there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

Wild Atlantic Way: I miss you. (1)

Mi mancheranno questi spazi, questi colori, queste pennellate della natura, questo silenzio, questa ospitalità, questo senso di pace, di rilassatezza, di serenità.
Mi mancheranno i mille colori in cielo, in acqua, in terra e quelli nelle facciate delle case a Galway, Cork, Leenane, Doolin e nei paesi attraversati in autobus: Ennis, Limerick, Shannon, Mallow, Clarinbridge.

Mi mancheranno le isole Aran, formatesi 350 milioni di anni fa, scusate se è poco.
Le più desolate delle desolate land di tutto il viaggio. Le più wild di tutte le wild beauties viste. L’autista che ci ha guidato, mentre beveva la birra, lungo l’isola più grande delle tre Aran abitate, ci ha inondato di informazioni: so tutto sui muretti che separano le proprietà delle terre e degli animali, sui maglioni di lana e le scarpe fatte a mano, sull’arrivo negli anni Settanta dell’elettricità e del telefono, sulla sabbia e il fuco utilizzati per permettere la coltivazione di patate o cipolle su quelle terre, sulle foreste tagliate che hanno fatto sì che l’erosione del suolo lo rendesse arido e pieno di rocce e sabbia, sulle terrazze di pietra calcarea che caratterizzano tutta la regione del Burren.

Ricorderò il viaggio volontario sul ponte del traghetto a prendere l’acqua mentre pioveva, la salita fino al Forte di Aengus, costruito su una collina, maestoso, segno di prestigio, di potere da parte del re che l’ha costruito, e di difesa dagli attacchi dal mare. Le scogliere non sono meno belle delle Cliffs of Moher. Due ragazze americane, una delle quali del Wisconsin, arretrano quando vedono una massa di giapponesi armati di macchine fotografiche dirigersi verso la scogliera dove sono loro. “We need to trust people. Better to go behind.”. Il luogo invita al silenzio, alla contemplazione della maestosità della natura. Sembra quasi di essere in un documentario. Oppure in un film in cui a un certo punto arrivano dei giapponesi di merda che ridono, fotografano, parlano e staccano fiori da terra. Per fortuna basta scendere lungo la collina per godere di nuovo il silenzio e ammirare meglio quegli spazi sconfinati. Continuando il percorso dell’isola arriviamo a un luogo che sembra nato dalla fantasia di un autore di horror splatter: alghe, acqua verde, rocce nere, terra marrone, pietre scivolose, una specie di lago circondato da rocce e in fondo il mare, a cui, notoriamente, non importa nulla di essere azzurro o verde. In questo paradiso selvaggio riusciamo anche a vedere delle foche in mare, a scoprire l’esistenza di scuole dove la prima lingua è l’Irish (Irish is spoken, English is understood, era scritto in un pub a Galway,) a fare acquisti al mercatino, a bere una birra al pub, a sapere che esiste un corpo unico di polizia ma che non ci sono crimini perché si conoscono tutti.
Mi mancheranno i giri in autobus nel Connemara e nel Burren.
Animali al pascolo, muretti divisori, cottage, distese infinite di campi e di prati, colline di pietra calcarea, rocce selvagge, monti che degradano dolcemente sul fiordo o che scendono a picco sul mare.
Valli separate da fiordi, fiumi, laghi suggestivi, cascate, spazi sconfinati, erba rigogliosa, verde luminoso, fiori gialli, fiori viola, arbusti, shamerock, luoghi da film, chilometri e chilometri di natura incontaminata, sguardi spostati di trecentosessanta gradi senza che si vedessero costruzioni nel paesaggio.
Fattorie, pecore, mucche, cavalli, ranch, trattori, terreno che con l’avvicinarsi dell’estate si trasforma da marrone a verde.

Mi mancherà la sensazione di trovarmi beatamente in the middle of nowhere.
Ricorderò anche i paesini con le case basse, le facciate variopinte, le case in pietra, alcuni negozi che danno l’impressione che il tempo si sia fermato molto tempo fa, i noleggiatori di biciclette, i b&b lungo la strada, i farmers market, la Montessori school, la Buttevant Community, la strada dove ogni persona che ho visto zoppicava, i mucchi di paglia, le case di paglia, i tetti di paglia, qualche torre, qualche castello, qualche spiaggia.

