Ricordo le espressioni scioccate quando dicevo che mi ero iscritto a un corso di avviamento alla corsa. Sembrava che avessi annunciato l’invasione degli alieni. “Un corso di corsa? A che serve? Prendi le scarpe, mettitele e vai a correre!”. “Certo!”, verrebbe da rispondere, “Preferirei non rantolare dopo aver corso venti minuti oppure smettere dopo un mese”. Io mi limitavo a grugnire.
All’inizio eravamo in tre. Il coach può essersi sentito “triste, solitario y final” in quelle serate fredde e buie di gennaio. Però nessuno si è fermato anche perché “chi si ferma alza bandiera bianca di fronte all’acido lattico e non riparte più.”
Io, che ai tempi delle superiori giocavo anche due partite a tennis di fila d’agosto o andavo a giocare a calcio perché lo facevano tutti, ero giunto al punto in cui mi veniva il fiatone per andare dal divano al televisore, finché avevo proprio smesso di alzarsi dal divano, cedendo alla benedizione del telecomando e alla maledizione della sedentarietà. Avevo trovato in casa una tuta e una maglietta adatte ai miei settantuno chili, venti in più di vent’anni prima, uno in più all’anno di media, e mi ero presentato timoroso per la novità alla palestra dello stadio di atletica di Firenze. Prima ancora della prova d’appoggio per scegliere la scarpa adatta, l’istruttore disse che il cotone è buono da dare per terra e i pantaloni larghi ostacolano i movimenti.” Quindi ci mandò da Decathlon a fare acquisti.
Il mio sol dell’avvenire, all’inizio incoffesato, era la partecipazione alla maratona di New York, ma col tempo era un obiettivo sempre meno importante a fronte della soddisfazione data dai progressi piccoli e costanti.
Il coach sapeva che l’appetito vien mangiando e quindi non gli era necessario trasformarsi in motivatore alla Full Metal Jacket. Lasciava che gli agnelli andassero a lui e cominciassero a parlare di test, lattato, soglia anaerobica, massa magra, plicometria, obiettivi, tabelle, piano alimentare e altre diavolerie per migliorarsi. Lui elargiva i suoi saperi a chiunque, dietro compenso.
Tra di noi, in tre anni di corso e allenamenti di gruppo, si era formato un feeling che precludeva l’invasamento. Ci alleniamo quasi tutti non più di tre o quattro volte a settimana, al massimo cinque. Mangiamo con attenzione, ma senza troppe rinunce. Viaggiamo lungo l’Italia e l’Europa parlando più di cibo che di corsa e siamo riusciti, chi più chi meno, a correre sempre più chilometri in sempre meno tempo.
Colazione. Correre a digiuno fa bene per dimagrire. E’ anche un buon metodo di allenamento. Un toast integrale con marmellata, uno con pomodoro, una fetta di prosciutto, una fetta di formaggio, un caffè, un latte e del succo di papaia e soia. Ripenso alla gara di Bologna, quando una pizza, una pasta dolce, un caffè e un bicchiere di latte mi rimasero sullo stomaco finché dovetti fermarmi al quindicesimo chilometro per un pit stop al bagno di un bar lungo la strada. Però quella era una gara di preparazione, un allenamento. Inoltre stavolta non avevo nessun Appennino da cavalcare. Quindi dovrei aver digerito.
Su Facebook e sulla mailing list del gruppo della corsa ho ringraziato tutti quelli che hanno condiviso con me battiti e respiri per farmi arrivare qua. Soprattutto le persone con cui mi sono allenato ad agosto. Ho commentato gli status pieni di ebbrezza degli amici. Ho la testa piena di pensieri del tipo “Oggi mordi ogni chilometro.” Voglio fare il mio record. Ho anche paura di tutto quello che potrebbe andare male. Sono contemporaneamente carico e assonnato. Sono le nove e sono sveglio da tre ore. Temo di subire gli effetti della pedalata in risciò del giorno prima, delle ripetute per sedici chilometri complessivi lungo i viali effettuate venerdì, nonché quelli delle lunghe ore di cammino e delle poche ore di sonno dei giorni precedenti.
