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Lo stupore delle prese elettriche

Il buon metodo contributivo

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Da “Chi ha paura delle riforme” di Elsa Fornero
Il pilastro pubblico è un contratto tra generazioni.
I giovani ereditano ricchezza dalle generazioni passate: conoscenza, educazione, titoli, proprietà, capacitò produttive, ambiente, infrastrutture, beni artistici. Su questo versante si può annoverare come elemento di capitale sociale un sistema previdenziale pubblico ben disegnato, sostenibile, equo, efficiente, trasparente. Sul versante negativo c’è il debito pubblico, oltre al debito ambientale.
Per stendere questo contratto si deve decidere nell’interesse di tutti i soggetti che da esso traggono e trarranno benefici e obblighi e questo è il compito della poltiica. Una parte di questa platea può non avere le conoscenze finanziarie adeguate, altri sono minorenni, altri sono non ancora nati. Non si può decidere basandosi su obiettivi di breve periodo.
È stato concepito un modo per dare forma migliore al contratto intergenerazionale implicito nel sistema pensionistico: il sistema nozionale a contribuzione definita (notional defined contribution) introdotto da Svezia e Italia intorno a metà anni 90.
Il termine «nozionale» implica che la capitalizzazione dei contributi versati sia calcolata ma non materialmente effettuata nel mercato finanziario perché il sistema è a ripartizione e non ci sono risorse da impiegare.
Perciò questa capitalizzazione è virtuale e non basata sui tassi del mercato finanziario effettivo bensì su un tasso di rendimento che scaturisce dall’economia reale e che è in grado di mantenere l’equilibrio strutturale del sistema, senza (nuova) accumulazione di oneri sulle generazioni future.
L’espressione «contributi definiti» si riferisce, a sua volta, alla formula usata per determinare l’importo della (prima) pensione e alle modalità della sua variazione negli anni (meccanismi di indicizzazione).
Con questo sistema, ciascun lavoratore ha un proprio «conto pensionistico» nel quale vengono registrati (a cura dell’ente previdenziale) tutti i contributi versati. Il conto, né più né meno di quanto avviene con un deposito a risparmio, è soggetto alla forza della «capitalizzazione composta», consistente nella generazione di interessi sugli interessi, per cui, data una somma iniziale, il rendimento annuo della stessa viene accumulato per generare altro rendimento. Ne discende che, a parità di somma versata, il capitale finale (montante) realizzato a una determinata età – poniamo 65 anni – sarà tanto maggiore quanto più bassa sarà stata l’età dell’iniziale versamento (entrata nel mondo del lavoro) e quanto più frequente l’aggiunta al capitale del rendimento nel frattempo maturato.
Affinché il sistema sia in equilibrio finanziario, in mancanza di un tasso di mercato, il tasso di rendimento riconosciuto sui contributi deve corrispondere al tasso di crescita della massa dei redditi da lavoro ai quali si applicano le aliquote contributive che può essere approssimato dal tasso di crescita del pil. Il metodo rende pertanto possibile determinare l’ammontare della pensione in funzione di tutti i contributi versati, senza necessità di investire tali contributi nei mercati finanziari. Il messaggio è che ogni singolo euro versato conta ai fini della pensione e gli euro versati a un’età più giovane contano più degli altri.
A parità di capitale accumulato quanto maggiore è l’età di pensionamento tanto maggiore è il livello della pensione (quanto più tardi si va in pensione tanto minore è l’aspettativa di vita residua e quindi tanto maggiore può essere l’ammontare della pensione, senza effetti negativi per il bilancio previdenziale).
La formula a contributi definiti dà rilievo al risparmio assicurativo di un sistema pensionistico, aumenta la trasparenza, evita il problema della tassazione implicita che la formula retributiva di calcolo impone sulla ricchezza pensionistica quando il lavoratore decide di proseguire l’attività. Realizza uno scenario neutrale che riduce la somiglianza dei contributi alle imposte e favorisce la portabilità pensionistica richiesta da un emrcato del lavoro più dinamico che in passato. Il conto pensionistico segue il lavoratore.
