Sulla generazione dei fenomeni è già stato scritto tutto. Che vuoi lirizzare ulteriormente? Sono bastati pochi articoli letti sui successi storici della pallavolo maschile italiana per pensare di scrivere qualcosa di personale, invece. Sì, perché a quelle vittorie e anche a quelle sconfitte sono associati degli episodi della mia vita che ricordo particolarmente bene. Inoltre certi risultati e certi atteggiamenti possono voler dire molto di come una certa mentalità perdente o basata sugli alibi possa essere sconfitta.
Ricordo la corsa in auto per tornare dalla discoteca (uno di quegli ambienti dove mi sono spesso sentito un pesce fuor d’acqua). Ricordo un sorpasso azzardato. Ricordo la partita in diretta su “sempre sia lodata quella” Telemontecarlo, mentre la Rai-di-tutto-di-più era assente. Ricordo qualcuno a tavola dire che i cubani erano superiori dopo il primo set vinto da loro. Sono sempre stato circondato da gente che riteneva che le vittorie degli italiani erano frutto della crisi altrui e le sconfitte frutto di complotti altrui o dabbenaggine propria. Su questa linea d’onda c’era anche Gianni Brera, comunque.
Quella nazionale ha rappresentato una svolta rispetto alla mentalità vittimista, complottista, incline al lamento e magari al chiagn’efotti. Ci voleva un tecnico argentino come Julio Velasco per spiegare che non esistono squadre imbattibili: per vincere basta fare in modo di essere migliori di loro e se non ci riusciamo dopo avere dato tutto, be’, pazienza, succede. Lo sport deve insegnare prima di tutto a saper perdere.
Quella nazionale è stata la più vincente d’Italia. E’ stata la dominatrice del mondo per un decennio. E’ stata quella che ha portato la pallavolo in tutte le case e che ha fatto sì che i palazzetti si riempissero, che le squadre italiane si arricchissero di campioni e di successi internazionali, che le tv la trasmettessero e la seguissero. Fino alla Generazione dei Fenomeni c’era stato il buio se, salvo successi sporadici come quello del Gabbiano d’Argento (che forse ha posto le basi per il decennio successivo.) Dopo, invece, ci sarà l’esplosione delle vittorie al femminile, culminata coi mondiali del 2002 (oro) e del 2014 (quarto posto in casa, ma entusiasmo alle stelle.) Ci saranno un oro e un bronzo olimpici tra i maschi e tante sconfitte ai quarti per le donne. E’ il segno del movimento, dello sport italiano che non si limita a raccogliere i successi legati al campione o ai campioni di una stagione, ma crea una base e su quella riesce anche a costruire vertici capaci di vincere o almeno di essere competitivi nel lungo periodo.
Questo passaggio dalla vittoria sporadica alla costanza di successi e al boom nel livello medio e di base si verificherà proprio a fine anni Ottanta in altri sport, come lo sci, il tennis femminile (più avanti, a dire il vero,) la pallanuoto, il nuoto, lo stesso motociclismo.
La prima grande vittoria della Generazione dei Fenomeni risale al primo ottobre 1989. L’importanza del connubio tra l’allenatore argentino e una generazione di talenti è sottolineata in questo bellissimo articolo. http://www.gonews.it/2014/10/01/julio-velasco-e-la-nascita-della-generazione-dei-fenomeni/
Ci volle un argentino ex-comunista, amante dei romanzi di Emilio Salgari e convinto assertore della scienza applicata allo sport per rovesciare le gerarchie del volley e porre fine alla dittatura delle squadre d’Oltrecortina. Ci volle Julio Velasco, il primo allenatore azzurro a tempo pieno, arrivato sulla panchina della nazionale sull’onda di un profondo rinnovamento della Federazione e dei quattro scudetti consecutivi vinti con Modena. Qui fu baciato dalla sorte e incrociò un drappello di potenziali campioni che non aspettava altro che di essere condotto sulla via della gloria sportiva. Velasco li sgrezzò, li istruì, li privò delle remore psicologiche che ne impedivano la piena espressione agonistica e li trasformò nella “Generazione di fenomeni”, il compatto e talentuoso gruppo di fuoriclasse che issò stabilmente l’Italia al vertice della pallavolo internazionale, instaurando un predominio senza paragoni nella storia dello sport italiano.