Esco di casa. Sono le sette di una domenica di fine novembre. Sono previsti diciassette gradi durante la gara, quindi indosso una maglietta a maniche lunghe e un paio di pantaloncini corti.Tutto acquistato da Decathlon. Potrebbe sponsorizzarmi la Kalenji e invece mi tocca pagare per partecipare. Però ne vale la pena. Eccome! Porto un maglione che butterò via dopo essere partiti e che mi riscalderà quando saremo nelle gabbie in cui aspetteremo la partenza. Appena usciti da via Aretina, di fronte alla sede RAI di Firenze, sento un freddo pungente. La pioggerellina sembra prefigurare il rispetto delle leggi di Murphy, visto che, a leggere i siti meteo, sapevamo che uno di questi giorni un diluvio avrebbe dovuto abbattersi sulla città, ma non era chiaro in quale giorno questo si sarebbe verificato. L’anno scorso si sono verificati molti fenomeni di ipotermia. Sbuffo, ma spero che migliori. Corro sui Lungarni per riscaldarmi. Mi fermo per assistere ad un uomo che scende da un auto in mezzo alla strada perpendicolare alla mia e va a dare calci ad un’altra. “Cosa cazzo dici? Pezzo di merda a chi? Coglione!” L’autista della seconda è visibilmente spaventato. Il semaforo diventa verde. L’uomo rientra in macchina e riparte a mille. Io mi prefiguro vigili vendicatori che non arrivano. Arrivo all’Hotel Michelangelo, dove avevo appuntamento con gli altri. Simona mi abbraccia. “Ohi, ohi!”. “Ora cosa c’è?. Sembri Katia.” Lei arriva in quel momento. “Allora partiamo insieme.” “Sie! Mica voglio schiantare! Ecco Laura! Che fa?” “Ciao. Non sono preparata.”. E’ intirizzita, tesa. Tiene le braccia sul petto e trema visibilmente anche dopo essere entrata nella hall dell’ albergo. Per tutte loro è la prima maratona. “Andiamo a fare un po’ di riscaldamento, che ci si rilassa anche.” Seguiamo il consiglio di Simona. Siamo nella folla. La tensione si trasforma in carica ed energia. Siamo in mezzo alla gente. Saremo quindicimila allo start. Gente vestita con mille colori. Gente che si impomata e si incerotta. Gente che fa stretching. Gente che corre come riscaldamento muscolare. Gente che corre perché fa freddo. Gente che si saluta. “Ehi, David!” Simona chiama un suo amico. “Corriamo insieme?” Risponde lui. “Ciao Sabrina!”, dico a una mia amica di facebook milanese che per l’occasione fa la pacer, vale a dire che dà agli atleti che vogliono finire in un certo tempo un ritmo preciso da seguire.
Ci avviciniamo alla partenza. Entriamo nella gabbia corrispondente al nostro tempo previsto. Si ascoltano tantissime lingue. Un gruppo vestito da ragazza pon pon si tiene per mano, un uomo ha una trombetta e suona per chiamare a raccolta i suoi. “Dai che finiamo tutti in quattro ore!” Urla. Dal bagno del bar di fronte a noi, sul Lungarno, entrano ed escono molte persone. Temo che sia come a Valencia, quando anch’io andai in un bar prima della partenza e notai che il numero di consumazioni tendeva a meno infinito, deludendo i commessi i cui occhi avevano assunto una strana forma di dollari.. Incito Katia e Laura: “Dai! Guardate che bello!”. “Sì, è un’emozione,” dice la prima. La seconda si limita ad annuire. Arriva anche Silvia. “Scusate. Ho fatto tardi.” Dovrebbero esserci anche altre persone del gruppo. Stefano, Angela, Cecilia. Guardo le persone attorno a me. Cerco di spaziare con lo sguardo, anche alzandomi sulle punte, senza che possa fare più di tanto dall’alto del mio metro e sessanta. Vorrei conoscere tutti. Penso che potrò fare il mio record. “Andiamo avanti.” Dico e mi muovo. Gli altri mi seguono. “Ora dove vuole andare?”
Intanto continua a piovigginare. Adesso la pioggia è più fastidiosa. Per fortuna ho portato il maglione. Non come a Berlino che stetti un’ora a patire freddo e non mi gustai il cosmopolitismo della partenza anche perché ero immerso nel mio mondo e concentrato sul tempo che volevo ottenere. Ad Amsterdam, invece, sembrava che fossi davvero parte del mondo, anche perché l’unico obiettivo era finire la gara. Certo che essere in quarantamila e avere attorno una città e un mondo che ti incitano è un’esperienza che vale da sola il costo della maratona. Firenze ha questo di bello: è comunque internazionale. Sto attento soprattutto alle ragazze. Qualcuna la seguirò. Mi avvicino a quelle più carine, dicendo agli altri di seguirmi. Già vedo magliette con scritte da ricordare. “Run like you’ve never run before.” “Run for drinking.” “Kiss me. I’m vegan.” “
La maratona non è come le gare brevi dove ci si può perdere a chiacchierare e a sentire frasi come “corro per non ammazzare mio marito.” Di sicuro non mancheranno spunti da condividere sui social network o sui blog. Manca un quarto d’ora alla partenza, ormai. Aggiungiamo altri quindici minuti tra quando i primi oltrepasseranno la linea dello start e toccherà anche a noi. Guardo il cielo. Si vedono squarci d’azzurro sul fronte occidentale. “Tu non hai il Garmin?” Chiedo a Katia. “No. Io ho un cuore.” Risponde.
