there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

First job

Il primo lavoro tentato è stato quello del commercialista. L’ipotesi di mettere su uno studio, far fare i compiti di precisione a delle ragazze, servire i clienti è sempre balenata nella mia testa. Il problema dell’assenza di vita privata l’avrei risolto nel momento in cui fossi stato libero professionista. Intanto avevo la possibilità di imparare molto, soprattutto di imparare a fare, anche per potermi successivamente presentare con un titolo in più e una certa esperienza.

 

Il primo giorno partii col treno delle sette e quaranta ed arrivai ad Arezzo giusto per essere il primo ad entrare. Non c’erano i capi, uno di Forza Italia ed uno ex Pci, quindi conobbi le tre ragioniere e l’altro praticante, che prima di tutto mi portò a prendere il caffè.

 

Il secondo giorno iniziai a fare fotocopie ed un po’ di contabilità, prima di entrare nel vorticoso giro dell’attività dello studio.

 

Tutte le volte che ho deciso di andare avanti è stato perché:

  1. ormai avevo deciso di intraprendere quella strada;
  2. lì dentro stavo bene e non provavo nessun disagio post vacanza, ad esempio ( le ferie estive erano di un mese intero, tra l’altro);
  3. mi avevano rinnovato sempre la stima e garantito qualche prospettiva per non lasciarmi sulla strada al termine dei tre anni;
  4. lì si imparava veramente molto, poi ci saremmo dovuti specializzare, c’era lo scoglio dell’esame, ma sono stato a lungo convinto di restare lì (come l’altro praticante, cui veniva dato uno stipendio, sia pure basso, mentre io convivevo col rimborso spese salvo, verso la fine dell’esperienza, una proposta di avere trecentomila lire al mese purché, in modo piuttosto incomprensibile per me, prendessi il tirocinio come un lavoro e non più come un gioco: anche l’altro capo mi aveva una volta detto che “qui si lavora, non siamo più all’università”, cosa che mi sembrava di fare);
  5. una volta acquisito il titolo, avrei comunque potuto ancora trovare un lavoro diverso, ma pensavo di poter entrare in partnership con qualcuno e anche se lì non mi ci fossi più trovato bene oppure non mi avessero voluto, potevo continuare nella strada della libera professione. Niente escludeva la possibilità di fare un master o comunque di pensare a strade diverse. Avevo, insomma, ancora tutte le strade aperte (pensavo, in realtà ho buttato a mare tutte le opportunità riservate ai “neolaureati” dalle grandi aziende, big four comprese, fermo restando che chissà se avrei superato i colloqui e se veramente volevo uscire dal Casentino: era più probabile che volessi rientrarci dopo aver fatto qualche esperienza). Avevo prospettive di lavoro libero-professionale: acquisire il titolo, che permette anche l’acquisizione di quello di revisore contabile, era effettivamente un passo importante. Poi nessuno mi impediva di andarmene eventualmente di lì e ormai, quando me ne sono andato, era passata più della metà del tempo;
  6. Avevo clienti da cui ero particolarmente stimato. In particolare uno che richiedeva continuamente spiegazioni ed un altro, nella cui casa sembrava di essere in un romanzo del’ottocento, per cui dovevo svolgere attività di archiviazione, riparazione di pc e stesura di autobiografia (sua).Tutte le volte che pensavo di andarmene era perché:
  1. Avevo sfiducia nelle mie possibilità di andare avanti presso di loro, anche sentendo le voci di corridoio soprattutto dopo che si sarebbero ingranditi e qualcuno sarebbe stato di troppo. In realtà bastava impegnarsi di più;
  2. Ogni tanto sbagliavo cose che secondo me avevo fatto bene (quindi non ne avevo la percezione), quando andavo negli uffici c’era da tornarci perché mancava qualcosa (e magari non l’avevo chiesta), ero eccessivamente fiducioso e probabilmente non facevo settemila controlli sulle cose fatte (in generale comunque ero più bravo a “controllare” che a “fare”), mi vedevo in difficoltà nel modo di dire comunque qualcosa ai clienti (anche quando fanno domande idiote o hanno pretese assurde del tipo non pagare l’iva), mi vedevo in difficoltà nel fare consulenza (in realtà prima si deve comunque conoscere il settore), mi venivano imputati errori di distrazione o imprecisione in modo più forte di quanto venissero evidenziati i “successi”. A dire il vero erano soprattutto le ragioniere, anzi una, ad aver perso la fiducia. Però dicevano anche, tutti, che andavo bene (a volte ero troppo aggiornato, magari facevo come avevano consigliato negli uffici pubblici ma non andava bene per quel cliente che doveva nascondere qualche errore formale passato) tranne ogni tanto la distrazione e spesso certe forme di imprecisione;
