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Lo stupore delle prese elettriche

Diseguaglianze inevitabili e in parte giuste.

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Da “L’intelligenza del denaro” di A.Mingardi.

Le diseguaglianze non scompariranno mai, ma il progresso economico ne alleggerisce il peso man mano che sempre più cose sono a disposizione di tutti. (Non ho la Ferrari o la Mercedes ma ho un’auto anziché solo una bicicletta. Non per motivi ecologici, ma in base a quanto posso permettermi.)
Il mercato non è una meritocrazia perché non è guidato da un principio predefinito. Le sanzioni della concorrenza per chi gestisce male le risorse sono i fallimenti: tentativi, prove, errori sono il metodo di apprendimento del sistema.
Lo Stato sociale spesso non funziona da sostegno per chi subisce le conseguenze dolorose dei propri fallimenti, bensì avvantaggia un apparato burocratico complesso che redistribuisce le risorse a proprio vantaggio.
L’affrancamento dalla povertà passa dalla crescita economica.

Libero scambio e libera emigrazione consentono a più persone possibili di prendere parte al processo di crescita economica. Sono avversati però da chi, nei paesi ricchi, pensa di combattere le disuguaglianze difendendo i diritti acquisiti. In questo modo le diseguaglianze vengono alimentate.
UN PER CENTO E ROTTI
Il libero mercato produce ricchezza, ma, come diceva Olof Palme, si ritene da molte parti che debba essere redistribuita con equità.
Le Nazioni Unite dicono che l’1% della popolazione possiede il 40% dei beni del mondo e questo 1% sta soprattutto negli Stati Uniti e in Europa.
Anche all’interno dei paesi vi sono diseguaglianze.
La diseguaglianza non è misurata bene solo dal patrimonio: occorre considerare anche le differenze tra ciò che entra in un nucleo familiare (i redditi) e ciò che esce (i consumi.)
In Italia c’è una quota di diseguaglianza rilevante a livello di patrimonio: pochi possiedono molti beni.
Negli Stati Uniti, dove il mercato è più dinamico, la diseguaglianza sembra più rilevante tra i redditi. Là la diseguaglianza sarebbe tra classi medie e top earners. Il reddito mediano delle classi medie sembra che sia cresciuto solo del tre per cento tra il 1980 e il 2005, mentre i top hanno avuto aumenti spaventosi. Dobbiamo però considerare che nel calcolo di queste misure viene considerato il reddito lordo. I top, però, sono i più tassati, e quindi il loro reddito netto è inferiore e sono in realtà meno ricchi di quanto appaia. Nel reddito non sono considerati i trasferimenti pubblici come gli assegni familiari, i sussidi di disoccupazione, le cure mediche, le prestazioni pensionistiche, i crediti di imposta e così via. Considerandoli, è chiaro che il reddito (la quantità di cose che si possono fare o comprare con il proprio reddito) aumenta rispetto a quanto appare a prima vista.
Non solo. Si prende il reddito mediano perché così si considera proprio chi sta nel mezzo e non si distorce la misurazione come si farebbe coi redditi medi, che sarebbero falsati dal peso assunto dai redditi più elevati. Però dividiamo i redditi in gruppi, come ha fatto Edward Conard. Scopriamo che il reddito mediano dei maschi bianchi, dei maschi non bianchi, delle donne bianche e delle donne non bianche è aumentato di percentuali a doppia cifra. Altro che 3%. Cosa è successo? Che molti che stavano nelle file dei redditi bassi hanno alzato il loro livello. Il reddito mediano non è aumentato molto perché sono molte di più le persone che ne usufruiscono. Quindi si sono arricchiti sia i top che gli ex medi che gli ex poveri. Dal 1980 al 2005 sono stati creati 40 milioni di posti di lavoro che prima non c’erano e questa globalizzazione interna ha portato, per esempio, le donne non bianche a godere di un reddito di 16000 dollari l’anno anziché di 10000, che è comunque poco, ma sono soldi che venticinque anni prima non potevano pensare di guadagnare.
E’ vero che c’è chi guadagna di più e chi di meno, come c’è chi nasce nel 1990 e chi nasce nel 1920, chi nasce in Europa e chi nasce in Africa, chi vive in un ambiente che spinge all’istruzione e alla laurea e a lavori più qualificati e chi no. Questo fa parte della lotteria della vita. Pensiamo però che oggi il figlio di un notaio e il figlio di un netturbino in Italia probabilmente fanno una vita migliore (ambedue) e meno diseguale tra di loro rispetto a qualche decennio fa.
Il reddito non ci serve per sé, ma per condurre il tipo di vita che vogliamo. I consumi di oggi dei più poveri non sono paragonabili a quelli dei poveri di ieri e probabilmente anche a quelli dei ricchi di ieri l’altro.
Il sistema di mercato lascia aperte le discussioni sulla diseguaglianza e sulla povertà relativa, ma non quelle sulla povertà assoluta.

