Leggiamo e volentieri riassumiamo.
Facciamo mente locale sulla questione euro che tanto appassiona chi è costantemente alla ricerca di capri espiatori su cui scaricare anche le proprie colpe.
UNO
L’euro non c’entra.
La crisi mediterranea non è dovuta all’euro, ma è la conseguenza di debito pubblico (l’accumulo di decenni di politica fiscale sbagliata), di poca crescita (dovuta ad una politica fiscale sbagliata), e di un mercato finanziario che considera sempre più rischioso fare credito a certi stati che perseverano in questa politica fiscale sbagliata. Una politica fiscale che ha speso di più di quanto tassava, drogando temporaneamente la crescita con una spesa pubblica eccessiva, e con investimenti pubblici che evidentemente non hanno lasciato traccia come maggiore crescita.
Tra il 1990 e il 2012 i due Paesi dell’eurozona che hanno perso meno quote di export nel totale mondiale sono Spagna e Italia. Quindi la crisi non è dovuta a una “moneta forte che ha fatto calare le esportazioni.”
I capri espiatori esterni (subprime, speculatori, banche, agenzie di rating, euro, Germania, cosa vi pare) servono solo a nascondere i veri problemi e a non chiamare in causa i veri responsabili.
Non è vero che la politica monetaria possa funzionare solo sotto il diretto controllo dei governi.
La politica monetaria non c’entra con l’attuale crisi economica.
Stampare moneta a manetta non crea ricchezza e non stimola la crescita.
Il cambio euro – lira è dipeso dalle forze di mercato ed è dovuto anche all’ammontare del debito pubblico italiano. 2500 miliardi di debito in lire sono diventati 1300 miliardi di euro anziché 2500, come sarebbe avvenuto nel caso di cambio un euro per mille lire. Tra l’altro affermare che il cambio avrebbe dovuto essere un euro uguale mille lire avrebbe significato una valuta più forte.
La lira era stata una moneta forte fino ai primi anni Sessanta, poi è diventata la moneta delle svalutazioni. L’euro ha impedito di svalutare costantemente la moneta e questo ha portato a una riduzione del rischio percepito dagli investitori. (Chi presta soldi e li riceve svalutati subisce una perdita di valore in termini di potere di acquisto.) Quindi l’Italia ha goduto di tassi di interesse favorevoli a seguito dell’ingresso nell’euro.
E’ la politica fiscale italiana che fa lentamente perdere competitività e crescita alla propria economia.
Se la bce decidesse di monetizzare il debito, questo si spalmerebbe su tutta l’Europa tramite un euro svalutato e più inflazione per tutti.
Monetizzare il debito significherebbe avere una moneta (l’euro) svalutata. Uscire dall’euro significherebbe avere una moneta (la lira) svalutata. Per i creditori cambierebbe poco: resterebbero comunque fregati e perderebbero fiducia nel Paese o nella regione che svalutano. Quindi chiederebbero tassi di interesse più alti a fronte di nuovi prestiti, sempre che vengano concessi.
La crisi economica attuale ha le sue radici in shock esterni, ma ha comunque ridotto le entrate fiscali per i vari Paesi e quelli che avevano un debito pubblico maggiore si sono trovati in difficoltà.
La ricetta per la ripresa non sono le opere pubbliche, perché la perdita di competitività e le imprese che chiudono non sono dovute a mancanza di infrastrutture.
La spesa pubblica la devi finanziare “o con ulteriore indebitamento (e siamo arrivati al capolinea per il debito pubblico) o sottraendo risorse tramite ulteriori tasse (e siamo arrivati al capolinea anche qui) agli stessi cittadini che vorresti stimolare con una spesa pubblica.”
Il mantra “prima il rigore fiscale e poi la crescita” va declinato per bene. Fare cassa oggi con ulteriori tasse è recessivo.
Sperare in una ripresa di qualche locomotiva alla quale agganciarsi (la Germania, gli Stati Uniti) è illusorio: con la globalizzazione tutti commerciano con tutti e l’industria italiana ha perso competititività a causa di problemi strutturali.
Riformare il mercato del lavoro, fare qualche privatizzazione, promettere di ripagare i debiti della PA è giusto, ma non basta.
“Parte dell’Italia è soffocata da una pressione fiscale insopportabile che non viene minimamente bilanciata da altrettanti servizi pubblici come potrebbe essere in un’economia scandinava. I residui fiscali delle regioni settentrionali parlano da soli, dove la differenza tra tasse pagate e servizi pubblici ricevuti è a livelli di colonialismo. Non è possibile competere in una economia globale con uno svantaggio simile. Queste risorse sono poi redistribuite in maniera disastrosa, finanziando il sottosviluppo delle regioni meridionali anziché la crescita.”