Inizia a suonare la musica. We are the champions. Cantiamo tutti. Applaudiamo tutti. Non piove più. L’azzurro del cielo si sta espandendo. Mi sembra di rabbrividire. “Oh. Si vede che sei contento. Ridi da cinque minuti.” Mi dice Silvia. “Te, come va?” “Bene, bene. Guarda Laura come è tesa.” “Oh. E’ bellissimo essere qui”, fa Simona. “All’inizio andiamo a sei.”, dice Katia. “Vien via!”, le faccio io. Il pubblico ai lati sta pressando. Questa partenza da Lungarno della Zecca Vecchia non è scenografica come partire da Piazzale Michelangelo o come fu a Roma quando gareggiai due anni prima, partivamo dal Colosseo e sembravamo davvero gladiatori col pubblico che incitava dall’alto e la musica del Gladiatore che rimbombava. Cerco di dirlo agli altri, ma ognuno è immerso nei suoi pensieri e si sentono voci ovunque che si accavallano, nelle pause della musica.
Lo speaker annuncia che ci siamo. Si sente sparare il colpo di pistola.Scandiamo il ritmo della musica con le mani. Ecco la linea. Il pubblico ai lati muove le mani, urla, si complimenta, regge cartelli di incitamento tra cui noto un “Go Jenny” tenuto da un bambino in carrozzina. Avvio il Garmin e inizio a correre. La strategia che avevo in mente, cioè partire a 5’40” al chilometro e accelerare, va a farsi benedire a causa di nugoli di uomini da superare perché vanno più piano. Cerco di aumentare il passo con gradualità e arrivo a tenere la media desiderata. Simona, David e Laura sono partiti più lentamente. Katia è con me. “Ohi ohi, non ci si fa. Si va troppo forte.” Dice Katia. “Rilassati. Guarda la città, piuttosto.” “Ma la conosco.” “Ma troverai nuovi punti di vista,” mento. “Vuoi che ti anticipi il corso di inglese? Pronuncia the, suono th”. “Ohi ohi. No, no. Anzi. Stiamo zitti perché non mi piace che la gente parli mentre si corre in gara.” “Va bene. Ma guarda Silvia. E’ già avanti. Sembra che sia partita per una dieci chilometri. Noi manteniamo questo passo. Ehi! Guarda bello!”, le dico. Un fiume di persone davanti a noi sta attraversando un sottopassaggio. Siamo immersi in questo fiume. Ne facciamo parte, penso. Non so come si sentano i leoni, ma so che provo brividi di gioia. Un altro fiume di gente osserva il passaggio. A qualche incrocio ci sono gli immancabili insulti degli automobilisti. In realtà all’estero le gare sono feste per tutti. Ne abbiamo fatte, ormai. Valencia, Vienna, Berlino, Amsterdam. Gli arrabbiati contro gli eventi sportivi di massa sembrano essere un’esclusiva del popolo italiano, come se avesse una tara genetica, penso.
Mi sembra di accelerare. Sto andando più forte del previsto. Mi sforzo di rallentare. In una mezza avrei tirato, rischiando di crollare. Qua decido che non posso permetterlo. Katia sembra partita all’attacco. Raggiunge Silvia. Io le lascio andare, ma vado comunque più forte di quanto volessi. Mi immagino di finire in tre ore e cinquanta. Mi immagino uno status su Facebook del tipo “Quarantadue chilometri di felicità”. Mi unisco a un gruppo di persone giovani con diverse ragazze carine e cerco di stare con loro. Osservo ancora le magliette, le persone in gara e quelle tra il pubblico cercando curiosità da memorizzare. Poi ne scriverò sulla mailing list e Stefano mi dirà che se continuo a prendere appunti durante le gare non le vincerò mai.
Mentre ci dirigiamo verso il Parco delle Cascine sento le gambe che girano e la testa proiettata verso La Grande Impresa Di Riccardo da Raccontare A Tutti, soprattutto a Irene, la ragazza che renderebbe la mia vita attuale perfetta. Sono freschissimo. Al decimo chilometro mi sembra di essere appena partito. Ricordo che una ragazza danese del nostro gruppo mi disse la stessa cosa dopo dodici chilometri durante la Roma Ostia del duemilanove. Lì feci il record personale, di allora, sulla mezza maratona. Speriamo che il pensiero sia di buon auspicio.
Ci sono alcuni gruppi improvvisati di suonatori sul percorso. La musica dà sempre un po’ di carica in più. Ci sono anche famiglie Cerco di dare il cinque a tutti i bambini che mostrano la mano. Risuonano i “Dai, dai!” che fanno forza. L’anno scorso dissi questo anche a Irene, con cui stavamo osservando la maratona da spettatori, visto che io avevo la fascite plantare, l’infortunio più temuto dai corridori insieme a quello alla bandelletta ileo tibiale. Ripenso alla frase “Sei un runner se sai cosa è la bandelleta ileo tibiale” e mi viene da ridere.
