there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

È meglio privatizzare che nazionalizzare

| 0 commenti

Da “Dieci comandamenti dell’economia italiana”

Ci sono enti pubblici economici, municipalizzate, completamente di proprietà pubblica. Sono sotto controllo pubblico anche se formalmente sono di diritto privato.
Ci sono le società in cui esistono soci privati che apportano know how o contratti di servizio (Fincantieri, Poste, Enav). La governance è condivisa ma l’ultima parola ce l’ha l’ente pubblico.
Esistono società in house che possono operare in settori potenzialmente limitati ma con definizioni vaghissime tanto che gli enti locali possono operare attraverso società in house.
Nelle società chiuse alla disciplina di mercato, quindi non quotate, il socio di maggioranza può fare il bello e il cattivo tempo.
Nelle società quotate esistono obblighi di trasparenza e di protezione delle minoranze e queste possono far sentire la propria voce come quando sono state non approvate le clausole etiche proposte dal Mef. In società come Terna, Eni, Enel, Finmeccanica lo stato ha la maggioranza ma sono società che competono sui mercati di prodotto e cattive performance ridurrebbero il valore delle performance.
Ci sono società privatizzate del tutto attraverso opv con quotazione o vendita diretta a un investitore: Telecom o Autostrade. Ci spossono essere relazioni di concessione tali per cui il mercato è molt oregolamentato. Oppure ci sono golden power con cui si assegnano poteri speciali allo stato.
Poi ci sono società amministrtate dalla mano pubblica, con commissari.
Perché la proprietà pubblica delle imprese non è benefica per l’economia e la società?
«la libertà di stampa è un inganno se l’autorità pubblica controlla tutte le cartiere e le tipografie»8. La logica è lineare: la proprietà statale dei mezzi di produzione soffoca anche le libertà civili e politiche perché il cittadino è ostaggio economico del governo che a suo piacimento, quand’anche mantenesse formalmente un simulacro di processo democratico, potrebbe ricattare economicamente ogni singolo individuo o constituency.
tanto più in un Paese sono presenti una solida tradizione liberal-democratica, istituzioni imparziali e funzionanti e un vivace settore privato, tanto meno la proprietà pubblica dei mezzi di produzione sortisce effetti negativi.
Alla Rai sono stati epurati o garantiti personaggi, autori, comici a seconda della loro amicizia con il governo di turno. Esiste il pluralismo ma diventa un problema se il principale concorrente è  capo del governo. I governi, anche locali, possono minacciare di togliere ai giornali la pubblicità delle imprese pubbliche se pubblicano articoli negativi.
in certe circostanze, i sindacati forti esercitano pressioni per notevoli incrementi salariali. Il governo imprenditore accomoda tramite le aziende a partecipazione pubblica le richieste di aumenti e di posti di lavoro, in parte attraverso alti costi dei servizi, in parte alimentando il deficit pubblico, contribuendo così a creare alta inflazione. Le pressioni salariali che si ribaltano sulle aziende private, vengono compensate da misure protezionistiche per metterle al riparo dalla concorrenza internazionale e attraverso onerosi contratti pubblici: «La combinazione di espansione monetaria e pressione dei salari genera inflazione, perdita di competitività e disavanzi della bilancia commerciale. Questi vengono corretti da successive svalutazioni del cambio, che a loro volta erodono il
potere di acquisto dei salari inducendo nuove pressioni salariali»12. È la storia dei nostri anni ’70 e ’80, la tempesta perfetta.
Perché i manager di un’azienda pubblica dovrebbero decidere di fare pubblicità sui giornali in base alle esigenze dei governi di turno? Perché sono nominati dai governi di turno. Questo ha effetti anche sulla concorrenza.
Più grave comincia a essere la situazione quando gli investimenti sono rilevanti. Se non si chiude o ristruttura uno stabilimento che continua a registrare pesanti perdite per non inimicarsi il sindacato di riferimento o non suscitare proteste degli elettori di un determinato collegio, allora il danno è doppio: alle casse sociali (e quindi in ultima istanza del contribuente) e ai nuovi entranti, quei lavoratori che avrebbero potuto essere assunti altrove o quelle imprese che avrebbero potuto fornire a miglior prezzo e qualità il prodotto o il servizio fornito dallo stabilimento in perdita. Lo stesso accade in positivo quando invece l’impresa decide di fare investimenti politicamente motivati ma di incerta redditività, sia perché viene assunto più personale del necessario concentrandolo in determinati collegi elettorali, sia per la natura stessa dell’investimento, che magari non è nelle corde o nella missione della società ma risponde a logiche diverse, sia quando si decidono investimenti da parte di chi si occupa di poste in società aeronautiche sia quando chi gestisce il risparmio postale compra quote di minoranza di aziende di telecomunicazioni.