Mi mancherà il viaggio alle Cliffs of Moher.
Imponenti, si lasciano erodere dall’acqua che diventa chiarissima, bianca e bluastra, quando si infrange su di loro o si appoggia alla loro base, dove si sono formate delle piccole spiagge. La gente scavalca le recinzioni e cerca di avvicinarsi il più possibile alle scogliere. E’ la voglia di esplorare e di conoscere: nessun divieto potrà fermare questo istinto umano.

Mi mancherà la costante variabilità del meteo.
Cielo coperto e pioggerellina appena alzato, già schiarito dopo colazione. Pioggia su un tratto di strada, sole appena fatta una curva. Nuvole nere e pioggia all’abbazia di Killermore e trasformazione dei colori delle nuvole immediata.
Diluvio, nebbia, vento forte, mare agitato alle Cliffs of Moher. Cinque minuti ed ecco la trasformazione che porta in breve a cielo sereno, assenza di vento, aria limpida, mare calmo.
La regola è porta sempre qualcosa per ripararti dalla pioggia, ma non dare troppo peso al tempo: se non ti piace, aspetta cinque minuti.
Mi mancherà il senso di godimento nei tratti al sole, la stranezza delle showers, il vento che porta via, i momenti di freddo intenso, il cielo affollato di nuvole multicolori spesso in movimento, i suoi sprazzi di varie tonalità di blu.
Porterò sempre con me la musica irlandese, ascoltabile nei pub, nelle strade, nei pullman, ovunque.

Mi mancherà il lungomare di Galway, percorso in una serata senza orologio, senza telefono, senza connessioni. “Sentì che era un niente, un punto al limite di un continente,” cantava Guccini anche se lui la metteva in Portogallo, una bambina davanti all’Atlantico.
Mi ricorderò i colori dei sassolini sulla spiaggia grigiastra di Salthill o quelli degli scogli, un po’ marroni, un po’ bianchi, un po’ grigi e anche verdi dove erano cresciuti muschi e alghe. Le nuvole rigonfie di panna montata separavano sprazzi di cielo che si stava rischiarando ed era come se ogni nuvola portasse via con sé un po’ di colore al cielo stesso che così spaziava tra le varie tonalità di blu, azzurro, celeste.
Il sole che si stava abbassando (“watch the sun going down on the Galway Bay”) riverberava i suoi raggi su una penisola dove c’era un faro e rendeva argenteo il mare nei punti che venivano colpiti. Il resto delle acque intanto si colorava di verde mentre una nave si allontanava e il tutto faceva venire voglia perfino di pregare.
Era emozionante pensare che qualche mese prima ero a cinquemila chilometri di distanza, nella prima città che si incontra da Galway, almeno secondo quanto ho letto da qualche parte: cioè Boston, che ha pure lei “stolen a piece of my heart.” Esiste anche una pagina Facebook dedicata a un gemellaggio tra le due città, basato sui migranti da est a ovest.
A rompere l’orizzonte c’era soltanto la sagoma di due isole. Al di qua del mare il parco era caratterizzato dal solito verde luminoso della solita erba rigogliosa che caratterizza questo gran pezzo d’Irlanda che ho visitato in questi giorni.

Mi mancherà la Wild Atlantic Way, percorsa in autobus.
Un muro nel cortile di una villa con dei bambini che tirano calci a un pallone. La fermata su una spiaggia ad ammirare anfratti tra le rocce spioventi sull’oceano immenso. Di fronte a noi solo acqua, mare argenteo e le isole Aran. Nessuna traccia di ombrelloni dietro di noi. Poi altre spiagge, surfisti, mucche lungo la strada riportate dal contadino nel campo (e comunque gli animali hanno la precedenza e sta al rancher stabilire se interrompere il traffico oppure no.)
Inoltre un castello che vale la pena visitare solo per la vista sui soliti spazi sconfinati fatti di acqua, erba e pietra.
Insieme al pullman ti lasci trasportare dalla visione dell’oceano e dai pensieri e dalle sensazioni che fluiscono liberamente, senza interruzioni allo stesso modo del paesaggio.

Mi mancherà Galway e mi mancherà questo viaggio in Irlanda, ma, come dice la canzone, sarà così “both night and day until I return once more.”

Conserverò queste foto: https://www.facebook.com/doppiaerre/media_set?set=a.10153051155110674.1073741889.517585673&type=3

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