La formula permette la seperazione tra previdenza e assistenza. Non si applica il metodo contributivo nel caso di lavoratori sfortunati, con carriere lavorative povere e segmentate, si garantiscono loro benefici superiori ai contributi versati, finanziando il di più con le imposte anziché coi contributi. È iniquo che si faccia la stessa cosa coi percettori di redditi elevati.
La formula è compatibile con una certa flessibilità di uscita e non richiede un’età legale di pensionamento. A evitare che i lavoratori scelgano di andare in pensione a un’età troppo bassa col rischio che la pensione possa diventare inadeguata ai bisogni di età via via più elevate il principio del pensionamento flessibile deve essere coniugato con alcuni requisiti. Anzitutto un’età minima di pensionamento, accompagnata da un livello minimo di pensione da raggiungersi coi propri contributi inclusi quelli figurativi per periodi di disoccupazione e di cura di familiari disabili.
A partire dall’età minima il lavoratore può scegliere di andare in pensione entro una determinata fascia di età, il che conferisce flessibilità alla scelta di pensionamento, ma anche responsabilità, posto che il lavoratore sa che se va in pensione all’età minima o a età giovani ha diritto, a parità di capitale, a una pensione inferiore e se continua a lavorare non è penalizzato (come nel caso della tassazione implicita propria della pensione di anzianità con formula retributiva). La formula contempla aggiustamenti in funzione dell’età di pensionamento che premiano il proseguimento dell’attività lavorativa. Poiché la pensione è calcolata all’inicrca dividendo il capitale nozionale accumulato per l’aspettativa di vita residua di quella classe di età, un allungamento del periodo di lavoro implica un capitale più elevato diviso per un numero di anni inferiore. In altre parole una somma più elevata (per effetto dei maggiori contributi e della più lunga capitalizzazione) si divide per un divisore più piccolo, come deve essere nella logica di un piano di risparmio, ancorché pubblico e obbligatorio.
L’età minima e la fascia di età richiedono aggiustamenti periodici che tengano conto dell’allungamento della vita. Il disegno previdenziale può prevedere aggiustamenti automatici che indicizzino l’età minima di uscita e i coefficienti per il calcolo delle pensioni all’aspettativa di vita. Se questa aumenta ha senso lavorare più a lungo magari cercando di ripartire la maggiore durata della vita tra attività di lavoro, tempo libero e tempo di formazione, per esempio attraverso forme di pensionamento graduale.
Il metodo è una buona sintesi di obblighi, diritti, libertà di scelta individuale, responsabilità personali. È acquisito il diritto che corrisponde al risparmio accumulato, ai suoi rendimenti, alla speranza di vita. Il resto è solidarietà o privilegio. Col contributivo si eliminano i regali alle categorie di lavoratori più ricche e fortunate.
Il metodo può essere tarato sulla famiglia e prevedere dei benefici supplementari inclusi nel coefficiente di trasformazione del capitale in rendita. Come la pensione ai superstiti o all’ex coniuge. L’aliquota può anche essere fatta variare: più bassa per i giovani e più alta per i meno giovani.
L’uniformità della regola evita la frammentazione del sistema in diversi regimi.
Notiamo che la scelta di continuare a lavorare dipende da vari elementi ma il metodo retributivo rendeva sconveniente continuare a lavorare, con ciò riducendo i redditi da lavoro che sono la base della sostenibilità finanziaria delle pensioni.
Il problema delle differenze nelle condizioni di salute e mortalità esiste. Esiste anche nella formula a benefici definiti: poiché la formula contiene un regalo implicito ai redditi più elevati, protrarre il regalo aggrava l’iniquità.
Allora si interviene assicurando rendimenti inferiori a scaglioni di redditi più elevati.