Quando il tecnico di La Plata prese il comando delle operazioni, lo stato di prostrazione del movimento azzurro era tale che erano diventati luoghi comuni le consolatorie giustificazioni di tanta povertà di risultati. Il campionato è troppo lungo, si diceva, e i giocatori arrivano stanchi alle competizioni internazionali. Nelle scuole elementari latita l’educazione fisica, la popolazione manca dunque della base motoria necessaria per eccellere nelle discipline meno spontanee. I latini, si sosteneva con tono antropologico, non sono portati per uno sport di concentrazione e di grande disciplina tattica, sono creativi ma incapaci di sottostare alle ferree tattiche e agli schemi che governano la pallavolo.
Frottole, replicò Velasco; quello che conta è allenare bene la nazionale.
E così, un successo tirava l’altro. E che successi! L’Italia diventerà la nazionale più forte del mondo.
Nel 1990, il giorno di cui parlavo all’inizio del post, gli azzurri battono Cuba in finale, dopo aver perso contro i latinoamericani nel turno di qualificazione. Ha scritto il giorno dopo la vittoria Gianni Mura:
GRAZIE ragazzi. Quando a Lucchetta è spuntato un tentacolo al posto del braccio sinistro ho capito che era fatta, e poi Bernardi ha messo giù quella maledetta palla del 16-14. Grazie ragazzi, lo ripeto. Per la gioia che mi avete buttato addosso, per gli anni che mi avete levato. Ho seguito la pallavolo dei vostri zii, se non dei vostri padri, quando i tecnici erano Anderlini, Federzoni, quando i giocatori erano dilettanti, come Roncoroni che avrebbe fatto il cardiochirurgo, De Angelis l’ avvocato, Mattioli l’ allenatore. Quando si andava in Bulgaria, vent’ anni fa, e si poteva perdere anche col Belgio, si finiva a Yambol (posto terrificante) a giocare con la Mongolia e il Venezuela per conquistare un quindicesimo posto che non importava nulla a nessuno. Allora, perdere 3-O con le squadre dell’ est era normale, già bravi a tenerli in campo più di un’ ora. E’ cambiato tutto, non il fascino del gioco. Avete battuto il Brasile al quinto set in un Maracanazinho tutto per i brasiliani. Avete battuto Cuba in un Maracanazinho tutto per i cubani, così imparate a far fuori il Brasile. Solo un centinaio di italiani a fare un tifo sonoro e giusto (neanche un vaffa, via satellite). E lo stress, questa paroletta così cara al nostro calcio, evidentemente non vi ha preso testa e cuore e muscoli, nel girotondo estenuante di cambipalla, di match-ball.
E così ne arriveranno tante altre: l’elenco dei successi è ben riassunto su Wikipedia.
Dicevo dei ricordi personali. Una delle più grandi delusioni dello sport italiano ha fatto seguito, per quanto riguarda la mia vita, a una delle più belle e faticose camminate che abbia fatto. Un giro a piedi di ore e ore lungo il monte Falterona. Dico solo che penso che mangiare un lampone verso le sette di sera, quasi al termine di un’estenuante risalita sotto la nebbia da Castagno d’Andrea al passo della Calla, mi abbia come restituito quel briciolo di forze che mi erano quasi venute a mancare. Più che una cena, dopo il ritorno a casa, ricordo una grande abbuffata e poi la finale olimpica di Atlanta ’96. Certo che ce ne vuole per giudicare una delusione un argento olimpico, eppure è così: chi più di quella nazionale, peraltro favorita, meritava l’oro olimpico? Il suggello della Generazione dei Fenomeni, ma forse è giusto così: insegnarono a saper perdere, non lamentandosi di niente, ma affermando semplicemente che gli olandesi erano stati più bravi. Oggettivamente, invece, erano più forti i brasiliani ad Atene 2004 (Italia sconfitta in finale 3-1 e un altro argento portato a casa.) Qui il ricordo è più personale ancora e riguarda il match visto in casa di amici, due giorni dopo la stupenda vittoria della squadra di pallanuoto femminile e un giorno dopo la finale di basket persa dall’Italia contro la Lituania. Poche ore dopo l’argento della pallavolo, Baldini avrebbe conquistato l’oro nella maratona conclusiva. Ricordo la frase:”Un altro argento no, eh.”