Secondo Alberto Mingardi, ne:”L’intelligenza del denaro,” non è necessariamente compito dello Stato quello di soccorrere i vinti.
La liberta di scegliere e di essere scelti fa parte del mercato. Questo sistema di cooperazione però non salva dai fallimenti. Esistono tante scelte sbagliate fatte da tutti. Alcune possono essere fatte nel momento sbagliato e segnare un bel pezzo di vita. Per esempio il voto a un esame incide su quello di laurea e questo sulle opportunita lavorative. Il quando si sbaglia può essere più rilevante del quanto si sbaglia.
Le imprese che sbagliano e falliscono non devono essere protette perché altrimenti verrebbe meno l’opportunità di apprendimento. Se non potesseo fallire gli imprenditori peggiori non sarebbero puniti e potrebbero non prestare attenzione neanche alla gestione delle risorse umane. Non ci sarebbe nessuna differenza tra uno stile imprenditoriale o manageriale accentratore che non lascia nessuna opportunità e autonomia alle persone che ricoprono ruoli inferiori e uno stile più orizzontale. Non ci sarebbe nessuna differenza tra imprese che trattano male le persone e quelle che spingono a svilupparne i talenti. Non sappiamo quale delle due fallirebbe, ma se tutti sanno che saranno salvati dal fallimento, l’incentivo sarà a mantenere lo status quo, a non migliorare, a non cercare alternative. Inoltre lo stesso sistema delle imprese tenderà a uniformarsi. Anche i dipendenti non saranno stimolati a cercare il cambiamento, anche perché non ci sarà neppure sul mercato un’offerta varia di imprese diverse: tanto alla fine gli errori non si pagano e tutti hanno la sicurezza di continuare a gestire la propria impresa o di lavorarci.
A fronte di un’impresa che chiude ci sono però dei lavoratori che restano senza impiego.
Lo Stato sociale sarebbe una specie di grande assicurazione contro i rischi di fallimento. Ora, in effetti non tutti i fallimenti sono meritati (un dipendente non è necessariamente responsabile del fallimento di un’impresa.) Inoltre, date le diseguaglianze dovute anche alla lotteria della vita, è opportuno che certi servizi necessari come l’istruzione e la sanità siano dati a tutti, anche agli svantaggiati.
Il problema è che le opportunità hanno anche un costo e lo Stato non dispone di risorse proprie.
Un’assicurazione funziona così: tu paghi un prezzo. I soldi raccolti vengono investiti dalla compagnia assicurativa in modo da assicurarsene un profitto. Nel caso capiti l’evento coperto dall’assicurazione, questa ti rimborsa. In certi casi, come per l’rc auto, le assicurazioni sono obbligatorie, altrimenti sarebbe molto improbabile riuscire a coprire tutti gli incidenti. Il fatto è che le assicurazioni richiedono un prezzo, rimborsano eventi che ci siano accaduti contro la nostra volontà e non gestiscono l’ospedale in cui andiamo a curarci o il carrozziere che ci ripara la macchina. L’assicurazione, inoltre, compete in un mercato e pagherà per i suoi errori.
Lo Stato invece mette quanto raccoglie in unico pentolone, gestisce i servizi di cui abbiamo bisogno (ospedali ecc: è lui che sceglie di costruirli, quanta gente impiegare ecc.,) opera in regime di monopolio: se non ci piacciono i suoi servizi non ci resta che emigrare.
Inoltre per svolgere i servizi lo Stato si serve di un apparato burocratico composto da chi coordina i fattori di produzione, prende decisioni su come fare svolgere questi servizi, si assume compiti di certificazione e di valutazione. Queste persone tenderanno ad aumentare il proprio potere e i propri compiti. Queste persone non sono coloro che offrono il servizio, come sono invece i medici o gli insegnanti. A queste persone non paghiamo un prezzo in funzione del servizio svolto, quindi possono operare in modo opaco, se vogliono. Inoltre operano in monopolio, quindi sono difficilmente sostituibili.
Così ecco che la pressione fiscale aumenta e con i soldi delle imposte e delle tasse lo Stato cerca di coprire le spese per la difesa e la giustizia, ma anche per la sanità o l’istruzione o le pensioni, ma anche per tutta la struttura amministrativa, ma anche per altre spese discrezionali di varia natura, oltre agli interessi sui debiti maturati a fronte dell’emissione di titoli. Il tutto non dietro il corrispettivo di un prezzo, ma di un tributo.
Ora se lo Stato prende il 50% di ciò che produci, sei disincentivato a produrre, soprattutto se non sei soddisfatto di ciò che hai (o anche che hanno altri, magari più svantaggiati o vinti) in cambio. Teniamo anche presente che già con la tassazione proporzionale chi ha di più paga di più. Con la tassazione progressiva questo fenomeno è accentuato.
Si dice che chi ha di più dovrebbe contribuire di più alla causa comune. Già lo farebbe con una tassazione proporzionale, ma a parte questo, pensiamo a un imprenditore oppure a una persona desiderosa di mettersi in gioco, di far fruttare i propri talenti, di creare un’impresa o farne parte al massimo. Una tassazione giudicata eccessiva li spingerà a emigrare o a fermarsi, a non crescere. Le imposte sono soldi destinati ad altri impieghi, quelli gestiti dal robusto corpo degli intermediari burocratici. Quanti di questi finiscono poi in servizi efficientemente ed efficacemente svolti e quanti si disperdono nella burocrazia o in spese improduttive e inutili? Tutti questi enti sono davvero necessari e rispondono al problema della diseguaglianza?