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Lo stupore delle prese elettriche

Keynes: fortunato nelle previsioni, sbagliato in tutto il resto.

http://www.dklevine.com/papers/keynes.pdf

MODELLO DI CRESCITA ECONOMICA DI KEYNES
1. I cambiamenti tecnologici portano a innovazioni che permettono di risparmiare sul fattore lavoro. Aumenta (o resta costante) il volume di produzione ma diminuiscono le risorse usate per ottenerlo. Aumenta la produttività e la crescita dell’output nazionale.
2. L’innovazione tecnologica quindi conduce alla disoccupazione. Innanzitutto la quota di lavoro che non viene più utilizzata non trova sbocchi alternativi di domanda. Inoltre gli uomini sono programmati per produrre e quindi non possono adattarsi rapidamente ai cambiamenti e usare il loro tempo libero in attività diverse da quelle di produrre e lavorare.
3. La disoccupazione può essere eliminata se:
a. Emerge una Domanda addizionale di beni di consumo, vecchi e nuovi, ed emergono nuovi bisogni.
b. Gli uomini sviluppano un interesse in attività piacevoli o del tempo libero anziché preoccuparsi di produrre o lavorare. Questo punto richiede più tempo per realizzarsi del precedente.
4. Esiste una tensione tra due parti dell’animo umano, o addirittura tra due tipi di uomini: coloro che cercano la ricchezza e coloro che perseguono l’arte della vita attraverso attività piacevoli. Il primo tipo produce, accumula ricchezza e ci rende più ricchi finché viene raggiunto uno stadio di abbondanza e sazietà. A quel punto l’altro tipo prenderà il sopravvento e vivremo tutti di poco lavoro e di molta arte durante la maggior parte della giornata.

A. Possono le innovazioni “labor saving” causare una depressione economica?

Lo sviluppo tecnologico “labor saving” conduce a una crescita sostenuta della produttività e del reddito pro capite. Nessuno oggi dubita di questo. Keynes sostiene che tale sviluppo abbia concorso a causare la Grande Depressione.

Prima di tutto le affermazioni di Keynes non trovano riscontro nella realtà: nessuno dei Paesi che lui cita, a parte gli Stati Uniti, ha avuto un’ondata di invenzioni “labor saving.” L’andamento della produttività del lavoro e di quella totale dei fattori sono state diverse in Australia, Regno Unito, Giappone, Europa.

Anche la teoria smentisce Keynes. Ci sono dei keynesiani moderni i quali parlano di shock tecnologici che determinano un aumento corrispondente di occupazione insieme a quello della produzione. In generale, comunque, è ragionevole aspettarsi un andamento a U della curva dell’occupazione a seguito di un’innovazione tecnologica. Che ci sia un calo di occupazione iniziale è ragionevole aspettarselo, ma il susseguente aumento di capacità produttiva e di crescita dell’output porta a nuova occupazione. Casomai possiamo verificare quanto tempo ci vuole affinché questo si verifichi: venti anni di depressione sono però escludibili sia in base alle teorie conosciute che alle evidenze pratiche, a meno che l’innovazione non sia di una dimensione finora mai verificatasi.

Pausa. Che la crescita di lungo periodo derivi dal risparmio di fattori e in particolare da innovazioni che facciano risparmiare il lavoro è un’ipotesi coerente supportata empiricamente e teoricamente, anche se gli ultimi approcci teoretici la mettono in discussione. Consideriamola comunque valida, come fa anche Keynes e andiamo avanti.
L’innovazione labor saving può essere considerata endogena o esogena rispetto al modello di riferimento.
Consideriamola innanzitutto esogena, come fatto da Solow, per esempio. Ebbene. Affinché il progresso tecnologico labor saving possa conciliarsi coi dati di lungo periodo, deve essere “Harrod neutral”, o “labor augmenting.” Altre versioni possono essere create, ad esempio Hicks neutral, ma in ogni caso finora nessun modello ha evidenziato come un incremento esogeno della produttività del lavoro abbia causato una riduzione dell’occupazione. A meno che, però, si creda che l’effetto reddito domini l’effetto sostituzione. In questo caso, però, l’occupazione diminuisce non a seguito di una minore domanda, ma perché una minore quantità di lavoro è offerta dalle famiglie adesso più ricche. Questo non è quel che JMK aveva in mente, comunque. La sua preoccupazione è che un tale effetto di reddito non è sufficientemente forte e che la gente viole lavorare troppo anziché godere del tempo libero dato da una nuova maggiore produttività e ricchezza.
In sostanza: mentre JMK ha correttamente affermato che le innovazioni labor saving sono il motore del progresso economico, non c’è un senso coerente in base al quale tali innovazioni, se esogene, possano generare la disoccupazione tecnologica di cui lui parla.