Peggio ancora quando i manager sono scelti solo per fede politica e non hanno competenze. Le racocmandazioni diventano un morbo che infetta l’azienda dall’impegato al dirigente. La meritocrazia e il bilancio vanno in malora. Un esempio è l’Atac.
Laddove le imprese pubbbliche competono sul mercato del prodotto e dei capitali, hanno una proiezione internazionale e azionisti importanti, devono essere trasparenti. Se hanno cda con consiglieri indipendenti i difetti della proprietà pubblica si attutiscono. Esistono società in cui le scelte del top management sono feilici e dove i cda sono formati da persone qualificati. Amici, magari, ma competenti, e che producono risultati decenti.
Più ti allontani dal leviatano meglio è. Ma attenzione: nel 2018 un governo ha convocato le maggiori società a partecipazione pubblica chiedendo più investimenti e assunzioni (specificando le percentuali destinate al sud= volendo affidare alla cdp la regia degli investimenti stessi.
Un elemento da non sottovalutare e che abbiamo appena accennato è quello del mercato del prodotto. Più c’è concorrenza meglio è, mentre nelle situazioni di monopolio o oligopolio l’impresa pubblica risulta spesso particolarmente inefficiente. A questo punto del discorso sorgerà la classica obiezione che nel caso in cui vi siano monopoli cosiddetti “naturali” è meglio che la proprietà sia pubblica in quanto il privato tenderebbe a estrarre sovraprofitti con diminuzione del benessere complessivo (che è la classica osservazione che gli economisti muovono al monopolio). Orbene, prima di tutto bisogna intendersi su cosa sia questo benedetto “monopolio naturale”, inteso come quella situazione in cui il sistema più conveniente e in alcuni casi unico per fornire il prodotto o il servizio sia in regime di monopolio. A tal proposito si fanno in genere gli esempi delle infrastrutture: poiché è impensabile e antieconomico che sulla dorsale appenninica ci siano 2 o 3 operatori che gestiscono reti ferroviarie diverse, bisogna rassegnarsi ad averne uno solo15. In tale ragionamento bisogna tener conto di tre fattori: l’ideologia, la tecnologia e la sostituibilità del prodotto. L’ideologia porta ad allargare il concetto di monopolio naturale oltre il ragionevole. Per anni si è teorizzato che il servizio radiotelevisivo fosse tale (quando ovviamente in altri Paesi già così non era), mentre appena la legislazione lo ha permesso sono prima spuntate le radio private e poi le televisioni. Insomma l’ideologia tende ad affermare, alla Forrest Gump, «Monopolio è chi monopolio fa» (grazie alle baionette del legislatore). Il secondo elemento è la tecnologia. Proprio parlando del servizio radiotelevisivo, nel corso degli anni non solo l’introduzione delle pay-tv e delle tv via cavo hanno rivoluzionato l’offerta, ma Netflix e Amazon nonché internet hanno mescolato la fruizione visiva di contenuti. Chi voleva vedersi un film a casa 30 anni fa poteva solo sperare che i 6-7 canali esistenti trasmettessero qualcosa di buono oppure doveva comprare o noleggiare una videocassetta. Oggi c’è solo l’imbarazzo della scelta. Infine la sostituibilità, anch’essa aiutata dalla tecnologia. Pensiamo alle telecomunicazioni e all’importanza che la rete aveva fino a qualche decennio fa quando Sip gestiva un “monopolio naturale”. Oggi le telefonate via cavo sono molto ridotte e le cabine telefoniche quasi sparite. I cellulari, Skype, WhatsApp, Zoom, Facetime, sms, messaggi vocali, le email e le reti a fibre ottiche posate da concorrenti di Telecom hanno offerto molte alternative alla tradizionale cornetta. E, in un altro contesto, l’Alta velocità è diventata concorrente
degli aerei a corto raggio ed è a sua volta un servizio con due concorrenti, Trenitalia e Italo. Insomma, prima di dichiarare con granitica certezza che un monopolio è naturale bisogna riflettere. Inoltre, quel che è importante è da un lato la regolazione dei monopoli, dall’altro la concorrenza che si può esercitare utilizzando determinate infrastrutture: la competizione Trenitalia-NTV sui binari di RFI ne è un esempio lampante. Semmai si tratterebbe di separare la proprietà dei binari da quella dei treni per togliere dubbi di favoritismi; d’altro canto, il possessore delle azioni può essere benissimo un privato, come Terna, operatore che gestisce le reti italiane per la trasmissione dell’energia elettrica il cui capitale è per il 70% in mano al mercato. E il monopolio privato? Sicuramente è anch’esso inefficiente, perché produce gli stessi effetti negativi sul benessere complessivo e a danno dei consumatori. Tuttavia in Italia di monopoli privati ce ne sono assai pochi, la quotazione in borsa almeno assicura il controllo da parte del mercato dei capitali e maggiore trasparenza e infine se è pur vero che nei confronti del monopolista privato l’Autorità di regolamentazione ha i consueti problemi di “cattura” del controllore da parte del controllato (il quale avendo tutte le informazioni tiene per così dire in ostaggio il regolatore), i suoi vertici non sono nominati dagli imprenditori (come invece la politica nomina i controllori delle imprese pubbliche) e, se ne ha il nerbo, può mantenere un atteggiamento più vigilante.