Alan Reynolds (nel libro Income and Wealth) ha mostrato come nel 2001 le famiglie che componevano il quintile più povero avessero in buona parte a disposizione beni necessari alla vita di tutti i giorni, a differenza che nel 1971.
Dire che i ricchi diventano più ricchi a spese di tutti gli altri è ipocrita. Esiste una maggiore libertà di scelta nel momento in cui si creano anche nicchie di mercato. Esiste la Ferrari ed esiste la Yaris. La differenza può dirsi di prestigio sociale, forse, ma è molto diverso avere comunque un’auto da quella che può esserci tra averne una e non avere niente per motivi legati al reddito. Le diseguaglianze, quindi, continuano a esserci, ma forse sono solo meno importanti, grazie ai progressi dati dal mercato.

A UTOPIA LA DISEGUAGLIANZA E’ DI CASA
Ogni persona ha talenti, capacità, bisogni, preferenze, caratteristiche fisiche, caratteristiche psicologiche, pregi, difetti, diversi. E’ inevitabile che, in quanto diversa da un altro, venga percepita come diversa dagli altri, e possa risultare più di successo o più ricca. Fermo restando che anche il concetto di ricchezza o di successo possono essere visti in modo diverso dalla società piuttosto che da quella persona.
La diseguaglianza nei risultati quindi non ha niente di scandaloso, purché le persone siano messe in condizione di esprimere loro stessi e i propri talenti. Per fare questo occorrono regole del gioco certe e assenza di tutele e protezioni che impediscano, per esempio, la concorrenza del nuovo venuto.
Anche nei paesi cosiddetti egualitari la diseguaglianza è di casa. Basti pensare alla figlia di Chavez o ai possedimenti dei gerarchi nazisti o dei potenti sovietici.
Non sono mai esistite società di eguali. Le società primitive erano gerarchiche.Trotzkii diceva che i potenti nell’Unione Sovietica avevano auto e appartamenti che non avevano i più poveri. Era il potere politico a decidere come razionare i beni e a chi distribuirli. La diseguaglianza era tra chi apparteneva al potere politico e chi no.
La Repubblica di Platone non era una società di eguali, ma una società divisa in tre classi rigidamente determinate.
Un mondo senza proprietà e senza denaro, come in Star Trek, è organizzato gerarchicamente.
Non c’è società senza divisione del lavoro. Possono non esserci differenze nei premi in denaro, ma ci possono essere altri tipi di disuguaglianza, come quelle legate allo status o al potere. Anche la stessa uguaglianza nei premi in denaro o nelle retribuzioni può determinare la ritrosia da parte dei più meritevoli, dei più bravi, di chi si impegna di più e vede che non beneficia di riconoscimenti diversi: il rischio è che, in assenza di alternative, si lasci andare e la società si appiattisca e diventi poi più povera.
Utopia fa rima con gerarchia: da chi non lavora non mangia si passa a chi non si sottomette non mangia.
Mentre il mercato non obbedisce ad alcun principio nel produrre diseguaglianze, l’utopia sì ed ecco che il capo “uguale più uguale degli altri” può essere il filosofo, il capo religioso, il leader del partito o del movimento.

LO STIPENDIO DI IBRA
Il valore d’uso differisce dal valore di scambio.
Il talento di Ibra è scarso (nel senso che è difficile trovare sul mercato un calciatore simile a lui) e quindi gli viene riconosciuto un valore. Ma anche la domanda conta e quindi due calciatori di pari livello possono avere prezzi diversi.
Ibra produce anche incassi e merchandising e risultati. In ogni caso se il proprietario della squadra avrà sbagliato la sua valutazione e i risultati non saranno soddisfacenti, pagherà coi suoi soldi. Tra l’altro Ibra con le sue tasse serve molto alle casse dello Stato.
La libertà di cercare di assumere qualcuno per qualsiasi motivo per qualsiasi prezzo equivale alla libertà di scegliere o di rifiutare un qualsiasi lavoro per un certo salario. Si tratta in ambedue i casi di libertà individuale.
Un aspetto da considerare è quello del rapporto di agenzia, tra i manager e gli azionisti. Per Ibra si sa chi paga e chi è pagato. Nelle grandi aziende dove l’azionariato è disperso i manager sostanzialmente usano i soldi altrui per pagare se stessi e i loro dipendenti. Tentativi per risolvere il problema ci sono stati: consiglieri indipendenti, pagamenti a successo, stock option. Non sono pienamente riusciti. Del resto fissare tetti massimi è una misura ridicola perché toglie la libertà di impresa di valutare una professionalità e spinge all’adozione di diversivi come i pagamenti in natura o altri tipi di benefit. Inoltre spinge a far sì che la persona in questione si sposti in un paese dove tali tetti non esistono.

