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Impronta ecologica? Si può cancellare.

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L’impronta ecologica intende misurare l’ammontare di terra ecologicamente produttiva, rinnovabile e non rinnovabile, che è richiesta per sostenere la domanda di risorse e assorbire gli sprechi di una data popolazione o di attività specifiche. L’impronta è espressa in acri globali. Ogni unità corrispondente a un acro di spazio biologicamente produttivo determina la produttività media mondiale. Confrontando questo ammontare con l’ammontare di terra ecologicamente sostenibile si hanno deficit o surplus. Questo indicatore calcola i consumi nazionali sommando le importazioni e sottraendo le esportazioni dalla produzione nazionale. Questa misura è calcolata per 72 categorie. Dividendo il totale consumato in ciascuna categoria per la produttività ecologica (rendimento per unità di superficie) si ha l’uso delle risorse
L’impronta ecologica è una misura della sostenibilità del consumo di una popolazione.
Tutti i consumi sono convertiti nella terra usata per produrre quanto consumato insieme alla terra teorica necessaria per sequestrare i gas serra prodotti.
Il lavoro di condensare una matrice di consumi in un numero singolo, intuitivo, è raccomandabile.
Troppo spesso tale misura è usata in argomentazioni sulla sostenibilità dei consumi passati, attuali e futuri. Argomentazioni che sono cattiva economia e che sono contraddette dai dati storici.
Vandenbergh and verbruggen già nel 1999 hanno effettuato un’analisi dell’indicatore evidenziando diversi punti critici. Questi punti sono poi stati ulteriormente sviluppati da Fiala nel 2008.

Problema numero uno: l’energia.
Oltre il cinquanta per cento dell’impronta delle nazioni ad alto e medio reddito è dovuto all’ammontare di terra necessaria per sequestrare i gas serra. Oltre a quanto dicono B&V è importante notare che, anche se i gas serra vanno ridotti, non è chiaro dal punto di vista ambientale, oltre che economico, se tutti i gas serra prodotti debbano essere eliminati. Questo è importante perché se il Global Footprint Network stabilisce che l’umanità sta consumando più del 25% delle risorse che costituiscono la biocapacità della Terra, ma solo il 50% della produzione attuale dei gas serra è insostenibile, allora l’umanità rientra nei limiti di sostenibilità come definiti dall’impronta.

Problema numero due: i confini.
Da un punto di vista ambientale, i confini storici o amministrativi sono irrilevanti. Piuttosto che misurare la sostenibilità di una data area, l’impronta di una regione misura la disuguaglianza delle risorse. Per esempio la differenza nell’impronta pro capite dell’Olanda o del Benin è dovuta alla differenza nel consumo pro capite, che è dovuta alla differenza nel reddito procapite tra le due nazioni. La stessa cosa si rileverebbe facendo confronti entro la stessa nazione.
Il confronto dell’impronta tra nazioni o città poggia su confini che sono arbitrari e quindi potenzialmente insignificanti. Questa critica è possibile per ogni definizione che poggia su confini nazionali, ma il problema è particolarmente rilevante sul tema della biocapacità relativa, laddove il consumo medio in una nazione è moltiplicato per la popolazione mondiale e confrontato con la capacità della Terra.
Per esempio Moran afferma che se tutti nel pianeta consumassero come l’americano medio, sarebbero richiesti tre pianeti nel 1975 e cinque pianeti nel 2003 per sostenere tali consumi. La moltiplicazione per l’impronta media però non considera la varianza entro una nazione e quindi fa una assunzione forte circa i livelli di consumo, che poi generalizza. Inoltre fa un’assunzione forte sulla biocapacità della terra.