La concorrenza non è leale. Le imprese pubbliche hanno posizioni di vantaggio. Sono predilette dai creditori. Non falliscono. Ricevono aiuti dalle banche. La pressione degli elettori e dei sindacati è irresistibile per il politco che peraltro investe soldi non suoi. In una situazione di crisi banche e fornitori sono più propensi a concedere liquidità, comprare obbligazioni, vendere beni e servizi da chi ritengono che abbia il culo parato.
vendergli beni e servizi. D’altronde, soprattutto per le imprese più grandi, la commistione regolatore-regolato può risultare letale. Pensiamo al trasporto pubblico locale dove il comune è proprietario dell’azienda di trasporti, contribuisce per i servizi da questa fornita e allo stesso tempo ne dovrebbe controllare l’efficienza. Questo non vuol dire che le autorità indipendenti, Antitrust, Consob o Banca d’Italia, non facciano per lo più il loro dovere nei confronti delle imprese pubbliche. Il problema, infatti, sta soprattutto nei ministeri o negli enti locali e nella regolamentazione o nell’attività di controllo che è loro affidata: lì si possono esplicare tutti gli effetti negativi della politicizzazione dell’attività d’impresa. Se ad esempio vediamo un aspetto importante come la liberalizzazione dei mercati, si nota chiaramente che quanto più la proprietà dell’impresa dominante è rimasta pubblica, quanto più si è tardato a liberalizzare il mercato e in genere ciò è avvenuto sulla spinta europea. Pensiamo alle poste, al trasporto ferroviario o al trasporto pubblico locale come tre esempi eclatanti.
Poi c’è il problema della corruzione. L’impresa pubblica è per sua natura corrompibile. Ricordiamo tangentopoli. Anche i dirigenti privati possono corrompere ma a fare la guardia ci sono anche i proprietari di impresa.
Aiuti di stato. Esiste il tfue. Gli Stati non emanano misure contrarie alle norme dei trattati e non possono falsare il gioco della concorrenza.
«le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata». Come si diceva poco sopra, è sopportabile la presenza di un unico operatore ferroviario sulla dorsale appenninica cui sia assicurato un regime di monopolio a garanzia del servizio di trasporto pubblico, dove è impensabile ci sia all’origine un mercato concorrenziale, ma ciò non può in ogni caso essere di ostacolo alla possibile formazione di un mercato che sia invece concorrenziale nel momento in cui una diversa impresa voglia competere con l’unica esistente. E, naturalmente, ciò vale solo in relazione ai «servizi di interesse economico generale».
Le privatizzazioni fatte a partire dagli anni 80 sono state fatte in stato di necessità prima di tutto, poi per liberalizzare l’economia.
Dal 1980 al 2005 sono stati i paesi dell’Europa continente e la Gran Bretagna a privatizzare. In seguito gli Stati Uniti e i Bric.
Prima venivano cedute partecipazioni azionarie.
Dopo, come in Cina, si è permesso alle imprese di aumentare il capitale sociale emettendo azioni per investitori privati e quindi diluendo la presenza dello stato
I Bric hanno avuto forte presenza di campioni nazionali e aziende statali e questo ha portato a una marcia indietro. Inoltre il rialzo dei prezzi del petrolio negli anni duemila. Poi a seguito delle crisi finanziarie con interventi dell ostato nelle banche.
Alcune delle più grandi oil companies sono controllate al 100% dallo stato.
Le privatizzazioni in Italia.