Dentro il parco superiamo il decimo chilometro. Al ristoro ci sono dei pezzi di dolce. Chissà chi sarà così folle da prenderli. Ricordo ancora i pezzetti di biscotto che sputacchiavo correndo dopo il venticinquesimo chilometro della maratona di Roma, quando mi mandarono in crisi il mix tra vento che disidratava e non faceva percepire la fatica attraverso il sudore, il primo sole distruttivo primaverile e l’eccesso di cibo e quindi di sangue che facevo spostare dai muscoli all’intestino. Il tappeto di bottiglie, spugne, bicchieri che resta dopo il nostro passaggio per terra forse può essere evitato. Almeno i bicchieri potrebbero essere in Mater B? Ripenso alla vecchia idea di organizzare una Greenpeace Race. Intanto percorriamo tutto il parco per almeno altri dieci chilometri. E’ un pezzo noioso, ma io sono concentrato sui tempi. Non c’è nessuno a incitarci e lo facciamo da soli, quando qualcuno urla: “Applaudiamoci”. Un gruppo di persone di Montevarchi, riconoscibile dalle magliette, sta cantando e sostenendo uno di loro, che è alla sua centesima maratona. Penso che potrebbe essere un bell’obiettivo da inseguire.
Eccoci al ventesimo chilometro. Usciamo dalle Cascine. Non vedo l’ora di buttarmi in Oltrarno e poi su Piazza Pitti. Anche se c’è perfino il rischio che non veda il palazzo più bello di Firenze perché sarò concentrato sulla corsa e sulla gente. Durante gli allenamenti in ore crepuscolari è una meraviglia passare verso il centro i ponti distrutti dai Tedeschi nel’44. Le luci dei lampioni che si riflettono sull’acqua, i canottieri che avanzano, i monumenti che si avvicinano testimoniano quanto può essere affascinante il risultato del connubio tra uomo e natura. Varco Porta San Frediano e trovo a sorpresa il coach che fotografa e incita. Mi viene da piangere. Il clima è ideale. La temperatura sarà sui quindici gradi, il cielo è completamente sereno. Le nuvole si sono dileguate fin da prima della partenza. Sono a metà del percorso e ho quasi fatto il primato personale sulla mezza maratona. Ho un attimo di timore. Sarò andato troppo forte? Ma caccio il pensiero negativo e mi concentro sul ritmo e sui passi. Le ali di folla caricano. Accelero. Penso che al limite crollerò, ma almeno avrò dato il massimo. In fin dei conti mi sono allenato bene, no? Ho corso sessanta chilometri buoni a settimana. Ho sofferto alcune volte nei lunghissimi. Mi sono alzato alle cinque di mattina. Pensa anche al fatto di non essersi mai allenato così bene, anche se non specificamente per le mezze maratone. Ha rispettato gli allenamenti per quattro volte a settimana, ha fatto le ripetute, i lunghi, i progressivi, sta bene, le condizioni meteo sono ideali, non ha subito infortuni da molto tempo. Ha fatto tante gare. Perché non dovrebbe fare molto meglio delle mezze maratone precedenti?Ho rinunciato a qualche attività con Greenpeace o con gli amici. Adesso non posso non osare. Devo raggiungere il limite e magari superarlo, mi dico. Dai che poi con la felicità che avrò mi deciderò a cambiare casa, lavoro e forse Paese e farò altre centomila attività sportive, di volontariato, di teatro, di scrittura, di borsa. Mentre sono intento a pensare queste cose, a riderne, a inebriarmi di colori, folla e musica, ecco Katia e Silvia davanti a me. Non sono ancora vicine, ma se le vedo significa che tenendo il passo le raggiungo.cambio lavoro cambio casa cambio nazione divento libero professionista salvo il pianeta faccio tantissimi sport scrivo tantissimo conosco gente da tutto il mondo imparo diecimila lingue in tre mesi.
Controllo il Garmin. Sto andando a cinque e venti al chilometro. Troppo forte? No, no. Al limite calerò in seguito, ma sto talmente bene che voglio sfruttare il momento. Dopo il ristoro del venticinquesimo chilometro, in cui bevo due bicchieri di acqua e uno di sali, decido di non prendere la bustina di carboidrati che ho in tasca per paura che mi rallenti e vado all’inseguimento delle altre due. La lampadina “record” in testa è ben accesa. La parola “primato” è una voce ossessionante cui do spago. Non ho ancora fatica. Inizio a vedere la maglia arancione di Silvia e quella viola di Katia davanti a me. Significa che le raggiungerò. Succede sempre così. Se vedi qualcuno davanti a te, sia pur lontano, che prima non vedevi, quasi sicuramente lo superi mantenendo il passo. Se stai in un gruppo e poi ti fai staccare, cerchi di riuscire a recuperarlo. Se ce la fai vuol dire che stai bene. Quando non ti fidi del Garmin o quando non ce l’hai queste strategie sono utili. A Jesolo e alla Roma Ostia intervennero altri fattori: ragazze carine che andavano veloci e ti superavano e tu che le inseguivi. In ambedue i casi ho fatto il mio record, di quei tempi.