  3. Le aziende seguite erano piccole: la gente portava fogli e dovevamo intanto capire quelli. Avevo appreso comunque a tenere la contabilità, a fare i bilanci (“Smetti di fare queste cazzate e vieni da me che ti fo fare qualcosa di più utile”, diceva Fabrizio, sostenitore dell’inutilità e della ormai bassa redditività dei servizi a favore delle consulenze. In sostanza non dovevamo fare niente assimilabile al Controllo di Gestione o all’Analisi Finanziaria (niente toglie che avrei potuto occuparmene in futuro, naturalmente). Generalmente, però, quando mi chiedevano perché avessi lasciato lo studio, dicevo “Perché ci si occupava solo di fisco”, che è una parte di verità, ma non certamente la principale;
  4. Non guadagnavo niente, avevo avuto delle erosioni di capitale dovute soprattutto agli acquisti di libri, mentre in borsa ero riuscito a “tenere” le posizioni. Era un mondo pieno di prospettive, ma forse troppo a lungo termine. Avevo bisogno di recuperare il capitale e quindi di lavorare. Questo, combinato con l’assenza di prospettive forti e la sfiducia altrui, è stato forse il motivo principale per cui me ne sono andato;
  5. Buona parte dei clienti non li sopportavo. Non tanto quelli miei o di Fabrizio, bensì quelli per cui era più importante la forma del contenuto (cioè tutti, che quindi erano invece entusiasti delle ragioniere e della loro grande precisione) e quelli per cui l’unica cosa che contava era “non pagare le tasse” ma erano ben contenti di andare dal medico di famiglia gratuitamente, poi, almeno credo. Soprattutto: avrei allora avuto buoni rapporti coi “miei” clienti?
  6. C’era il pensiero che i “servizi” non fossero il massimo per me, che aveva difficoltà nell’intuire alcuni “trucchi”, per esempio con gli assegni (che producono il panico a vederli anche oggi). Avevo più “talento naturale” nel risolvere un problema informatico e ricordavo più facilmente da dove derivava una parola (se lo sapevo, ovviamente).Quando mi ha chiamato la BPEL sono stato contento (stipendio, società e famiglia contente, io con prospettive di entrare nel ramo borsa). Il responsabile risorse umane ha detto che “una volta era facile entrare in banca ed operare” (lui è entrato così, ovviamente, inoltre ha proseguito l’elenco delle persone entrate a far parte della categorie “una volta era diverso”). Ha detto che appena assunti, saremmo stati destinati ad operare allo sportello (“Aiuto!”), perché è lì che si vede se siamo portati (non ricordo se ha detto proprio così e non c’entra niente con uno che vuol fare analisi finanziaria saper fare un versamento, secondo me, comunque…) o forse ha detto che è lì che si apprende la base dell’operare in banca. Ha detto che prendono laureati con limite di voto e preferiscono tenerli sul territorio. Alla fine mi sa che cercavano soprattutto promotori.C’è stato un colloquio di gruppo (e mi sono abbastanza piaciuto, anche se ho degli appunti da farmi sulla descrizione personale e su una battuta che è piaciuta, perché ha fatto ridere, ma dubitare dell’arrivo di un equipaggio in difficoltà sull’isola potrebbe non rispondere a quanto scritto sui manuali). In ogni caso, ho sbagliato il test psicologico. Mi sono ricordato dopo che avevo letto da qualche parte che “aiutare i poveri” non è indicato per entrare in banca. In ogni caso c’erano una serie di domande e risposte che riproducevano sostanzialmente la stessa alternativa. Credo di non aver dato una risposta coerente. Una volta ho pensato a rispondere come mi sentivo, un’altra ho cercato la “risposta giusta”, insomma un disastro. Mi ha fatto sudare più quel test del colloquio di gruppo. Lì avrei voluto entrare.Infine mi ha chiamato il Pignone. Ho provato a fare un colloquio “giusto”. Secondo