L’IRI era in perdita e aveva fatto lievitare il debito pubblico. Gli anni 80 sono stati un decennio di dliapdiazione dele risorse pubbliche e di corruzione delle aziende statali. Inoltre occorreva adeguarsi ai trattati sul libero mercato e alla disciplina degli aiuti di stato.
A inizio anni 70 le partecipazioni pubbliche in Europa oscillano tra il 12 e il 17%. La Germania ha una quota stabile tra il 19170 e il 2000. La Francia ha picchi di imprese pubbliche nel 1985 e poi privatizza fino al Duemila. In Italia il boom delle privatizzazioni si ha a fine anni 90.
Il. Regno Unito privatizza davvero e in mercati già concorrenziali, negli anni 80. La partecipazione pubblica si riduce di dieci punti percentuali.
Il contributo al Pil delle imprese partecipate nel 2010 è il 4,7% contro il 18% del 1991. Le privatizzazioni sono state 114 e hanno portato 152 miliardi di proventi.
Però spesso sono state privatizzazioni senza cessione di controllo ai privati. Spesso si sono cedute quote minoritarie o anche quote di maggioranza ma mantenendo una minorazna di controllo in mano pubblica. Ancora, si aveva il passaggio di quote azionarie dal Tesoro a enti controllati dal settore pubblico (come l’uso di cdp attraverso cui si mantiene il controllo di Eni e Enel).
Tra il 1993 e il 2001 in Italia si sono dismesse quote pari all’11,9% del pil, quasi quanto l’Inghilterra e più degli altri paesi europei. Se vediamo le privatizzazioni effettive o sostanziali (quelle in cui il socio pubblico ha ceduto l’intera partecipazione o ha rinunciato al controllo) l’Italia si colloca al penultimo posto della classifica, davanti alla Germania, ma dietro Francia, Spagna, Inghilterra, con un ammontare pari al 3,7% del pil.
In Spagna e Inghilterra quasi il 100% delle dismissioni ha rappresentato cessione di controllo ai privati. In Italia solo il 35%.
In Italia si è privatizzato per fare cassa e non per cedere il controllo, anche perché i settori non erano stati prima liberalizzati.
Si è passati dallo stato imprenditore allo stato controllore. Si sono create autorità indipendenti d icontrollo che sono stati dotate di compiti di regolazione neutrale in ambiti settoriali ritenuti sensibili.
Megginson, 2017, dimostra che la diminuzione della presenza dello stato nella gestione delle imprese ne riduce l’efficienza su tutti i fronti,
Tutti gli studi relativi alla performance delle imprese documentano miglioramenti significativi dopo che le società sono state vendute allo stato.
La proprietà statale ha un significativo e pernicioso impatto sugli investimenti e le politiche finanziarie dell’impresa. Solo gli investimenti dei fondi sovrani, che adottano criteri di mercato e in genere non interferiscono nella gestione, generano almeno nel breve periodo dei risultati benefici. La proprietà pubblica delle banche ne riduce l’efficienza e tutti gli studi mettono in luce gli effetti distorsivi e i costi economici dei salvataggi pubblici.
Privatizzare migliora la governance delle imprese.
La presenza dello stato incide negativamente sul costo del debito e sul corporate value.
La proprietà statale delle imprese è associata a un costo più alto del debito salvo in periodi di crisi dove la garanzia statale implicita è vista come un elemento positivo.
Le imprese a elevata partecipazione statale investono molto meno delle imprese private e lo fanno con modalità meno reattive alle mutevoli opportunità di investimento e più legate ai vincoli finanziari interni. L’acqua pubblica produce acquedotti colabrodo e mancanza di investimenti.
Gli investimenti politicamente motivati hanno effetti negativi sulle aziende.
Gli aeroporti privati sono più efficienti, fanno più profitti, hanno percentuali di ricavi più alte dai servizi non aeroportuali rispetto agli aeroporti pubblici o a gestione mista.
Anche nel settore degli idrocarburi le compagnie nazionalizzate hanno più sprechi e meno redditività di quelle private.
In Italia la privatizzazione ha avuto incidenze positive sulle performance e sui margini reddituali. Però è difficile calcolare l’impatto sulle utilities perché l’aumento di profittabilità può essere dovuto ad aument idi tariffe (dovute a scarsa liberalizzazione) invece che a recuperi di efficienza dal lato dei costi. Può essere che ci sia stata selezione inversa: si sono privatizzate le imprese con migliori prospettive di crescita.
Le privatizzazione italiane hanno portato a un miglioramento della performance delle imprese oggetto di dismissione, soprattutto se interamente privatizzate e quotate.

Lascia un commento