Passiamo a considerare l’innovazione come endogena. Prima di tutto se l’innovazione fosse non costosa sarebbe sicuramente effettuata e rientreremmo nel caso dell’innovazione esogena. Un’innovazione endogena invece deve assumersi come costosa e sarà effettuata se c’è convenienza a farla. Poiché l’innovazione è labor saving riduce la domanda di lavoro per dati ammontari di output e fermi gli altri input. Il costo sarà compensato allora da una riduzione dei salari. Quindi tali innovazioni saranno più frequenti tanto più alto è il salario reale, a parità di altre condizioni. Quando queste innovazioni sono prodotte da molte imprese la domanda aggregata di lavoro cade e, in presenza di una curva di offerta di lavoro ripida e crescente, questo non può conduirre a un incremento di salario reale, almeno immediatamente dopo che la nuova tecnologia viene adottata. Ciò può portare a una caduta permanente del tasso di occupazione? Nel modello che stiamo per analizzare la risposta è negativa, ma possono esserci altre situazioni in cui ipoteticamente quanto asserito da Keynes potrebbe verificarsi.
Vediamo il nostro modello.
Dopo l’innovazione, la domanda di lavoro cala e con lei l’occupazione. Poiché il salario per unità di output è adesso più basso di prima, gli imprenditori sono incentivati a investire nella nuova tecnologia, che è profittevole. Questo espande gli investimenti in capacità produttiva e quindi crea nuova domanda di lavoro. L’espansione incrementa la produttività del lavoro, il salario e il reddito pro capite. L’espansione termina quando la capacità produttiva del nuovo tipo è così grande che o l’economia raggiunge un nuovo stato stazionario (con reddito, produttività del laovro e salari più alti) oppure viene trovata una nuova innovazione profittevole e il ciclo di crescita si ripete. In questa storia non c’è depressione, ma solo una temporanea disoccupazione. Questo modello, che riconosce la riduzione dell’occupazione come temporanea, però non è quello che Keynes aveva in mente.

Eccoci ai due casi in cui possiamo ingegnerizzare un processo di disoccupazione tecnologica permanente (o di lungo periodo.)

Primo caso: la creazione di una capacità produttiva del nuovo tipo è molto costosa e quindi procede lentamente. Keynes afferma che i tassi d’interesse dovrebbero scendere per realizzare il nuovo equilibrio e stimolare la crescita. Forse ha in mente questo caso. Affinché la teoria sia coerente, comunque, bisogna che la forza che spinge la crescita economica sia soltanto lo spirito imprenditoriale del momento. Dividiamo questo caso in tre parti.
Prima parte: mettiamo che gli imprenditori non trovino conveniente fare nuovi investimenti e quindi assumere nuovo personale pure a fronte dell’innovazione tecnologica. Supponiamo che questo sia dovuto al fatto che effettivamente il costo dei nuovi investimenti sia elevato alla luce dei fondamentali dell’economia. Gli imprenditori non investono. Un calo dei tassi d’interesse ridurrebbe il costo dei prestiti e quindi potrebbe agevolare la crescita? No, se il calo è temporaneo, perché gli investimenti hanno un ciclo di vita pluriennale, se così si può dire. Un calo temporaneo dei tassi può stimolare, forse, investimenti di breve periodo, ma gli imprenditori si renderanno conto che una volta finita la droga dei tassi bassi, gli investimenti produrranno non più profitti ma le perdite attese fin dall’inizio. Quindi riterranno, correttamente, troppo costosi gli investimenti e non li adotteranno. Se vengono fregati dall’abbassamento dei tassi, subiranno le perdite in futuro, non faranno più nuovi investimenti e l’occupazione tornerà ai livelli di partenza.
Seconda parte: , invece, che gli imprenditori abbiano perso lo spirito animale e siano pessimisti sul futuro, malgrado le innovazioni tecnologiche, senza che vi sia una reale ragione di fondo. In questo caso, effettivamente, un calo anche temporaneo dei tassi d’interesse, potrebbe renderli più felici, fare in modo che il loro spirito animale si risvegli, fare sì che ricomincino a investire attratti dal minor costo del capitale e…riportare questo al livello precedente. A quel punto potrebbero tornare pessimisti.
Terza parte: ipotizziamo un calo permanente del tasso di interesse in modo tale da abbassare per sempre il tasso desiderato di rendimento del capitale. Questo calo sarebbe apprezzato sia dagli imprenditori “razionali fondamentalisti” sia da quelli che si muovono seguendo il proprio spirto animale.
Il punto è: come realizzare questo calo permanente?
Un modo è quello di convincere i banchieri a farlo, ma non si vede perché dovrebbero abbassare i propri ricavi, dato che sono massimizzatori di profitti pure loro. Un altro è quello di coglierli di sorpresa e obbligarli a tenere un certo tasso d’interesse. Come ha dimostrato il vincitore del Nobel del 2006 questo fenomeno non dura a lungo e comunque non porta a una riduzione permanente del tasso d’interesse reale.
Il solo modo effettivo attraverso cui i tassi d’interesse possono essere abbassati permanentemente è attraverso un incremento permanente del risparmio. (Maggiore offerta, minore prezzo.) Si tratta, però, di cambiare per sempre la propensione al risparmio e all’investimento: chissà come poterlo fare! Per quanto riguarda l’affaire Keynes, comunque, questo cambiamento nelle preferenze va nella direzione opposta a quella evocata da JMK: richiede, infatti, un aumento generalizzato dell’avarizia e della parsimonia.

