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Lo stupore delle prese elettriche

Il gabbiano d’argento: i fratelli maggiori della Generazione di Fenomeni.

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Negli anni Settanta, la pallavolo era già uno sport praticato massicciamente, soprattutto a livello giovanile. Ricordate le palestre in cui si faceva lezione di educazione fisica o gli oratori? A che giocavi, se non a pallavolo? A questa pratica non corrispondeva un seguito rilevante: gli spettatori alle partite erano sempre pochi e in tv la pallavolo non veniva trasmessa.
In campo internazionale, però, l’Italia non esisteva.
Non so perché, ma molti miei ricordi vividi sono associati alla pallavolo, vista in tv o letta sui gironali. Quando ho iniziato a leggere di pallavolo, sul guerin sportivo o sulla Gazzetta? Deve essere stato il 1978 o giù di lì. Leggevo i giornali, inventavo trasmissioni sportive, creavo tornei di subbuteo, di calcio, di tennis e anche di pallavolo. Mio fratello era per la Panini Modena. Io per la Paoletti Catania. Ricordo che alle elementari, nei primi anni Ottanta, avevo una squadra per cui tifare in ciascuno sport trasmesso su Sport Sera o di cui si leggevano i tabellini sui quotidiani o sui settimanali: Scavolini l’Aquila nel rugby, Milano nel basket, Bolzano nell’hockey su ghiaccio. Chissà perché: forse mi piacevano i nomi o forse erano semplicemente le squadre vincenti.

Ebbene. La Paoletti è anche stata la squadra che ha formato l’ossatura della nazionale che ha vinto l’argento ai mondiali di Roma del 1978. A rileggere oggi gli articoli che ricordano quell’evento e anche i futuri successi dello sport italiano, viene in mente come ciò che li ha prodotti sia stato un qualche cambiamento importante nella mentalità o nei metodi di allenamento.
La squadra del ’78 era abituata a Catania ad avere un preparatore atletico e a svolgere due allenamenti al giorno in un periodo in cui gli atleti rifiutavano una convocazione per i mondiali perché la fidanzata non voleva. Era il dilettantismo più puro e bastava portare un po’ di professionismo e di professionalità per produrre risultati. Lo stesso professionismo da cui era andato l’allenatore della nazionale Skorek, dileguatosi in America e sostituito da Pittera, allenatore della Paoletti. Lui

“aveva cercato di portare aria nuova nell’ambiente italiano, ma la sua operazione di svecchiamento della nostra selezione non aveva mancato di generare qualche inevitabile polemica. Per espressa scelta tecnica aveva lasciato a casa i due giocatori più esperti: Mario Mattioli ed Erasmo Salemme; e a causa degli imprevisti del dilettantismo si era dovuto rassegnare alla rinuncia dei giovanissimi Franco Bertoli, precettato dal richiamo al servizio di leva, e Gianmarco Venturi, il cui precetto era giunto dalla fidanzata, determinata a non farlo allontanare da sé durante i mesi estivi.”

Fatto sta che dopo le prime vittorie il sogno sembrava davvero possibile e squadre come il Giappone, Cuba, il Brasile e quelle dell’Europa Orientale non facevano più paura. L’Italia, infatti, riuscì ad arrivare in semifinale, a battere Cuba e poi fu massacrata dall’Unione Sovietica, anche se molti italiani, al palazzetto o davanti alla tv, si erano illusi che l’impresa fosse possibile.

Cosa possiamo notare leggendo gli articoli riportati in fondo a questo post?
Che la Rai trasmise solo la finale: altro che la libertà di scelta che abbiamo oggi (e ricordo proprio la diretta e la delusione che seguì al risultato. Avere potuto godere delle vittorie dei giorni precedenti non sarebbe stato bello?);
che parte del pubblico romano riempì il palazzetto ma poi lanciò monetine in campo (come successo al Foro Italico quando giocava Panatta, come successe a Monza qualche anno dopo contro Prost, come ogni tanto succede quando gli italiani vogliono sfogare la loro mancanza di cultura sportiva, mancanza poi un po’ ridotta negli anni);
che nonostante ciò la maggior parte del pubblico giovane festeggiò i giocatori; che questi furono resi cavalieri come aveva affermato Dall’Olio dopo la vittoria su Cuba.
Quei mondiali segnarono anche l’eclissi del Giappone, oltre all’emergere delle atletiche nazionali latino americane e al predominio assoluto dell’Unione Sovietica: si dice che i sovietici avrebbero potuto far giocare quattro nazionali diverse e vincere comunque l’oro.
Di quell’evento resta visibile oggi, grazie a internet, anche il documentario a lungo introvabile girato in super 8 da Giulio Berruti: Il Gabbiano d’Argento, che ho inserito in cima a questo post e che è il nome col quale la squadra è ricordata.
Quel mondiale fu anche una sorta di rampa di lancio e di costruzione di quegli atleti che avrebbero formato dieci anni dopo la Generazione dei Fenomeni.

http://www.sportvintage.it/2011/05/08/quando-litalia-scopri-il-volley/

http://mariellacaruso.blogspot.it/2010/07/gabbiano-dargento-la-strana-origine-di.html

 

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