Problema numero tre: lo sviluppo tecnologico.
Nel calcolo dell’impronta ecologica il livello tecnologico assunto per produrre un prodotto, o è una media mondiale di tecnologie, chiamata ettaro globale, o è un mix basato sui dati degli scambi commerciali di tecnologie locali e importate.
I cambiamenti tecnologici rendono inutile l’impronta ecologica per capire gli effetti della crescita futura dei consumi. Per esempio mentre gli individui nei paesi sviluppati aumentano i loro consumi rapidamente e possono raggiungere quelli dei paesi sviluppati, l’impronta ecologica non può determinare dove condurrà questo incremento dei consumi poiché descrive la crescita della produzione SENZA considerare il progresso tecnologico.
Ciò porta alla considerazione che l’impronta ecologica è inutile per fare previsioni sul futuro e inoltre presenta un errore logico quando confronta il livello dei consumi e la biocapacità della Terra.
I confronti sulla biocapacità, come l’argomento che se tutti consumassero come gli americani ci vorrebbero cinque pianeti, assumono che il consumo medio di un’area si possa estendere all’intera popolazione mondiale, con tutta la produzione al livello attuale della tecnologia. Tuttavia questo tipo di calcoli è senza significato e parziale: prima che tale crescita si verifichi la tecnologia avrà fatto presumibilmente progressi. Storicamente è sempre stato così. Inoltre l’analisi trascura del tutto la funzione allocativa dei prezzi.

Problema numero quattro: produzione intensiva o estensiva.
Negli ultimi cento anni i consumi sono cresciuti drammaticamente. Questo incremento ha richiesto tempo, non è avvenuto dal giorno alla notte ed è dovuto a cambiamenti nelle preferenze, nei redditi (la capacità di domandare certi prodotti) e (più importante) nei cambiamenti tecnologici (la capacità di produrre e offrire certi prodotti.)
Supponiamo di avere un paese povero che importa cibo da un paese ricco il quale riesce a soddisfare le proprie esigenze di cibo e a esportarlo al paese povero. Supponiamo che aumenti la ricchezza dei cittadini del paese povero e che questi chiedano più cibo. Aumenteranno anche i prezzi e questo spingerà i produttori a offrire più cibo. Come fare? O i produttori usano più terra per produrre più cibo o riescono a usare la stessa terra di prima in modo più efficiente investendo innanzitutto in ricerca e sviluppo, in migliori macchinari, in migliori metodi di produzione ecc. Questo non avverrà dall’oggi al domani, naturalmente. Comunque il caso di produzione estensiva rientra nel modello dell’impronta ecologica, ma quello di produzione intensiva no. In questo secondo caso il mercato raggiungerà un equilibrio in cui la persona media consumerà più cibo, ma la terra usata per produrlo sarà uguale o addirittura inferiore o forse leggermente superiore a quella usata prima. Il consumo è aumentato, ma le risorse utiilizzate no. In ogni caso il modello non riesce a prevedere quanta terra sarà usata a seguito dell’incremento dei consumi e cade il principio secondo cui un aumento dei consumi porta inevitabilmente a un maggiore uso di terra.
La domanda è: storicamente, la crescita della produzione è stata determinata da investimenti di tipo intensivo o estensivo?

Dati storici sulla crescita della produzione.
La terra usata per le coltivazioni cerealicole rappresenta circa il 25% dell’impronta ecologica globale.
Tra il 1961 e il 2006 la produzione è incrementata ad un tasso annuo medio del 2,17%, il rendimento del 2,06%, la terra usata solo dello 0,09%. Ci sono chiaramente dei limiti allo sviluppo tecnologico e anche agli aumenti di efficienza. Alcune regioni non possono raggiungere, per limiti fisici o geografici o arretratezze varie, i livelli delle regioni sviluppate, o almeno non a medio termine. La produzione americana nel 2006 era più alta di quella media mondiale. Certamente molti paesi potrebbero comunque raggiungere tali livelli di produzione, ma per effetto degli aumenti di efficienza (ed eventualmente degli aumenti di prezzo in caso di scarsità di risorse) anche se tutti consumassero come gli Stati Uniti, una Terra sarebbe sufficiente.