Katia e Silvia, insieme al coach sono sempre più vicine. Scruto il pettorale di una ragazza: se me ne ricorderò le chiederò l’amicizia. Saluto le due amiche e dico loro, in inglese, che non c’è sconfitta nel cuore di chi lotta. Silvia mi saluta con un “Grande!” e quando la supero, mi si mette accanto. Katia si unisce, ma mi chiede se per caso sia venuto a rompere. Dico anche che al trente chilometro ho paura di crollare perché forse vado troppo forte.
Stiamo insieme noi tre. Non parliamo più. Sentiamo le scarpe che battono sul terreno e i nostri respiri. Siamo concentrati. Mi rendo conto che riesco ad accelerare. Un po’ faccio da lepre io e un po’ lo fa Silvia. Katia è comunque con noi. Mi piacerebbe che arrivassimo insieme. “Vedete quello vestito di rosso? Quanto ci metteremo a superarlo?”. “Che ti frega? Corri per te, no?” “Sì, ma aiuta vedere che sono più le persone che sorpassiamo di quelle che ci superano. Vuol dire che andiamo bene.” I respiri si sono fatti più frequenti e affannosi. Non sento quelli delle altre due. Le gambe cominciano a indurirsi. Mi sembra di rallentare. Mi stacco un attimo dal gruppo. Provo ad accelerare. Ce la faccio. Siamo in zona stadio. Ho superato alcuni amici di una società sportiva. Mi sento bene, per quanto abbia già corso trenta chilometri. Tra i volontari dell’organizzazione notiamo Alfredo, un uomo ex rugbista ed ex canottiere che ha fatto parte del nostro gruppo e adesso è fermo per colpa di un’ernia. Ci saluta e ci batte il cinque. Noi sorridiamo, ma ormai da qualche chilometro non sprechiamo più fiato per parlare. Anche altri del gruppo ci aspettano e ci salutano proprio alla fontana da cui partiamo per allenarci di solito, subito oltre un altro ristoro. Completato il giro dello stadio, di fronte alla stazione di Campo di Marte, mi accorgo che una ragazza sta piangendo mentre cammina. La supero. E’ Barbara, amica di Facebook che ho salutato il giorno prima all’Expo. La avvicino e mi dice che ha la caviglia a pezzi e cercherà di chiudere camminando. Le dico “In bocca al lupo” e riparto. Lei mi dice “Grazie, tesoro!.” Il cavalcavia di Piazza Alberti è davanti a noi. In salita forse dovrei rallentare, ma non lo faccio. Mi sforzo di mantenere lo stesso ritmo. Saluto un bambino con la bandiera. Sorride. Supero diversa gente e diversi gruppi. Sento distintamente suonare la banda. Non accelero, ma è tutto a posto. Penso al record.
Entriamo nelle vie che conducono al centro città. Sto sbarellando? Inciampo quasi in uno scalino. Mi sembra che questo chilometro, il trentaduesimo, non passi mai. Abbasso la testa. Gli occhi guardano per terra. Non va bene. Era il mio errore tecnico nei primi tempi. “Sguardo avanti!” Diceva il coach a me. Per gli altri risuonavano avvertimenti come “Ginocchia basse!”, “Spalle ferme”, “Non battete I piedi.” Non li rialzo. Il sole, che adesso picchia sulla città, anche se si tratta del sole novembrino, comincia a darmi noia. Le strade mi sembrano tutte in salita. Non mi sento andare avanti d’impeto, tantomeno di accelerare. Eppure il Garmin dice che sto tenendo il passo. Penso che un rallentamento prima di un’accelerazione finale può starci.
Katia e Silvia mi staccano, ma continuo a vederle. Dai che mancano dieci chilometri, mi dico. Cerco di pensare come se avessi da iniziarli. Ma un’altra voce mi dice che non è così. Gli ultimi lunghissimi li ho fatti dividendo il chilometraggio di dieci in dieci. Adesso percepisco le gocce di sudore che dalla testa scivolano lungo il corpo. Mi sembra di non riuscire ad accelerare. Cerco di agganciarmi a un gruppo di persone davanti. Per adesso rinuncio a raggiungere Katia e Silvia, che continuo a vedere alla stessa distanza. Osservo il Garmin. Non sto andando male. Sono a cinque e trenta. Potrei fare di più, mi dico, ma all’inizio volevo andare a cinque e quaranta. Dovrei essere contento. C’è una banda, ma non suona. Adesso mi servivate! Sento suoni indistinti, sarà il pubblico che incita. Un groviglio di mani che si allungano potrebbe essere un gruppo di zombie assetati di sangue se avessi la forza di pensare una cosa del genere.