La classe dirigente somiglia all’aristocrazia francese di fine ‘700: gli stipendi dei parlamentari vanno riportati sulla media europea. Analogamente vanno ridotti gli stipendi dei consiglieri regionali. Tutto ciò avrebbe valore simbolico, ma aiutarebbe a guadaganare credibilità verso i mercati finanziari
In una vera struttura federale, non quella inventata dalla Lega, ogni regione trattiene la totalità delle proprie risorse e ha la piena libertà di politica fiscale (per abbassare le tasse). “Questo permetterebbe di eliminare le inefficienze abissali nelle regioni abituate all’assistenzialismo, e consentirebbe alle altre regioni di praticare una politica fiscale adatta per poter competere con il resto d’Europa e del mondo. Il problema del debito pubblico? Dovrà essere ripartito per regioni, anche se questo con tutta probabilità si tramuterà, in alcuni casi, in potenziale default.”
Uno Stato è un ente che offre un servizio (pubblico) in cambio di un prezzo (tasse). Se questo ente si rivela obsoleto e inefficiente, si ristruttura anche smantellandolo.
DUE
Ancora sull’Euro e la Germania, parte 1
Dal 1996 a fine 2009 l’Italia ha usufruito di interessi sul debito inferiori a quelli precedenti. Il risparmio è calcolabile in 50 miliardi, pari al gettito di IRAP e IMU messe insieme. E’ venuto meno il rischio associato alla svalutazione.
http://www.flickr.com/photos/66112502@N05/8561415675/
Il differenziale di inflazione rispetto alla Germania si è ridotto dopo l’introduzione dell’euro, malgrado il livello dell’inflazione in Italia sia stato più alto. Questa riduzione significa, quindi, minore inflazione e maggiore mantenimento del potere di acquisto da parte dei percettori di reddito fisso e dei più poveri. Si sono esauriti gli effetti inflattivi della svalutazione della lira del ’02. L’Italia ha anche beneficiato del passaggio da una politica monetaria discrezionale a una basata sulle regole.
La maggiore competitività tedesca è dovuta a produttività o salari?
La produttività tedesca è la più alta nell’eurozona e il differenziale di produttività rispetto all’Italia è in crescita.
Valore aggiunto per ora lavorata nell’industria, euro correnti (in queste tabelle conta la differenza tra i paesi nei singoli anni e non la time series.)
1996 2001 2006 2011
Germania 33.41 38.21 48.17 53.88
Spagna 23.58 31.72 41.61
Francia 32.08 38.50 44.53 46.75
Italia 23.52 27.55 30.61 33.61
E i salari? Un operaio in Germania ha in un anno un potere d’acquisto mediamente superiore del 40% a quello dell’operaio italiano. Una bella differenza.
Compensazione oraria del lavoro nell’industria, euro correnti a PPA
1996 2001 2006 2011
Germania 19.88 24.05 28.57 30.86
Spagna 15.78 19.19 21.56
Francia 16.71 21.33 24.55 27.95
Italia 13.50 15.43 16.67 19.31
Compensazione annua del lavoro nell’industria, euro correnti a PPA
1996 2001 2006 2011
Germania 29921 35439 42052 44961
Spagna 27349 31848 36071
Francia 26927 32508 36658 41698
Italia 23926 27206 28721 31920
https://www.flickr.com/photos/66112502@N05/8563026736/
Variazione dal 2000 al 2011
Produttivita’ nominale, industria Compensazione lavoro nominale, industria Compet
Germania +41% +21% +20% +4.80
Spagna +76% +48% +28% +2.30
Francia +21% +38% -16% -3.80
Italia +22% +38% -16% -2.50
Il miglioramento della bilancia commerciale tedesca è correlato con l’aumento di competitività.
Il guadagno di competitività è dovuto ad aumenti di produttività e non all’abbassamento dei salari.
Il livello dei salari tedeschi a PPA è superiore a quello di Francia, Italia e Spagna.
https://www.flickr.com/photos/66112502@N05/8561977035/
I lavoratori tedeschi hanno subito una moderazione salariale, ma sono ancora di gran lunga i meglio pagati tra le industrie dei maggiori paesi dell’area Euro.
Non c’è nessun nesso causale dimostrato finora tra surplus commerciale e apprezzamento della valuta nazionale.