MERITOCRAZIA?

L’unico merito premiato dal mercato è quello di avere avuto successo presso i consumatori.
In Italia il merito è stato bloccato da: scatti di anzianità, normative ugualitarie, orari uguali, assenza di retribuzioni dipendenti dalla produttività e diverse tra dipendenti diversi, livelli e qualifiche determinati da contratti nazionali uguali per tutte le imprese del settore (se esiste nel momento in cui è stato fatto il contratto,) barriere all’entrata, ordini, abilitazioni, esami, tariffe minime e massime (nei servizi professionali.)
Se manca il merito è perché manca la cultura del mercato: la libertà di farsi scegliere è limitata per lavoratori, imprenditori, professionisti.
Gli anni sessanta e settanta hanno prodotto lotte e leggi volte ad evitare discriminazioni fondate sul salario. Chi si impegna di più o ottiene più risultati non ha di più e non può averlo. Chi accetterebbe di avere di meno in cambio di un salario inferiore non può averlo. Chi vorrebbe farsi la sua pensione e andare in pensione qunado vuole non può farlo. In effetti in Italia vale il principio secondo cui chi si impegna di più e ottiene risultati non è (necessariamente, legalmente, sempre) premiato dal mercato: in questo senso manca la meritocrazia.
In sé il mercato non premia i più bravi secondo un criterio guida come a scuola, dove esistono dei principi ben definiti e delle valutazioni che seguono quei principi. Il mercato premia chi…ha più successo sul mercato, indipendentemente dalle motivazioni e dalle valutazioni. In sé un’organizzazione burocratica potrebbe anche essere migliore di una imprenditoriale, proprio perché risponde a degli obiettivi chiari.
Il segreto del capitalismo non è il merito, ma la competizione.
Il problema della burocrazia pubblica è che è monopolista: né gli azionisti né i consumatori possono dirle niente, ma devono prenderla così come è. I servizi offerti sono quelli, hanno quei prezzi e gli acquirenti non hanno alternative nella scelta. Chi non è soddisfatto può andarsene oppure protestare, ma i funzionari tecnici burocrati resteranno al loro posto perché il processo di voto o di protesta è lungo, lento, farraginoso, non sempre disinteressato a prendere il posto del burocrate vecchio per diventare un burocrate nuovo. Il problema è che i burocrati sono indispensabili per chi vuole governare: senza di loro non si esercita la vigilanza bancaria, non si danno i documenti anagrafici e così via. I burocrati dipendono dalla fiscalità e sono un blocco sociale rigido rispetto agli shock esterni: non posso andare a farmi fare un documento all’Aci se l’ente che lo emette è l’Anagrafe. Può cambiare un dirigente, ma il blocco è monolitico.
L’impresa di mercato è invece soggetta costantemente a shock esterni.
Prendiamo i dirigenti di un’impresa. Non è detto che il mercato premi quelli bravi verso il personale, ad esempio. Premierà chi produce risultati. Piuttosto una persona di talento non vorrà stare in un ambiente insoddisfacente. Questo è un risultato possibile: la libertà di farsi scegliere potrebbe portare i talenti nell’impresa organizzata meglio, e quindi sarà questa a sprecare meno risorse e a vincere alla lunga.
Le aziende potranno scegliere di apprezzare il merito, di pagargli stipendi più alti, di cercarlo, di organizzare attorno a lui l’impresa, ma semplicemente per poter essere migliore dei concorrenti: è la competizione a far sì che sia privilegiato il merito. E’ l’azienda che può essere meritocratica, è chi cerca lavoro che può cercare appositamente aziende meritocratiche o meno (e poi non lamentarsi se invece ha preteso meritocrazia dove non c’era senza informarsi prima di scegliere,) ma il mercato in sé è solo un processo e non distingue tra chi merita e chi no.
SOCCORRERE I VINTI
La liberta di scegliere e di essere scelti fa parte del mercato. Questo sistema di cooperazione però non salva dai fallimenti. Esistono tante scelte sbagliate fatte da tutti. Alcune possono essere fatte nel momento sbagliato e segnare un bel pezzo di vita. Per esempio il voto a un esame incide su quello di laurea e questo sulle opportunita lavorative. Il quando si sbaglia può essere più rilevante del quanto si sbaglia.
