili, per procedere con soluzioni mirate e non estemporanee.

Secondo il governo, le nuove norme antifurbetti (le novità rispetto al regime precedente, di fatto, non sono molte, e consistono perlopiù nella riduzione dei tempi per l’irrogazione della sanzione) sarebbero funzionali a sanzionare comportamenti errati, perché le regole in materia di lavoro contenute nel Jobs Act non si estendono ai dipendenti statali. Le motivazioni possono essere così sintetizzate: il pubblico deve tutelare chi ha vinto un concorso, evitando di creare le condizioni per cui questo soggetto venga allontanato per motivi non strettamente inerenti all’attività svolta e riconducibili essenzialmente ai «capricci della politica»; l’indennizzo al dipendente licenziato ingiustamente verrebbe pagato con risorse pubbliche. La tesi è legittima e infatti convince diversi analisti e giuslavoristi. Tuttavia, in una fase delicata come quella attuale – con l’avanzata dell’antipolitica – il governo dovrebbe cercare di convincere innanzitutto i cittadini delle motivazioni che sorreggono la distinzione fra il trattamento riservato ai dipendenti pubblici e quello dei privati. Le spiegazioni fornite finora, tuttavia, sollevano perplessità. Se, infatti, il concorso – come sostiene il ministro della Funzione pubblica – è un metodo di selezione migliore di quelli in uso nel privato (peraltro, se l’obiettivo è selezionare i migliori, perché è stato abolito il voto minimo di laurea tra i requisiti di ammissione?), dovrebbe essere possibile verificare una tale differenza sulla base di dati quantificabili. Inoltre, questa posizione di principio si regge sul presupposto che le competenze del vincitore restino costanti nel tempo e che le funzioni richieste non subiscano mutamenti, scenario difficile da ipotizzare. Per quanto riguarda l’indennizzo in caso di ingiusto licenziamento, nel privato questo spetta al datore di lavoro, nel pubblico ai contribuenti. Pertanto, con l’articolo 18 si evita di addossare all’intera collettività l’onere degli sbagli altrui. Anche in questo caso, un’analisi in termini di costi-benefici aiuterebbe, perché occorre dimostrare che l’ammontare degli eventuali indennizzi sarebbe maggiore dello spreco di risorse pubbliche destinate a pagare gli stipendi di dipendenti poco efficienti e illicenziabili. Infine, secondo l’esecutivo, con il Jobs Act potrebbe aumentare la probabilità per un impiegato statale di essere licenziato «per mano della politica». Se ciò fosse vero, la soluzione starebbe semplicemente nel costringere la politica a fare un passo indietro rispetto alla pubblica amministrazione, mentre in realtà sembra che si stia andando nella direzione opposta. La riforma della dirigenza, per esempio, prevede l’istituzione di una commissione di esperti, scelti dal governo con il compito di valutare ed elaborare la rosa di dirigenti a cui proporre il rinnovo dell’incarico (della durata di quattro anni, prorogabili solo per altri due): i componenti della commissione svolgeranno, pertanto, un ruolo di primaria importanza. C’è da chiedersi, però, quale sia la loro effettiva capacità di misurare l’operato dei dipendenti pubblici in quanto privi di una conoscenza sul campo che invece potrebbe avere chi è interno all’amministrazione. E, soprattutto, quale sia il grado di indipendenza da chi li ha selezionati, data la mancanza di trasparenza sui criteri adottati. Con il nuovo meccanismo di attribuzione degli incarichi, inoltre, il rischio di un rafforzamento del legame tra politica e pubblica amministrazione è concreto. I dirigenti in attesa del rinnovo avranno come primo obiettivo compiacere i membri della commissione, piuttosto che prodigarsi in vista del «bene comune». La mancanza di un incarico protratto nel tempo prevede, infatti, la riduzione dello stipendio e la retrocessione a funzionario, che altro non significa se non lavorare alla pari con chi si è precedentemente coordinato (difficile, tra l’altro, immaginare che un simile meccanismo possa incrementare l’efficienza della macchina pubblica). Ciò potrebbe creare un disincentivo a portare avanti il proprio compito in modo imparziale e il risultato ultimo rischia di essere una maggiore politicizzazione del settore pubblico. Vale la pena sottolineare la totale deresponsabilizzazione dei valutatori nel sistema sopra descritto, che viene accentuata dalla mancanza di un sistema di remunerazione, perché è previsto che i membri della commissione svolgano il loro compito in modo gratuito. Attribuire un ruolo di rilievo all’interno della pubblica amministrazione senza erogare un corrispettivo economico è diventata una prassi a cui l’esecutivo fa spesso ricorso. Ciò può, forse, essere giustificato dal tentativo di rincorrere le sirene populiste. In questo modo, però, si rischia di avvalorare l’adagio inglese: If you pay peanuts, then you get monkeys («Se paghi noccioline, poi ottieni scimmie»). È dunque evidente che ben poco è stato fatto per rendere il lavoro negli uffici pubblici più produttivo e organizzato. Peraltro, se l’obiettivo è quello dell’efficienza, non si vede perché sia stato siglato in tutta fretta – a tre giorni dal referendum costituzionale – un accordo con i sindacati per il rinnovo dei contratti di 3,3 milioni di dipendenti statali, che prevede aumenti medi di ottantacinque euro, senza mai fare riferimento a un corrispettivo incremento della produttività.