Certe cose si potevano valutare prima dell’ingresso nell’euro e comunque dal 1991 in poi era possibile riformare l’economia italiana e renderla competitiva come quella tedesca. I governanti pensavano ad altro, evidentemente.
Se i lavoratori tedeschi non hanno beneficiato degli aumenti di produttivita’ dal 2001 in poi, chi ne ha beneficiato? Le imprese, naturalmente. la quota del lavoro in Germania e’ diminuita ma resta comunque superiore alla corrispondente in Italia e Spagna e solo di poco inferiore a quella francese.
La moneta non ha capacità taumaturgiche.
Se la Germania avesse imposto l’euro come moneta debole per effettuare svalutazioni competitive e far sì che gli altri Paesi importassero da lei, avrebbe dovuto richiedere un’inflazione più alta negli altri Paesi. Questa non può venire dalla politica monetaria e quindi dovrebbero crescere o i salari o l’energia. Tralasciamo questa. Se i salari in Italia fossero più alti che in Germania non si avrebbe però l’altro fenomeno ipotizzato dai Bagnai di turno: la competizione fondata sull’abbassamento dei salari. Se invece i salari sono più bassi non regge l’argomento della svalutazione.
La Germania ha incrementato la produttività negli ultimi quindici anni: ha cioè innovato e organizzato meglio la produzione.
I salari reali in Italia sono cresciuti e più della produttività-
La produttività dell’Italia è ferma da dieci anni buoni.
In Germania invece i salari sono cresciuti meno della produttività, ma hanno comunque salari reali superiori a quelli italiani.
La Germania cresce perché produce meglio e a costi inferiori, pur pagando meglio i propri operai.
I governi italiani hanno buttato al vento i risparmi permessi dal ribasso degli interessi. Segno di un paese con istituzioni corrotte ed una economia pubblica inefficiente.
Bagnai dice che senza l’euro le cose sarebbero andate meglio e cita la teoria delle aree valutarie ottimali. Può avere ragione oppure no. In ogni caso tale teoria non c’entra niente con la crisi dell’euro.
Se gli shock colpiscono sempre un paese solo in modo prevedibile, non sono shock, il cambio nulla può, ed è il paese ad avere problemi economici strutturali da risolvere.
Una Banca Centrale Comune credibilmente indipendente dal ciclo fiscale potrebbe garantire ridotti tassi di inflazione attesi e reali anche a quei paesi che precedentemente alla creazione dell’Area Valutaria avessero scarsa reputazione; questo però richiede vincoli credibili di convergenza fiscale perché, tolta la valvola di sfogo della svalutazione, un paese la cui posizione finanziaria divergesse in modo stabile finirebbe per perdere credito internazionale e ingenerare aspettative di default.
La politica monetaria comune ha funzionato – riducendo i differenziali inflazionistici e soprattutto azzerando gli spread nell’Eurozona. La convergenza della politica fiscale, alla creazione dell’Eurozona era stata demandata agli accordi di Maastricht che richiedevano la soddisfazioni di alcuni parametri fiscali. Questo meccanismo è fallito. La questione prevedibilità è quindi riconducibile a questo punto: era prevedibile che Maastricht fallisse, che i meccanismi di convergenza messi in piedi dall’Eurozona sarebbero stati aggirati e rimasti inattuati da Grecia e Italia ma anche da Francia e Germania? Era prevedibile che l’Italia avrebbe gettato i risparmi derivanti dall’azzeramento degli spread sul finanziamento pubblico nel calderone della spesa pubblica improduttiva, divergendo quindi dai parametri e impedendo alla propria economia quel riaggiustamento, quelle riforme, che invece hanno permesso alla Germania gli incrementi di produttività che abbiamo osservato? Era prevedibile che la Grecia truccasse addirittura i conti pubblici per far credere che essi soddisfacessero i parametri di Maastricht?
L’uscita dell’Italia dall’Euro metterebbe in gravissimo pericolo la sopravvivenza stessa dell’euro e la stabilità del sistema bancario mondiale, col rischio di una crisi finanziaria internazionale potenzialmente devastante.
QUATTRO
Che fine hanno fatto gli squilibri commerciali dell’area euro?
Dal 2012 il saldo delle partite correnti della Germania continua a crescere mentre il disavanzo dei maggiori paesi dell’area euro (fatta eccezione per la Francia) si è invertito. Quindi non c’è relazione di necessità tra gli avanzi commerciali della Germania da un lato e il saldo commerciale del sud Europa dall’altro.
