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Lo stupore delle prese elettriche

Italia anni Settanta. Politiche fallimentari e distretti vincenti.

RIASSUNTO DI UN DECENNIO. Qui la prima parte.

Le politiche industriali italiane dai Sessanta in poi non erano tendenti a migliorare l’ambiente di mercato entro cui si svolge la produzione, come avveniva in altri Paesi attraverso la disciplina della concorrenza o sussidi automatici. Non si privilegiavano sussidi orizzontali, per ricerca e sviluppo o risparmio energetico, ma verticali: a quel settore sì a quell’altro pure in base a chi premeva di più e otteneva di più. I settori erano selezionati, gli aiuti erano dati in forma di denaro diretto e a discrezione dell’autorità politico amministrativa.
Mancavano leggi antimonopolistiche e la vastità dell’industria pubblica era spaventosa. Questo era il cosiddetto capitalismo italiano riconosciuto dalla politica. (Poi c’erano i distretti, che sfuggivano, anche perché si trovavano in un ambiente istituzionale più attento, e creavano ricchezza.)
Legge 675/77 cerca di fare riordino, crea il CIPI, inonda le industrie di piani di settore che si scontrano con l’irresponsabilità distributivo allocativa della classe politica. A fine anni Settanta i sussidi pubblici sono di un terzo superiori a quelli concessi da Uk, Francia e Germania. Quelli alle imprese manifatturiere rappresentano il 6% del valore aggiunto del settore. La metà va al sud, a imprese grandi ad alta intensità di capitale (Sir, Liquigas…) nel tentativo irrazionale e illusorio che queste imprese facciano da volano all’industrializzazione. Un terzo dei sussidi va alle imprese e ai settori in difficoltà, soprattutto alla siderurgia. Solo un sesto va per aiuti orizzontali a piccole e medie imprese, esportazioni, investimenti, ricerca e sviluppo.

Intanto il maggiore dinamismo non lo hanno né il sud né le grandi imprese, ma quelle piccole e medie del centro- nord est che costituiscono i distretti industriali. Svalutazione della lira e aumento della domanda pubblica possono avere contribuito alla crescita, ma indirettamente e inconsapevolmente. Avevano, queste imprese, anche alcuni benefici fiscali, ma il loro sviluppo non è previsto né assecondato dai pianificatori centrali.
I governi locali assecondano questo sviluppo fornendo beni e servizi collettivi di qualità superiore alla media italiana (produttività totale dei fattori.) Questo per tradizioni associative e politiche alte tipiche di quelle comunità cattoliche e comuniste/socialiste. L’humus nel quale si sviluppano i distretti industriali è storico antropologico culturale e si può far risalire all’esperienza dei Comuni.

(Da: “Politica economica italiana 1968 – 2007” di Salvatore Rossi.)

IN PARTICOLARE. 1976-1979

1976

Crisi economica, calo del pil, politica economica espansiva, tassi bassi, scarsa fiducia nel governo, rischio di credito, fuga dei capitali, pressione sulla lira, fino a esaurimento delle riserve, chiusura del mercato dei cambi, ottenimento di prestiti da banche tedesca e americaana, pesante svalutazione alla riapertura, boom del valore aggiunto, delle esportazioni e del pil. Inflazione al 23%. Salari aumentati in linea con l’inflazione, ricordiamolo. Artigiani evasori e distretti industriali. Vincoli agli scambi di merci e servizi, imposta del 10% su tutti i pagamenti all’estero, infrazioni valutarie come reati penali.
Impostazione dirigista, refrattaria ai vincoli di bilancio.
1977-78. Dollaro debole, monete europee forti. Politica monetaria accomodante. Non aumentano troppo i prezzi delle importazioni in dollari e le esportazioni continuano a reggere. Il tutto a fronte di sistema finanziario fragile, debito in crescita, sistema industriale indebolito.
1979. La Lira entra nello Sme. La politica e i cittadini sono disinteressati alla questione. Solo Spaventa, Andreatta e il gov. Baffi se ne interessano. Baffi chiede che la forbice sia del 6% tra Italia e altri paesi. Per le altre valute l’oscillazione massima di deprezzamento o apprezzamento rispetto alle altre è il 2,25%. Dai politici l’ingresso nello sme è ritenuto come una mossa di politica estera. La crisi di governo che nasce prende lo Sme come un pretesto. In realtà adesso l’Italia è obbligata a contenere l’inflazione e a non ricorrere alla svalutazione competitiva.

 

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