Non ho quasi nemmeno guardato i chilometri fino a metà gara e adesso sto contandoli uno a uno. Guardo il Garmin ogni trecento metri. Mi sembrano infiniti. La regola delle percezioni durante le gare è che il penultimo chilometro è più lungo degli altri, mentre l’ultimo è il più breve. Come fare a sopportarne altri nove in questo modo? Proviamo a prendere le pasticche di carboidrati. Una. Due. Tre. Sento una palla in bocca. Mi sembra di essermi fermato. “Che me ne frega, dai! L’importante è finire.”, penso.
Qualcuno mi supera. Cerco di stargli dietro. Lo lascio andare. Non provo nemmeno a raggiungere quelli davanti. RIPRODURRE I PENSIERI DI ROMA.
Trentaquattresimo chilometro. Che fatica andare avanti! Mi sembra anche che mi manchi il fiato. E’ una sensazione mai provata. Avrò mangiato bene? Mi sarò allenato davvero bene? Sono un tipo da mezza? .
“Signora!”, dice una ragazza ad una donna che attraversa la strada. “Che devo fare?” Risponde lei. Sto al lato della strada. Per non sbattere il braccio sinistro contro i colonnini lungo il marciapiede devo alzare la mano. Continuo a guardare in basso. La gente sulla strada sembra incitare, ma non la vedo, non la cerco, non la sento. Se c’è qualcuno che suona non mi entusiasma più. Mi sembra di sbiancare. Penso alla colazione. Mi sembra di avere voglia di andare in bagno. Vedo un bar. Lo supero. A Bologna andai al gabinetto, ma forse ce la faccio stavolta. In centro non ci sono angoli nascosti, penso.
Non voglio guardare il Garmin, non mi interessa. Però lo faccio. Ehi! Sto andando a cinque e quarantacinque. Non a sette al chilometro, come temevo. Mi ricordo di Vienna. Mi dicevo di non mollare. Però vedo che rallento. Le gambe sono dure. Respiro affannosamente, ma soprattutto sbarello. La gente continua a superarmi. Sento una ragazza dire di non mollare a un suo amico perché manca poco alla fine. Poco? Mancano sette chilometri. Ho le gambe durissime. Riguardo il Garmin. Sette e venti. Chissà quanto ci metterò. Poi tutti vedranno il mio tempo schifoso. Ho comunque qualcosa da raccontare. Potrei camminare. Almeno un chilometro. Oppure ritirarmi. Ma ho le gambe durissime. Non ho mai superato la crisi da acido lattico.” Basta. Cammino per un po’.
Vedo il cartello del trentaseiesimo chilometro. “Siamo in via Cavour”, penso.. “Ehi! Ma non manca mica così tanto!”. Riguardo il Garmin. “Cinque e cinquanta.” Faccio un calcolo. O forse è solo un flash in testa. “Se ho tenuto la media alle quattro ore ci arrivo.” Ricomincio a corricchiare. Avrò camminato trecento metri. Un passo dietro l’altro. Piazza Duomo è piena di gente. Non vedo nessuno, in realtà. Ho il sudore che mi annebbia la vista. Forse non solo quello. “Questa è Simona! L’altra Simona del gruppo. Si è aggregata negli ultimi chilometri per farci forza. Ha deciso di sostenerci. Mi guarda e corre un centinaio di metri insieme a me. Io farfuglio e scuoto il capo. “Ho promesso di aspettare la Simoch, ma vai! Vai! Non mollare! Fallo per noi infortunati che correremmo sui gomiti! Pensa allo zen! Stai andando bene. Ci sono anche i tuoi amici di Greenpeace all’arrivo!”. “Non mollare!”. Adesso il mio pensiero fisso è diventato questo. “Grazie!”, mi giro verso Simona e riesco a urlarlo. Continuo a non far caso alla gente e alla città. Adesso mi concentro solo sui passi. Uno. Due. Conto i chilometri, ma non come prima. Adesso contarli mi fa forza. Le gambe sono sempre dure. Mi sembra di non avanzare. Vedo gente che cammina. Una ragazza mi supera. Sulla maglietta ha scritto, in inglese, che il dolore è temporaneo e l’orgoglio è per sempre. Dice a una sua amica “Go on!”. Sarà americana. Ciondolando mi attacco al suo pettorale, cartaceo. Me ne rendo conto e ci metto quei secondi di troppo per staccarmi. “Come on!” fa lei, sorridendo. Un uomo è dietro di me. Mi dico di non lasciarmi superare. Sembra incredibile, ma ce la faccio. Raggiungo un signore che gronda di sudore, lo supero, mi riaggancia, facciamo cento metri insieme, lo stacco pur non accelerando. Sempre che le mie sensazioni siano corrette. Siamo al chilometro trentasette e mezzo. Ci sono quelli dello spugnaggio. Non riesco a prendere la spugna che mi viene posta dal volontario. Tuffo la mano nell’acqua delle vasche e mi bagno un po’. Stringo i denti. Un passo dopo l’altro. In terra è bagnato. Dai!Dai! Sarebbe stupendo essere in grado di ascoltare gli incitamenti. Una bambina mi dice “ciao! Forza!” senza pronunciare la erre. Ce la farò per lei, per me, per tutti. Poi cambierò lavoro. Improvvisamente penso a un piatto di spaghetti. E’ come se li avessi lì davanti a me. Ce li avrò, ma prima ho da compiere una missione. Penso proprio queste parole.