Dal 2009 l’avanzo commerciale tedesco verso i paesi extra-area euro è cresciuto di circa 20 miliardi, mentre nello stesso periodo si è ridotto di circa 20 miliardi quello verso i paesi dell’area euro. di conseguenza, l’incidenza dell’avanzo tedesco verso i paesi dell’area euro sul totale dell’avanzo tedesco e’ drasticamente diminuito: questa ha oscillato attorno al 60% fino al 2010. Oggi e’ al 20%. Gli squilibri commerciali all’interno dell’area euro (nel senso dei flussi, naturalmente) sono quindi in forte ridimensionamento, e il saldo positivo della Germania, e’ sia in aumento, sia dovuto in modo preponderante a un avanzo verso paesi extra-europei.
CINQUE
“Anche le pietre sanno oramai che la stagnazione nella produttività, iniziata nella seconda metà degli anni ’90, è il problema economico centrale del Paese. Uno dei miti che circolano in Italia è che la causa, stricto sensu, sia l’euro. Inteso come passaggio da un sistema di cambi flessibili a uno di cambi fissi. Questa tesi ha ben poco di scientifico.” http://noisefromamerika.org/articolo/euro-domanda-produttivita-viaggio-nel-mito-parte-1
SEI
Euro, domanda, e produttività: un viaggio nel mito. Parte 2
” Un eccessivo apprezzamento iniziale del cambio reale comporta certamente uno shock negativo di domanda. Ma, allo stesso tempo, è plausibile che la compressione della volatilità del cambio nominale che si accompagna all’adozione dell’euro (per giunta dopo un processo lungo anni di integrazione del mercato comune) sia un potenzialmente importante effetto pro-trade.
Per fare un punto quantitativamente rilevante un ricercatore dovrebbe considerare entrambi gli effetti: un “effetto negativo contra trade” (per presunto eccessivo apprezzamento iniziale del cambio reale) da interagire con un “effetto positivo pro trade” (dovuto alla riduzione permanente della volatilità dei cambi intra Unione.)
È plausibile che l’effetto netto sia un forte shock negativo di domanda? Ho molti dubbi (anche se non si tratta di una impossibilità logica). Ancora una volta, il quesito è interessante. Ma richiede, prima di trarre alcuna conclusione, un modello stimato, quantitativo, e con microfondazioni, per misurare con precisione l’interazione dei due effetti sul livello di trade.
Assumiamo pure che l’effetto contra trade dell’euro sia di molto superiore all’effetto pro trade(punto che rimane tutto da valutare con grande rigore e attenzione). Sottolineo “di molto”. Ricordiamo infatti che l’obiettivo finale rimane quello di avere tra le mani uno shock negativo di domanda così forte da riuscire a spiegare un fatto aggregato macroscopico quale la caduta aggregata di TFP in Italia.
Molti sembrano dimenticare che, simultaneamente all’ingresso nell’euro, è successo qualcos’altro di macroscopico in Italia: una riduzione massiccia dei tassi di interesse. Poco importa se la discesa dei tassi sia stato un riflesso di un trend al ribasso mondiale nei tassi a lungo termine oppure un effetto specifico dell’ingresso nell’euro (per una compressione di diverse componenti del premio al rischio). È certamente vero, comunque, che la discesa relativa dei tassi a lungo termine nei paesi della periferia euro (inclusa l’Italia) sia stata decisamente superiore che in altri paesi.
Tutto questo ci consegna un puzzle di estremo interesse: nonostante una così forte contrazione dei tassi di interesse a lungo termine, perchè l’Italia è l’unico tra i paesi della periferia euro che non ha avuto un boom nei primi anni dell’euro (a differenza di Spagna, Irlanda, e in parte Portogallo e Grecia)? Quanto meno questi paesi hanno goduto, per una certa fase, di un boom di consumi e investimenti. In un parola, in Italia, stiamo avendo oggi l’ “hangover” senza avere neanche fatto il “party” la sera prima.
Anche questa mi sembra una possibile, appassionante, ipotesi di ricerca. La mia ipotesi preferita sul perchè l’Italia non sia stata in grado di trarre alcun vantaggio dalla discesa dei tassi di interesse riguarda le imperfezioni finanziarie. Credo quantomeno che troppo a lungo il dibattito in Italia sulle cosiddette riforme strutturali si sia concentrato solo sul mercato dei beni e del lavoro, e pochissimo sul mercato del credito. Una manifestazione drammatica dello sviluppo ancora primitivo dei mercati finanziari in Italia lo stiamo vivendo oggi con la realtà del cosiddetto “credit crunch.”