Nella formula a contributi definiti la correzione che tenga conto di diverse condizioni di salute e mortalità può avvenire attraverso una riduzione dell’età minima di pensionamento per attività usuranti, col riconoscimento di periodi figurativi di contribuzione per evitare che la pensione sia troppo bassa. Nel metodo retributivo si interveniva assicurando rendimenti inferiori a scaglioni di redditi più elevati.
La disparità nell’età pensionabile tra uomini e donne non ha ragione di essere. È una sorta di palliativo per compensare forme di discriminazione subite durante l’età da lavoro. Peraltro le donne hanno aspettativa di vita superiore. La parità di trattamento richiederebbe l’uso di tavole di mortalità differenziate per il calcolo della pensione. L’uso di tavole unisex costituisce uno svantaggio per gli uomini. Ciò non è particolarmente accettabile in un’ottica di parità.
In ogni caso, col contributivo, senza una buona vita lavorativa (in termini di qualità, continuità, lunghezza, reddito complessivo) è impossibile avere una buona pensione. La politica allora deve concentrarsi sulle condizioni che favoriscono l’occupazione del maggior numero di persone e deve assistere chi ha avuto una vita di lavoro sfortunata.
Un buon mercato del lavoro è il miglior presupposto per buone pensioni. Un buon sistema pensionistico incoraggia l’occupazione. Quando il sistema crea una forbice tra contributi e prestazioni, a scapito dei primi per esempio garantendo un’età di uscita troppo bassa o un elevato tasso di sostituzione, si manifestano ripercussioni sull’offerta di lavoro. È accaduto alle donne, con pensionamenti anticipati, generose pensioni di reversibilità, inopportuna riduzione della partecipazione al mercato del lavoro (si è anche meno incoraggiate a investire in formazione e crescita se si ha la prospettiva di un pensionamento giovane).
Lasciare al lavoratore la facoltà di scegliere il momento della pensione è buona cosa. Però la previdenza pubblica è obbligatoria, configura un contratto tra generazioni, le scelte del singolo possono influenzare i risultati collettivi. Allora aliquota contributiva, requisiti per l’accesso al pensionamneto (età, anzianità, anni di contribuzione, minimo pensionistico) devono essere decisi per la collettività degli iscritti di oggi e di domani e questo riduce i margini di scelta individuale.
I lavoratori rispondono agli incentivi. Se continuare a lavorare vuol dire perdere qualcosa si sceglie il pensionamento. Nella formula contributiva sono impliciti un’età minima di pensionamento (senza la quale il sistema pubblico si snaturerebbe assomigliando a una assicurazione privata), un livello minimo di pensione (per non avere pensioni troppo basse), un elemento attuariale che premi la continuazione dell’attività. Col contributivo si possono favorire forme di pensionamento graduale che permettono di combinare lavoro part time con una pensione parziale.
È opportuno che l’aumento della ricchezza pensionistica cessi a una certa età, oltre la quale la permanenza nel lavoro dovrebbe essere scoraggiata anche per favorire l’uscita di categorie gerontocratiche dove la continuazione dell’attività è motivata da prestigio e potere e non da efficienza.
Nessun sistema pensionistico può correggere i limiti del mercato del lavoro. I segmenti più deboli del mercato del lavoro sono anche quelli più vulnerabili per la pensione: giovani, donne, anziani, precari. Occorre adottare misure di accompagnamento, di integrazione, di attivazione (apprendistato, garanzia giovani, servizi per il lavoro). Riconoscere contributi figurativi per i periodi di disoccupazione è coerente con lo spirito del metodo contributivo e con la solidareità che si deve a chi non trova lavoro ma lo cerca.
Programmi di formaizone per gli anziani, allargamento delle opzioni di lavoro a tempo parziale e occasionale ma regolare, prestiti pensionistici, contributi figurativi possono essere strumenti per tenere al lavoro gli anziani.
Col contributivo donne e uomini sono alla pari. Finché il lavoro le discrimina questa parità si ritorce contro di loro. È la parita nel lavoro che occorre perseguire senza concessione né premi di consolazione.