Secondo caso. La disoccupazione tecnologica permanente è dovuta ai salari rigidi.
La logica è la seguente: l’innovazione tecnologica determina una riduzione della domanda di lavoro, ma i salari sono rigidi e l’accumulazione di capitale sarà più lenta.
Anche in questo caso, però, non si avrà una disoccupazione permanente, ma soltanto una crescita più lenta e l’adozione più veloce di ulteriori innovazioni labor saving.
Facciamo il caso che prima dell’innovazione fosse profittevole impiegare un lavoratore dandogli il salario pari a una mela per produrre due mele.
Dopo l’innovazione lo stesso lavoratore, con lo stesso salario, può produrre quattro mele. E’ evidente che impiegare lo stesso lavoratore continua a essere profittevole, a meno che il costo dell’innovazione ecceda quello delle due mele addizionali prodotte da quel lavoratore con le nuove macchine. D’altro canto, in quest’ultima situazione, l’innovazione non sarebbe stata neppure introdotta.
Piuttosto, il nostro caso (il lavoratore che produce quattro mele con lo stipendio di due) suggerisce un altro fenomeno: la nuova innovazione può portare a un aumento della produttività, dell’output, dei salari reali, ma al contempo ridurre (o non fare aumentare) l’occupazione. Questo perché a fronte di una riduzione di domanda di lavoro non calano i salari, per cui il costo del lavoro può aumentare fino a cancellare i benefici causati dall’innovazione. (Il rapporto tra salari e lavoratori è crescente se il numeratore sale e il denominatore resta fermo o se il numeratore resta fermo e il denominatore scende.) Effettivamente è successo in Europa durante gli anni Settanta che le rigidità nel mercato del lavoro e la forza monopolistica dei sindacati abbiano tenuto i salari alti in una fase di occupazione declinante e abbiano così impedito l’aumento dell’occupazione. Keynes, però, non si rifersice mai ad alti salari reali o a rigidità di mercato o alla forza dei sindacati nella sua teorizzazione della disoccupazione permanente. Lui si lamenta solo del livello eccessivo dei tassi d’interesse, ma percorrere questa strada, come visto, non porta alle implicazioni desiderate dall’autore.

Keynes descrive la disoccupazione tecnologica come quel fenomeno per il quale la scoperta dei mezzi per economizzare l’uso del fattore lavoro supera il passo al quale troviamo nuovi utilizzi per il lavoro.
Il fatto è che in teoria questo potrebbe succedere in presenza di investimenti troppo costosi o salari troppo rigidi, ma come abbiamo visto non è a queste condizioni che Keynes si riferiva e anche queste ipotesi teoretiche possono essere smentite.

B. THE EFFECTIVE DEMAND FAILURE

La meno incoerente fondazione socio psicologica della teoria della carenza di domanda effettiva è la seguente.
Gli uomini sono biologicamente selezionati per lavorare e ricercare la soddisfazione avida di pochi bisogni essenziali. Quando questi bisogni sono saziati, gli uomini vogliono continuare a lavorare e ad accumulare (come lavoratori e capitalisti) ma non sono capaci di sognare nuove cose da domandare o nuovi bisogni materiali da soddisfare. La sazietà, dal lato dei consumatori, non genera domanda aggiuntiva. Essere uomini bruti, dal lato dell’offerta, spinge a voler continuare a produrre. Ecco che c’è sovrapproduzione, o sottoconsumo. Ecco che occorre abbassare continuamente i tassi d’interesse per indurre la domanda di beni laddove non vi sarebbe altrimenti, nell’attesa che gli uomini evolvano i propri desideri.