Fra le questioni che restano aperte vi è anche il bonus fiscale di ottanta euro, che i sindacati non vogliono decada per lo sforamento del tetto di reddito – ventiseimila euro all’anno – per chi già ne usufruisce. Ai tanti che non hanno un lavoro – in particolare i giovani – e che pertanto non percepiscono il bonus, sarà sembrato incomprensibile l’investimento dell’esecutivo in termini di tempo e di risorse su tali questioni. Da ciò si comprendono, tra l’altro, i motivi della scollatura tra la politica e il paese reale. Anche dal punto di vista dei risparmi, i risultati non sono soddisfacenti. Non è certo sorprendente: lo si poteva prevedere dalle parole dello stesso ministro della Funzione pubblica al momento della presentazione del disegno di legge delega, che avevano lasciato molti commentatori quantomeno perplessi: «Non so quanti risparmi porterà la riforma della Pubblica Amministrazione e sono contenta di non saperlo perché l’impostazione non è di Spending Review: non siamo partiti dai risparmi. […] L’errore dei governi precedenti», ha ammonito in seguito il ministro, «è stato partire dalla Spending Review, che è però un risultato e non il punto di partenza». Non per nulla non sono stati indicati chiari obiettivi quantitativi.

Più in generale, però, è mancata un’incisiva azione di revisione della spesa, come avvenuto nel Regno Unito, dove ha funzionato perché il premier Cameron ha seguito un metodo ben preciso, basato su tre pilastri. In primo luogo, la programmazione. La revisione della spesa richiede un’azione pianificata e distribuita su un arco temporale di medio termine. Nessuna improvvisazione, quindi, né interventi effettuati sull’onda dell’emergenza. In secondo luogo, la responsabilità della politica: il potere di decidere dove, come e quando tagliare deve essere attribuito al ministro dell’Economia e delle finanze. Esclusa l’entrata in gioco di commissari tecnici, come è invece avvenuto in questi anni per il nostro paese: non rappresentando nessuno, infatti, possono essere facilmente mandati via appena propongono soluzioni considerate politicamente impopolari. E così è stato: dal 2011, in soli cinque anni, si sono alternati ben quattro commissari, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: la spesa non è mai calata, anzi, ha continuato a registrare un andamento crescente. Infine, il coinvolgimento dei cittadini nel processo decisionale attraverso la condivisione di un nuovo approccio di politica economica: il governo deve saper illustrare i motivi degli interventi, la distribuzione dei sacrifici richiesti, ma anche i benefici derivanti da un uso più efficiente, trasparente ed equo delle risorse pubbliche.

In Italia, però, non è stato questo il metodo seguito. Nonostante il premier Renzi abbia dichiarato di aver tagliato con la legge di Stabilità 2016 «venticinque miliardi di euro», una cifra talmente elevata da portarlo ad affermare che sarebbe stato «difficile andare oltre», quanto emerge dai dati è un quadro piuttosto diverso. In una breve nota dal titolo Quanto pesa la Spending Review?, pubblicata dal ministero dell’Economia e delle finanze, si evince che il governo non ha tagliato la spesa pubblica, bensì l’ha semplicemente spostata da un capitolo a un altro. In altre parole, i risparmi di 25 miliardi di euro ottenuti nel 2016, tanto decantati da Renzi, sono stati sì realizzati, ma immediatamente riutilizzati per finanziare incrementi di altra spesa. I numeri parlano chiaro: la riduzione «netta» della spesa è stata pari «solamente» a 360 milioni di euro, suddivisa in 41 milioni di tagli alla spesa corrente e 319 milioni di euro di tagli a quella in conto capitale. In sostanza, i risparmi, non solo sono stati di entità modesta, ma hanno penalizzato maggiormente proprio il comparto più produttivo, quello per gli investimenti, che potrebbe dare impulso alla crescita e contribuire, così, alla riduzione del debito pubblico. Del resto, tagliare non sembra essere una priorità. Renzi ha ribadito in diverse occasioni che «l’austerità non fa crescere», un’affermazione che, però, non è avvalorata dalle evidenze empiriche. I paesi che negli ultimi cinque anni hanno ridotto la spesa pubblica, come la Spagna, il Regno Unito o l’Irlanda, sono cresciuti nel 2016, rispettivamente, del 3,2%, del 2% e del 4,3%. L’Italia, che nello stesso periodo ha lasciato la spesa pubblica sostanzialmente invariata e di poco inferiore al 50% del Pil, è ferma allo 0,9%: un risultato ascrivibile anche al fatto che ben pochi provvedimenti sono stati messi in campo per ridurre il perimetro dello Stato e renderlo più efficiente, se non mediante l’eventuale licenziamento dei furbetti. A conti fatti, negli ultimi tre anni, la battaglia che avrebbe dovuto essere a favore e dalla parte di chi contribuisce con il proprio impegno quotidiano a rendere la pubblica amministrazione più efficiente, semplice e moderna si è ridotta a una mera – e modesta, per la verità – lotta contro un numero non quantificabile di furbetti. E non quantificarlo fa gioco a chi vuole intestarsi riforme «epocali», che tali non sono in assenza di stime concrete del fenomeno su cui vanno a intervenire. Sono state compiute scelte al traino di un’opinione pubblica, e ancora di più di un’informazione, votata alla ricerca del capro espiatorio e della ricetta facile per risolvere i problemi complessi del paese, inaffrontabili senza una strategia chiara, che sinora è mancata.

Dal 2015 l’europa è tornata a crescere. Il tasso medio di sviluppo è del 2%. Chi ha aderito a piani di aiuto e ha fatto aggiustamenti fiscali è stato più dinamico. Spagna, irlanda, portogallo. In difficoltà è chi non ha messo i conti in ordine: Francia e Italia.
Qual è il tasso di disoccupazione giovanile della Germania, intanto? il 7%.

L’austerità buona è quella che taglia spese improduttive e permette l’adozione di riforme strutturali.

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