Senza una soluzione nell’occupazione e nei redditi i problemi sarebbero comunque trasferiti sul bilancio pubblico e pertanto sulla tassazione o sul debito.
Per una migliore diversificazione del rischio molti paesi hanno optato per un sistema multipilastro, rompendo con una tradizione che affidava i redditi anziani al sistema pubblico ma evitando la privatizzazione totale che ha funzionato in Sudamerica finché sono scoppiate le crisi finanziarie.
Il tasso di rendimento applicabile in un sistema a ripartizione finanziariamente equilibrato coincide quasi con il tasso di crescita del pil. La crescita del pil ha andamenti ciclici attorno a un valore di medio lungo periodo. Per il futuro ci si aspetta che si collochi tra 1,5 e 2% in termini reali. Un tasso basso ma stabile. Il tasso dei mercati finanziari, in particolare azionari, è più elevato. Una stima di lungo periodo potrebbe essere del 5 6% medio annuo reale ma anche molto più variabile. Dovrebbe realizzare la diversificazione temporale del rischio. Periodi di rendimenti bassi si compensano con periodi alti.
La maggior volatilità del mercato finanziario significa che anche se nel lungo periodo i risultati probabilmente saranno migliori rispetto a quelli ottenibili nel sistema pubblico, nel breve si possono conseguire risultati peggiori. Proporsi il maggior rendimento senza accettare il maggior rischio collegato è impossibile. Garanzie sui rendimenti sono possibili ma sono imperfette (raramente vanno oltre il tasso nominale di rendimento) e mai gratuite, sia che lo offra il mercato (e il costo abbassa il rendimento netto) sia che le offra lo stato (e il costo grava sui contribuenti). Ciò non significa che non vadano ricercate. Anzi le garanzie appropriate vanno ricercate in modo da trovare una via di uscita tra eccsso di sicurezza a scapito delle generazioni future e eccesso di responsabilità sulle generazioni anziane.
Il pilastro pubblico è meno vantaggioso ma, oltre a svolgere compiti di tutela dei più deboli, è anche più sicuro, pur senza trascurare, oltre al rischio demografico e quello di produttività c(che determniano le variazioni di crescita del pil), il rischio di una gestione politica miope o clientelare che, promettendo troppo ad alcune generazioni o categorie, penalizza quelle successive o altre categorie. Il mercato finanziario dovrebbe essere in grado di offrire in media nel lungo termine rendimenti più elevati ma al prezzo di un rischio maggiore e di una variabilità maggiore.
L’individuo partecipa a tutti e due i sistemi e cerca di compensarli. La parte che è impiegata nel sistema pubblico trae beneficio dagli incrementi demografici e di produttività, anche se è esposta al rischio di variazioni legislative sfavorevoli. La parte dei mercati finanziari è remunearata maggiormente ma è anche esposta alla maggior variabilità che li contraddistingue.
Alla base del sistema misto quindi non sta l’eliminazione del rischio complessivo, ma la sua attenuazione, ciò che può realizzarsi se i rischi specifici delle due componenti sono poco correlati o hanno correlazione negativa in modo che nel medio lungo periodo i rendimenti finanziari possano compensare una crescita del pil relativamente bassa e viceversa. Naturalmente, per integrarsi bene, le due componenti devono essere entrambe ben disegnate e funzionare in modo coerente. Ciò richiede che la previdenza pubblica applichi regole pensionistiche sostenibili e che quella privata sia caratterizzata da trasparenza, professionalità, competizione, buona supervisione, buona informazione, buona familiarità coi concetti della finanza.
Abc of nonfinancial defined contribution schemes si trova su www.iza.org. Il sistema fu adottata da Svezia e Italia. La Svezia lo tradusse immediatamente in pratica. L’Italia decise di applicarlo solo ai nuovi entranti e in parte alle generazioni giovani. Furono esentati dall’applicazione della nuova formula coloro che avevano 15 o più anni

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