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Lo stupore delle prese elettriche

La perdita di competitività dell’Italia è strutturale e non dipende dalla moneta

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https://phastidio.net/2005/03/02/diagnosi-e-prognosi/

“Costante perdita di competitività dell’Italia.

 

Sarà colpa di avere una moneta che non puoi svalutare bellamente e che si è rivalutata sul dollaro? No: il saldo della bilancia commerciale mostra ancora un surplus, per quanto significativamente ridotto ed in costante declino. Verso i paesi dell’area euro, che hanno la stessa moneta, la bilancia commerciale è in deficit. L’inizio del declino delle esportazioni risale comunque a fine anni Novanta, prima dell’introduzione dell’euro.

 

Saranno sbagliati i partner commerciali, qualunque cosa voglia dire? No. L’Italia ha perso costantemente quote di mercato dal 1995, dopo l’ultima grande svalutazione della lira

 

 

I problemi veri sono altrove: una sfavorevole specializzazione di prodotto e un’esplicita perdita di competitività dal versante dei costi. Riguardo il primo punto, la maggior parte del made in Italy si trova nei tradizionali settori a bassa crescita e basso valore aggiunto dei beni di consumo e dei beni capitali (macchinari ed equipaggiamenti industriali), mentre il peso delle produzioni a maggiore valore aggiunto, quali information technology, elettronica di consumo, chimica fine e farmaceutica è comparativamente basso, a causa del tradizionale modello di sviluppo italiano, caratterizzato da bassa innovazione, svalutazioni competitive del cambio e basso costo del lavoro, quello della retorica del “piccolo è bello”, sul quale si sono cullati generazioni di politici prima ancora che gli imprenditori. La peggior combinazione possibile, nell’attuale fase della globalizzazione.

 

 

Riguardo la competitività di costo, un andamento crescente dei costi unitari del lavoro italiani ha contribuito ad erodere la posizione competitiva del paese. Recenti dati Ocse mostrano un gap cumulato tra Italia e Germania di oltre il 40 per cento negli ultimi quattro anni relativo al costo del lavoro nella manifattura, che non è stato neppure scalfito dalle misure di parziale decontribuzione e riduzione degli oneri sociali adottate dal governo italiano nel 2001 e 2002.L’Italia paga quindi un pesante tributo al proprio ritardo tecnologico ed alla persistente riluttanza a seguire con decisione la via della deregulation, sui mercati del lavoro e dei prodotti.

 

Intanto il rapporto tra deficit e pil è pari al 3%. Notiamo che il governo di centrodestra è responsabile dei numeri che seguono.

Aumento della spesa sanitaria del 7,1%.

Spesa corrente complessiva in aumento del 2,9%.

Spese in conto capitale in riduzione del 7,1%. Notiamo che anche Ciampi e Prodi hanno tagliato la spesa per infrastrutture e la tesoreria degli enti locali.

Aumento delle imposte dirette del 3,4%.

Calo delle entrate in conto capitale, poiché si sono chiusi i numerosi condoni.

 

In sintesi, l’economia italiana è entrata in crisi strutturale, a causa della crisi epocale di un modello di sviluppo”.

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