Vai Riccardo! Chissà chi avrà urlato il mio nome! Chissà se si sarà rivolto a me. Quella è Katia! La supero senza dirle niente. Lei corre normalmente, mi sembra. Dice che ha sentito la fatica e si è rotta le palle. Però sta per finire anche lei. Silvia, invece, non avrà mollato di un centimetro. Piuttosto muore, pur di non cedere. Ma ecco anche lei. Mi avvicino. Mancano tre chilometri, ormai. Sembra impossibile riprenderla. Eppure vedo che non mi supera più nessuno e io invece sorpasso diverse persone. La ragazza cui avevo agganciato il pettorale adesso è dietro. Mi sembra di stare sempre un po’ meglio. Il Garmin segna cinque e cinquanta. Non sei, sette o otto al chilometro. Nessuna resa, dunque! Allora ho superato davvero un mio limite! Ho battuto l’acido lattico: vado più piano, certo. Però non sono crollato. Allora mi sono allenato davvero bene. Allora sono bravo. Silvia, eccomi!, penso io quando la raggiungo. “Ehi, grande!”, mi dice lei. Vado avanti. Il cartello del quarantesimo chilometro è una gioia per gli occhi. Due chilometri si possono anche fare sui gomiti. Sento dei passi dietro di me. E’ Silvia. Cerco di non rallentare. Lei mi raggiunge. Mi supera. Le tengo il passo. La supero. Mi tiene il passo. Mi supera. Continuiamo così e il nostro modo di spronarci e di andare oltre. Magari arriveremo insieme. Porta La Croce.
Cinque e trenta? Sto accelerando? Che è successo?
Ultimo chilometro. Sento un brivido avvolgermi completamente lungo il corpo e godo pienamente quel momento che dura per almeno un minuto. Sto superando tutti, faccio una “doccia volante” sotto gli idranti e sento qualcuno : “Bravo Riccardo”. Vedo Stefano. Come fa ad essere dietro di me? Vedo che avanza. Preferirebbe stare fermo due mesi per infortunio che farsi superare. In gara ci sono solo nemici, dice. Mi affianca e mi sorpassa, ma io sono felice. Non so se le gocce sulla faccia siano lacrime o sudore e non ho tempo di pensarlo. Cerco di restare attaccato a Silvia. Oppure è il contrario. “Ma voi avete iniziato adesso?”. Stanno dicendo proprio a noi? Siamo fantastici. Altro che cambiare lavoro. Meritiamo molto di più.. Nessun traguardo è precluso. Basta volerlo ed essere costanti negli allenamenti. Mi avvicino a un ragazzo. Mi sembra che mi dica che per le foto possiamo aspettare l’arrivo.
Mi rendo conto dove siamo. Vedo di nuovo distintamente la gente. Batto un cinque. Silvia ne approfitta. La riprendo. Chi ci vede sembra acclamarci. Piazza Santa Croce. Ci siamo. Mi sembra che il cuore scoppi. Lo faccia pure. Chissà chi ha dato alle gambe la forza di fare quello scatto. Alzo gli occhi. Il tabellone segna quattro ore e cinque. Significa che il tempo reale è quello desiderato. E’ bellissimo faticare così. Mi butto verso l’arrivo. Mi sembra di fare uno sprint velocissimo. Non sarà realmente così, ma non ha importanza. Silvia mi ha superato definitivamente gridando “Vieni!” ma ho vinto comunque!