L’insegnamento classico dell’economia keynesiana spiega la carenza di domanda effettiva come segue.
I salari i prezzi sono rigidi per assunzione principale e per verità auto evidente. I desideri umani e i loro piani sono volatili. La capacità installata e la dimensione della forza lavoro non sono volatili. A causa di tutto questo la domadna di beni e servizi oscilla pesantemente, seguendo il movimento selvaggio negli spiriti animali. Se la domanda è alta, gli impianti funzionano a pieno regime e la forza lavoro è impiegata totalmente. Quando la popolazione è pessimista e depressa, invece, la domanda è bassa e, a causa della rigidità dei prezzi, molta capacità produttiva, sia fisica che umana, risulta non impiegata.
Questa situazione conduce alla possibilità che il mercato libero non porti ai necessari cambiamenti nei prezzi relativi dei beni e dei fattori e che quindi vi sia sottoconsumo (o carenza di domanda.)
In realtà Keynes non menziona questi elementi per illustrare la carenza di domanda: nessuna rigidità salariale, nessuno spirito animale, nessuna domanda di investimenti che non riesce a equilibrarsi con la sua offerta, vale a dire col risparmio.
Anzi. Keynes nega l’ipotesi di fallimento del mercato quando afferma:
“and the rate of accumulation as fixed by the margin between our production and our consumption; of which the last will easily look after itself, given the first three.”
Questa frase significa che i mercati faranno il loro lavoro e il risparmio uguaglierà l’investimento purché le prime tre condizioni menzionate in precedenza siano soddisfatte. Non si parla di fallimenti del capitalismo o del mercato libero. Anzi: si stabilisce l’opposto.

Il punto 4 di cui sopra asserisce che esitono due tipi di bisogni, assoluti e relativi. I primi soddisfano l’ipotesi di sazietà (una volta assuefatti non si genera ulteriore domanda,) mentre i secondi no. Allora, si potrebbe pensare, la crescita economica può continuare a manifestarsi laddove queste preferenze insaziabili si manifestino e generino domanda. Per Keynes, però, questa situazione è di breve durata poiché ad alcuni di noi piace svolgere attività non economiche. Peccato che Keynes non chiarisca cosa siano queste attività non economiche. Non è chiaro perché una macchina costruita per lo scopo esclusivo di risolvere problemi economici improvvisamente si dedichi esclusivamente ad attività non economiche anche quando non sa come svolgere tali attività e abbia come conseguenza un esaurimento nervoso.
In ciò il modo di ragionare di Keynes è anti scientifico, eurocentrico, collezionista di pregiudizi appartenenti all’aristocrazia britannica e costruttore su questi di una teoria dell’evoluzione dell’umanità.

LA STORIA UMANA E LE ORIGINI DELLA CRESCITA SECONDO KEYNES
Per Keynes non c’è stata crescita economica fino alla rivoluzione industriale. Esistevano già le banche, le religioni, gli stati, le scienze ma non portavano nessun progresso, evidentemente. Keynes dimentica la Lega Anseatica, i Comuni italiani, l’Olanda e finge che il capitalismo sia iniziato attorno al 1580 quando gli spagnoli hanno iniziato a importare in Europa oro e argento dalle colonie latino americane. Questo ha generato un aumento dei prezzi e l’inflazione ha permesso l’accumulazione di capitale e la crescita.
Non è dato sapere in che modo la crescita derivi dall’inflazione e di solito se chi prende a prestito è avvantaggiato dall’inflazione, c’è chi presta che subisce una perdita, per cui si ha trasferimento di ricchezza ma non aumento. Sempre che non si pensi che i prestatori siano meno bravi, imprenditoriali e capaci di chi prende a prestito, nel qual caso questi ultimi sanno fruttare meglio i capitali. Peccato che la presenza di imprenditori o commercianti capaci si sia verificata già prima del Seicento: pensiamo a Bisanzio, Venezia, Firenze, Maastricht, Flanders, Cadice, Amburgo, Marsiglia. Peccato anche che i principali prenditori a prestito nel Seicento fossero i re come Enrico Ottavo o Filippo Secondo, indebitati e inguaiati.
Assumiamo che il capitalismo sia iniziato nel 1580 in Inghilterra. Gli inglesi avrebbero rubato agli spagnoli oro e denari, li avrebbero saggiamente investiti nelle colonie e l’interesse composto avrebbe fatto il resto. Ma perché l’interesse composto avrebbe avuto effetto e generato ricchezza se si trattava solo di ricevere interesse dai prenditori a prestito? L’interesse composto esisteva anche prima. Già Smith aveva spiegato che la ricchezza delle nazioni non dipende dal possesso di oro e argento e Keynes riterrebbe invece che è grazie all’accumulo di queste materie che è nata la rivoluzione industriale? Dov’è la materia “reale” in tutto questo?
Keynes nella sua teoria delle origini della crescita soffre di illusione monteria. È confuso tra fattori reali e monetari, tra accumulazione aggregate e privata e contabilità nominale dei profitti.
Il suo eurocentrismo gli faceva anche credere che il nostro capitale è quello che investiamo all’estero e il suo rendimento è quello che gli stranieri pagano a noi. La nostra ricchezza è la loro povertà, il nostro profitto la loro perdita. Fortunatamente, tre miliardi di cinesi e indiani hanno imparato una lezione diversa e così il ciclo virtuoso della produzione fisica va avanti.

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