me ho provato a farmi assumere. Ho parlato con una responsabile risorse umane e poi col direttore finanziario. “Eri convinto!”, mi ha detto la prima qualche giorno dopo. Ho anche detto al secondo che “No, non mi vedo come commercialista!”, cui seguirà un’uscita in lacrime dallo studio commerciale il giorno in cui me ne andrò (e vedrò festeggiare Elisabetta, che comunque ringrazio per la meravigliosa frase “Lui è contro tutte le regole”, ma gli altri so di averli lasciati con qualche difficoltà. Mi dispiace per alcuni di loro, soprattutto la parte legata a Fabrizio). Nei giorni seguenti il colloquio mi ero deciso per restare dal commercialista e invece me ne andai.La decisione di accettare è stata impulsiva. In quel caso, sul lavoro in sé, aveva ragione Fabrizio (“Che vai ad accettare un lavoro dequalificato quando puoi continuare con noi e magari, che so, potresti diventare responsabile fiscale della Montecervino Servizi?). Pensai che comunque la soluzione Pignone sarebbe stata provvisoria (“vediamo come funziona un’azienda, magari poi torniamo ad Arezzo o addirittura nell’ufficio stiano della Montecervino e poi prepariamo un master per andare a fare il revisore). Loro, quelli del Pignone, mi allettarono parlando di Analisi Finanziaria.   In treno vedo Ale che dice di “tenere lo studio di avvocato da sola” (io no…) e poi diventerà avvocato. Vedo Stefano che ha smesso di andare in fabbrica, si è fatto i tre anni di infermiere, sta per diventarlo ufficialmente e con assunzione a Careggi e mi vede molto giù. Vedo Nicola che si trasferisce a Roma, scrive articoli su Casentino 2000, diventa assessore comunale e si dà alle lettere (anche come moglie da cui avrà un figlio). Vedo Elisa che non sa che fare ma mi dice che il mio è già un lavoro prestigioso e si preoccupa che non “scenda troppo di livello”.Vedo Rosanna che si è accontentata di fare la segretaria e tuttora mi vede “Libero professionista”. Conosco la Rosy che, saputo lo stipendio percepito al Pignone, elogerà la mia scelta di andarmene dallo studio (poi resteremo in contatto, lei andrà alla Comunità Montana e mi sconsiglierà di andare dal Tacconi rinunciando ad un tempo indeterminato).Comunque era maturata la decisione di andarsene dallo studio per guadagnare soldi, ma mantenere aperta la porta facendosi firmare il tirocinio (anche dopo aver parlato col commercialista di Strada che aveva già sconsigliato la via del commercialista a suo tempo), tenendo conto che la professione era matura, le prospettive non così buone, avrei comunque dovuto specializzarmi ed associarmi ecc.ecc.Niente da dire se non che mi vergognavo a ripresentarmi allo studio, poi. Quindi a gennaio mi feci firmare il libretto, ma poi non ci tornai. Presi così una brontolata da Stefano (“Ho fatto la figura del coglione: quelli che non stanno allo studio lasciano i libretti senza firmare”), che però rimase attonito quando gli dissi (“Ma infatti non volevo tornare in studio, perché non era corretto”) e lui (“Ma per un futuro…). Allora ebbi la sospensione di un anno e mezzo, in cui, volendo, avrei potuto forse trovare qualcuno che mettesse le firme. A dire il vero il coglione mi sentii io, perché a maggio dell’anno dopo avrei potuto almeno telefonare a Stefano. Lui mi avrebbe firmato ed ora avrei chiuso il praticantato.

 

Ricordo l’incazzatura di Elisabetta il lunedì successivo a quando ero stato beatamente a fare un viaggio turistico a Pisa da solo il sabato precedente (le mini-gite le iniziai a fare durante il periodo presso lo studio, come del resto risale ad allora l’acquisto della meravigliosa Yaris col navigatore che mi avrebbe impedito di perdermi circa venti volte prima di trovare la strada per qualche località).

Ricordo volentieri i pranzi al bar, la volta ad Indicatore con la ragioniera Elisabetta (la mia nemica numero uno) e Clara, i giri dal parco per andare negli uffici. Ricordo volentieri anche il lavoro nello studio. Anzi a volte penso di aver tradito la loro fiducia (soprattutto quella di Fabrizio, che aveva intuito qualche potenzialità, secondo me). L’unica cosa per cui mi avrebbe tagliato la testa era il disordine…

 

 

 

 

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