Le altre categorie principali dell’impronta ecologica includono le costruzioni, le risorse naturali, le foreste, la produzione animale e le emissioni di gas serra. Molte di queste non incrementeranno molto rispetto ai valori attuali a causa del valore intrinseco degli investimenti intensivi. Una persona che si trasferisce in città userà meno terra per vivere di una persona in una fattoria. L’incremento marginale nell’utilizzo di terra di una persona che va a vivere in città è inferiore a quello medio degli abitanti attuali e quindi calcolare l’uso medio della terra per la persona che va a vivere in città distorce il calcolo della terra necessaria per usi futuri.
Gli stessi allevamenti intensivi riducono l’ammontare di terra necessario per il loro sostentamento e quindi l’ammontare fisico di terra necessario per produrre le categorie di beni indicate dal modello dell’impronta ecologica può ridursi in futuro anche se la produzione e i consumi aumentano.
Il problema con gli allevamenti intensivi, come con l’agricoltura intensiva, è un altro e riguarda l’erosione del suolo, la degradazione del terreno, la perdita di produttività a lungo andare.
Problema numero quattro.
Il modello dell’impronta ecologica è statico e non tiene conto di fenomeni come la degradazione della terra. Usare più terra in modo non degradante è più sostenibile rispetto a usarne meno ma al prezzo di distruggerla in breve tempo. Il modello non tiene conto di questo aspetto e quindi un’area potrebbe risultare di migliore impronta ecologica quando è vero il contrario.
Il modello non mostra una correlazione forte tra indici di sviluppo umano e degradazione della terra e non risulta robusto rispetto a diverse specificazioni di sostenibilità.
Infine il modello non coglie una relazione che sembra essere inversa tra erosione del suolo e aumento del rendimento della coltivazione dei cereali.

Conclusione di Fiala:
L’impronta ecologica offre una stima semplice e intuitiva degli input di produzione richiesti per un dato livello di consumo, ma fallisce nell’intento di essere una misura della sostenibilità dei consumi, come voleva essere.

Esistono misure più specifiche migliori: la land degradation, le co2 aggregations. Non è chiaro perché sia utile convertire i gas serra alla terra quando metano e ossidi nitrici sono già aggreagati inindicatori equivalenti di emissioni di gas serra. Guardare i tassi di erosione del suolo è necessario visto che l’impronta ecologica non ne tiene conto.

Conclusione di Verbruggen:
“Non possiamo asserire che l’impronta ecologica fornisca informazioni sufficienti sull’impatto ecologico e non pensiamo che questo indicatore sia utile per definire la sostenibilità regionale. L’applicazione dell’indicatore a un livello globale non fornisce nuovi insights: è ben noto che la specie umana minaccia l’ambiente, la natura e la biodiversità e può esaurire molte risporse naturali. L’applicazione dell’impronta a livello regionale fornisce informazioni che possono essere fraintese. Le ragioni princiali sono che l’indicatore è troppo aggregato, usa uno scenario di energia sostenibile fisso, rappresenta usi della terra ipotetici piuttosto che effettivi, non distingue tra uso sostenibile e insostenibile della terra, non riconosce i vantaggi della concentrazione spaziale e della specializzazioni, in alcune applicazioni soffre di pregiudizi contrari al commecio. Questi pregiudizi possono portare alla conclusione che il deficit ecologico può ridursi solo attraverso l’espansione (uso di più terra) o attraverso riduzioni forzate della popolazione. In sostanza l’indicatore non può fornire informazioni utili ai decisori politici: supporta opzioni di politica insostenibili, inefficienti e anche immorali.
Il mercato può distribuire i pesi ambientali tra i sistemi naturali meno sensibili. Questo richiede che siano operativi i corretti incentivi o le corrette regolazioni a livello di associazioni, stati, coordinazioni per questioni transnazionali. La sostenibilità spaziale e lo scambio sostenibile devono essere approcciati da una prospettiva dinamica e non viziata da pregiudizi, prestando la dovuta attenzione agli input che derivano dalle scienze politico-sociali, ambientali ed economiche. La sostenibilità regionale dovrebbe fondarsi su bioregioni anziché su regioni amministrative. Gli indicatori dovrebbero fornire informazioni utili per permettere un giusto trade off tra efficienza economica, equità spaziale, sostenibilità ambientale.”

Una replica di Kitzes, Moran, Galli e altri (interpretation and application of the ecological footprint) dice semplicemente che l’indicatore indica quello che deve. In sostanza conferma le critiche. L’indicatore è statico, non tiene conto di varie cose e sostanzialmente è inutile per fini previsivi e per valutare la sostenibilità ambientale.

E’ comunque importante continuare a discutere sull’uso dell’impronta ecologica, senza trascurare i problemi o produrre argomentazioni erronee sulla sostenibilità di modelli di consumo attuali e futuri. L’utilità principale dell’indicatore è filosofica. Induce a tenere  presente che ci sono dei limiti all’uso delle risorse e all’espansione dei consumi, soprattutto per non inficiare la disponibilità di risorse per le generazioni future.

 

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