Le imprese che sbagliano e falliscono non devono essere protette perché altrimenti verrebbe meno l’opportunità di apprendimento. Se non potesseo fallire gli imprenditori peggiori non sarebbero puniti e potrebbero non prestare attenzione neanche alla gestione delle risorse umane. Non ci sarebbe nessuna differenza tra uno stile imprenditoriale o manageriale accentratore che non lascia nessuna opportunità e autonomia alle persone che ricoprono ruoli inferiori e uno stile più orizzontale. Non ci sarebbe nessuna differenza tra imprese che trattano male le persone e quelle che spingono a svilupparne i talenti. Non sappiamo quale delle due fallirebbe, ma se tutti sanno che saranno salvati dal fallimento, l’incentivo sarà a mantenere lo status quo, a non migliorare, a non cercare alternative. Inoltre lo stesso sistema delle imprese tenderà a uniformarsi. Anche i dipendenti non saranno stimolati a cercare il cambiamento, anche perché non ci sarà neppure sul mercato un’offerta varia di imprese diverse: tanto alla fine gli errori non si pagano e tutti hanno la sicurezza di continuare a gestire la propria impresa o di lavorarci.
A fronte di un’impresa che chiude ci sono però dei lavoratori che restano senza impiego.
Lo Stato sociale sarebbe una specie di grande assicurazione contro i rischi di fallimento. Ora, in effetti non tutti i fallimenti sono meritati (un dipendente non è necessariamente responsabile del fallimento di un’impresa.) Inoltre, date le diseguaglianze dovute anche alla lotteria della vita, è opportuno che certi servizi necessari come l’istruzione e la sanità siano dati a tutti, anche agli svantaggiati.
Il problema è che le opportunità hanno anche un costo e lo Stato non dispone di risorse proprie.
Un’assicurazione funziona così: tu paghi un prezzo. I soldi raccolti vengono investiti dalla compagnia assicurativa in modo da assicurarsene un profitto. Nel caso capiti l’evento coperto dall’assicurazione, questa ti rimborsa. In certi casi, come per l’rc auto, le assicurazioni sono obbligatorie, altrimenti sarebbe molto improbabile riuscire a coprire tutti gli incidenti. Il fatto è che le assicurazioni richiedono un prezzo, rimborsano eventi che ci siano accaduti contro la nostra volontà e non gestiscono l’ospedale in cui andiamo a curarci o il carrozziere che ci ripara la macchina. L’assicurazione, inoltre, compete in un mercato e pagherà per i suoi errori.
Lo Stato invece mette quanto raccoglie in unico pentolone, gestisce i servizi di cui abbiamo bisogno (ospedali ecc: è lui che sceglie di costruirli, quanta gente impiegare ecc.,) opera in regime di monopolio: se non ci piacciono i suoi servizi non ci resta che emigrare.
Inoltre per svolgere i servizi lo Stato si serve di un apparato burocratico composto da chi coordina i fattori di produzione, prende decisioni su come fare svolgere questi servizi, si assume compiti di certificazione e di valutazione. Queste persone tenderanno ad aumentare il proprio potere e i propri compiti. Queste persone non sono coloro che offrono il servizio, come sono invece i medici o gli insegnanti. A queste persone non paghiamo un prezzo in funzione del servizio svolto, quindi possono operare in modo opaco, se vogliono. Inoltre operano in monopolio, quindi sono difficilmente sostituibili.
Così ecco che la pressione fiscale aumenta e con i soldi delle imposte e delle tasse lo Stato cerca di coprire le spese per la difesa e la giustizia, ma anche per la sanità o l’istruzione o le pensioni, ma anche per tutta la struttura amministrativa, ma anche per altre spese discrezionali di varia natura, oltre agli interessi sui debiti maturati a fronte dell’emissione di titoli. Il tutto non dietro il corrispettivo di un prezzo, ma di un tributo.
Ora se lo Stato prende il 50% di ciò che produci, sei disincentivato a produrre, soprattutto se non sei soddisfatto di ciò che hai (o anche che hanno altri, magari più svantaggiati o vinti) in cambio. Teniamo anche presente che già con la tassazione proporzionale chi ha di più paga di più. Con la tassazione progressiva questo fenomeno è accentuato.
Si dice che chi ha di più dovrebbe contribuire di più alla causa comune. Già lo farebbe con una tassazione proporzionale, ma a parte questo, pensiamo a un imprenditore oppure a una persona desiderosa di mettersi in gioco, di far fruttare i propri talenti, di creare un’impresa o farne parte al massimo. Una tassazione giudicata eccessiva li spingerà a emigrare o a fermarsi, a non crescere. Le imposte sono soldi destinati ad altri impieghi, quelli gestiti dal robusto corpo degli intermediari burocratici. Quanti di questi finiscono poi in servizi efficientemente ed efficacemente svolti e quanti si disperdono nella burocrazia o in spese improduttive e inutili? Tutti questi enti sono davvero necessari e rispondono al problema della diseguaglianza?

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