E’ finita! L’istruttore mi fa le foto. Con Silvia ci abbracciamo. Penso di essere il ritratto della felicità. Penso a quanto mi sia servito continuare il corso, a quanto sia stata importante la compagnia altrui in allenamenti e gare, a quanto conti rispettare le tabelle di preparazione. Penso a quanto sia sprecato nel lavoro e a cosa mi manchi. Arriva la ragazza col pettorale e mi saluta. Vedo degli amici di Greenpeace e del corso di teatro. Vado a salutarli. Arriva Katia. “Sono emozionatissima e contentissima. Grazie.” Aspettiamo le due Simone, mentre Stefano lo ritroveremo ai ristori. Siamo tutti contenti. Ci dirigiamo ai ristori. Mangiamo e beviamo l’impossibile, birra compresa. Ci danno un sacchetto di mandarini. Li mangerò tutti lungo la strada del ritorno. Ricordo i record che facevo alle medie. Qualcuno si fa fare i massaggi. Una signora si sdraia per baciare la terra. Una barella raccoglie una persona arrivata. Il pubblico in tribuna è numeroso e applaude tutti. Le vie intorno a Santa Croce sono piene di gente avvolta da mantelli di plastica che rendono caldo. Prendiamo la medaglia. Qualcuno fa stretching. Persone che si abbracciano si mischiano a persone che riposano. Qualcuno vomita di nascosto. Qualcuno vomita senza nascondersi. Una maglietta con la scritta, in spagnolo, “Io non corro, né volo, ma bevo soltanto”mi fa ridere. Appartiene a un uomo altissimo e robustissimo, tanto che potrebbe sembrare un pallanuotista. Indica la mia maglia che ha i segni del sangue fuoriuscito dai capezzoli. Arriva Laura, che dice di essere ferita ai piedi. “Ma sono orgogliosa. E’ la giornata più bella della mia vita.” Un boato di amici di Simoch ne saluta l’arrivo.
Ripenso che per alcuni di noi esisteva fino a poco fa il blocco maratona. Ovvero: “ Io non la farò mai”, “ho visto il cartello 37 e mai e poi mai”, “quasi quasi parto, ma poi al trentesimo mi fermo perché tanto so che non ce la fo”, “non so se sarò di nuovo in grado di correre dieci chilometri, figuriamoci quarantadue”, “quarantadue? E’ la risposta definitiva alla domanda fondamentale dell’universo e nient’altro“, “preferirei fare la salita di San Domenico all’indietro”, “preferirei giocare a scopone scientifico con San Domenico”, “piuttosto divento San Domenico e mi faccio nominare papa”, “sarebbe meglio spianare la collina di San Domenico e costruirci un Burger King”.
Adesso siamo in tanti ad aver provato l’euforia e la leggerezza che lascia una maratona. “Aveva ragione Zatopek”, mi dice Katia. “Visto?”, le dico prima di salutarci. Già. Se . Dopo la prima maratona (“che invidia, te la godi solo per il fatto di portarla in fondo”, per usare le parole di una ragazza alla sua ventisettesima partecipazione in due anni),
In fin dei conti non ci si può sentire sicuri di niente. Certo: vedere che ancora non si è particolarmente affaticati dopo trenta chilometri dà una grande forza. Certo: c’è anche chi tira avanti a forza di bestemmie a causa dei crampi. Però, che riparta, tenga duro, si ritiri, ceda allo sconforto, non riesca a sentire neppure il pubblico, non veda l’ora che finisca la gara, inizi a camminare, inizi a muoversi sui gomiti, arranchi, faccia dei respiri affannosi, pensi al fatto che i chilometri non finiscono mai, maledica il fatto che Filippide non abbia viaggiato in sella ad un cavallo, ha pur sempre qualcosa che gli resterà impresso in mente e che avrà voglia di ricordare e raccontare.
Osservateli all’arrivo e nelle ore e nei giorni seguenti. . Alcuni si buttano a terra, alcuni piangono, alcuni sono strafelici, alcuni non si rendono conto di dove sono, alcuni sono preoccupati solo del risultato, alcuni sono contenti comunque, difficilmente alcuni sono tristi Cosa leggete nei loro occhi? (No, un inizio di retinopatia non potete leggerlo). Commozione, soddisfazione, delusione, stravolgimento, serenità, liberazione, anche rabbia ma condita dalla voglia di ripartire presto, radiosità e molta leggerezza. Per alcuni, superata almeno la fase “datemi da mangiare, da bere, un bagno e magari sette o ottocento massaggi”, la sensazione è simile a quella provata subito dopo la laurea. In ogni caso hanno vissuto qualcosa di speciale, che è costato sacrifici ed ore di sonno, ma ne è sempre valsa la pena.
La sentirete dichiarare di aver pianto dopo il traguardo, di voler ringraziare il pubblico che l’ha sostenuta per tutto il suo calvario e di aver vissuto l’esperienza più bella della sua vita dopo la nascita della figlia. Ricorda un po’ la frase di Zatopek: “Se vuoi vincere una corsa, partecipa a una cento metri. Se vuoi provare un’esperienza di vita, corri la maratona.”