Fosse stato un articolo di un giornale italiano o una pseudo inchiesta di trasmissioni televisive potevo anche non farci caso. Inchieste a tesi precostituite, pregiudizi, ignoranza, malafede, attenzione alle esigenze del politico o dell’editore o del target di lettori sono caratteristiche dominanti nell’informazione italiana.
Però questa volta si trattava del New York Times! D’accordo che già Mark Twain sosteneva che il giornalista è colui che discerne il vero dal falso e pubblica il falso e va bene che anche giornali anglosassoni come il Telegraph o il Guardian o il Daily Mail o il Sun o la Bild e così via scrivono in modo un po’ pregiudizievole o sensazionalista. Però mi sembrava strano.
La domanda che resterà senza risposta è: il mondo dell’informazione è marcio o almeno è fondato su pregiudizi in tutto il mondo? Chissà. Un articolo non fa primavera.
L’articolo in questione riguarda Amazon. Non sappiamo se il NYT abbia degli interessi in contrapposizione. Può essere che gli autori volessero indagare e fossero in buonafede: se cerchi il torbido, lo trovi e ti dimentichi di fare fact checking. Oppure nascondi il “non torbido.”In fin dei conti i giornalisti hanno intervistato degli ex dipendenti della Società e hanno anche ricevuto rifiuti a rispondere da parte degli attuali dirigenti, dicono. Possiamo giustificarli? O sapevano che scrivere come se si stesse scoperchiando chissà quale segreto ha dei vantaggi in termini di letture e di guadagni?
Non possiamo saperlo, ma possiamo commentare cosa hanno scritto e confrontarlo con quanto hanno scritto altri.
Secondo l’articolo del New York Times, basato su interviste raccolte, la vita dentro Amazon è un inferno a cui resiste poca gente e sempre più persone se ne stanno andando. La parte interessante è quest’ultima: se in tanti se ne vanno, l’azienda è destinata a fallire, no? Oppure a cambiare strategia.
Un dipendente attuale della Società ha scritto un post su Linkedin dove bolla come falsità buona parte delle affermazioni contenute nell’articolo originale. Non nasconde il fatto che certe storie erano giunte alle sue orecchie prima che entrasse e che può essere che l’articolo contenesse quindi delle “verità passate” o forse “verità parziali.” Fatto sta che non racconterebbe la situazione interna all’azienda, nella sede di Seattle, oggi.
Ovviamente su questa storia si sono buttati in molti, da giornaliste figlie di papà sul Corriere della Sera a giornali da radical chic come Internazionale. Non mi interessa occuparmi di loro.
Delle persone comuni hanno pensato di iniziare a boicottare Amazon oppure hanno avuto conferma dei propri pregiudizi: la multinazionale è cattiva e chi dice il contrario è pagato. Queste sono convinzioni interiori che non possono essere modificate dalla realtà o da altre considerazioni. E’ come credere in un dio o negli astri. La realtà o la scienza non contano se differiscono dai propri pregiudizi.
Io non vedo il motivo di boicottare. Chi va a lavorare al centro direzionale di Amazon sa qual è la situazione, fa dei colloqui, ha la possibilità di leggere tutti gli articoli e i libri scritti sulla Società e soprattutto potrebbe scegliere, presumibilmente, su altre mille aziende in tutto il mondo. Quindi la sua scelta di lavorare lì è consapevole. Se poi non ce la fa o non gli piace il posto di lavoro ha tutte le possibilità di andarsene e di trovare chi fa carte false per accapparrarselo. Ora, secondo l’articolo del NYT, ci sono aziende che non vorrebbero assumere ex amazoniani perché troppo aggressivi e inoltre ci sono delle penalità a carico di chi esce dopo uno o due anni soli. Se questo è vero e malgrado ciò una persona consapevole e qualificata sceglie Amazon, sono fatti suoi. Non si vede perché boicottare.
Qualcuno dice che poi l’andazzo della Società cadrebbe a cascata su tutti gli altri lavoratori dipendenti in tutte le aziende del mondo. E’ impossibile che questo avvenga già a Seattle: i benefit sono un modo per farsi concorrenza e accaparrarsi i migliori. E gli altri? Ogni azienda ha il suo modo di essere e di operare e di trattare i dipendenti. Non esistono aziende uguali. Basta avere letto libri di Corporate Strategy o semplicemente avere lavorato in posti diversi per rendersene conto.
Pensiamo anche a quali erano le condizioni di lavoro in aziende italiane artigianali negli anni Cinquanta o Sessanta: multe per chi andava in bagno, pianti e pochi soldi (a differenza che in Amazon.) Tuttora in aziende artigianali, poi magari fallite, si parla di imprenditore che bussa alla porta del bagno quando una persona è dentro. Vogliamo parlare di pianti dovuti a rimproveri da parte di capi ignoranti? Parlare di aziende artigianali dove l’imprenditore padre padrone urlava a ogni piè sospinto verso gli impiegati? Vogliamo parlare di aziende che minimizzano lo stipendio fin da subito nascondendosi dietro ai livelli di ingresso? Parliamo di aziende per le quali lavorare il sabato mattina è sostanzialmente obbligatorio, ma tanta produzione non serve a nulla viste le perdite e i fallimenti? Parliamo di aziende che fanno lavorare gli impiegati comuni per le feste comandate perché è indispensabile fare fotocopie e lamentarsi invece di lavorare in Amazon ottanta ore a settimana, se è vero, salvo il fatto di potersi sentire al top nella propria professione?
Siamo sicuri di cosa sia meglio?
Il caso Amazon – NYT (prima parte.)
27 Settembre 2015