there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

La ragazza che ama Firenze.

Firenze

“Quello è il duomo più bello del mondo. Questa città è così ricca di…”
La ragazza che ama Firenze non finisce la frase perché vuole immergersi nell’atmosfera di questa città meravigliosa. Vuole gustare l’aria, ascoltare il rumore del vento, odorare i profumi delle piante che circondano San Miniato, abbracciare ogni albero, toccare ogni erba sui muri, sdraiarsi su ogni muricciolo, anche fare pipì dietro un albero.
Lei arriva da Budapest, aveva già vissuto nel capoluogo toscano per qualche mese otto anni prima, adesso ne ha 32. Era una studentessa di lingue, allora, viaggiava in bicicletta, quindi riusciva a stare fuori dalla massa dei turisti anche quando affrontava il centro storico, e ricorda quanto fosse più caro mangiare rispetto a Bari, città in cui ha vissuto invece negli ultimi tempi.
Vorrebbe esplorare tutto in quelle poche ore che la terranno in città, in un venerdì sera che inizia con una telefonata alle cinque del pomeriggio. “Ciao. Senti. Ci vediamo in piazza Santissima Annunziata? Mi piace molto quella piazza. Anzi, no, aspetta. Non vorrei perdermi. Io sono in Santa Trinita. Ci possiamo incontrare sul Ponte Vecchio?”
Così mi dirigo verso l’Arno mentre una nuvola passeggera passa senza fare troppi danni. Il cielo ha dei bei colori che vanno dal blu scuro al nero delle nuvole che schiariscono presto al rosso che si vede volgendo lo sguardo verso ovest.
Una telefonata e incontro Gyongyos. Lei indossa un cappotto arancione e porta due zaini pesanti, uno dei quali lo passa a me. Ogni tanto dovrò ricordarmi di averlo in spalla per non rischiare di tenerlo anche quando lei sarà andata via. La sua prima idea è di andare a Piazzale Michelangelo, ma innanzitutto deve comprare un francobollo e spedire una cartolina a Pecs, la città presso cui si trova la sede della sua università. Segue i corsi per corrispondenza, dice. Non ricordo quali corsi, peraltro. Comunque entriamo in un bar, al caffè delle Logge, vicino a Piazza della Repubblica, non prima che lei abbia toccato il Porcellino (più avanti le dirò del’originale conservato al museo Bardini.) Ordino un caffè per me e un francobollo per lei e poi cerca il codice postale della città in ungherese. Le chiedo come si pronuncia Ungheria in ungherese, visto che ho sempre notato la lunghezza della parola e le sue mille consonanti in mezzo. “Magiarorsag,” dice. “Pensavo peggio,” rispondo. Ride e mi dà il cinque.
Ci avviamo verso il Piazzale, anzi siamo di nuovo a Ponte Vecchio, quando lei ha il primo intoppo. “Ho fame,” dice.
“Vuoi un panino al lampredotto? Qua vicino li fanno buoni.”
“Cosa è il lampredotto?”
“Un quarto di stomaco della mucca o roba del genere. Sei vegetariana?”
“No, ma il panino non sarà troppo piccolo?”
“Guarda. In questo bar qui accanto fanno i panini o i taglieri.”
“Sì, ma non mi va di spendere quattro euro per un panino. Andiamo a cercare un supermercato.”
“Dirigiamoci verso il quartiere di San Niccolò: ci sono tanti localini che fanno gli aperitivi, nel caso non trovassimo un supermercato. Intanto guardo su Google Maps quanto ci vuole per andare a Piazzale Michelangelo. Ci vorranno venti minuti da qui.”
“No, aspetta. Alle sette devo incontrare un amico. Adesso comunque non mi interessa più il Piazzale. Adesso ho bisogno di mangiare.”
“Ok, ma non mi svenire qua.”
Ci incamminiamo, oltrepassiamo Ponte Vecchio, incrociamo bar e locali che offrono prodotti di poco volume a prezzi alti e qualità variabile e vediamo un supermercato.
“Eccolo.”
“Ma non c’è un posto caldo dove si possa mangiare un Ghyros?”
“Non so. Ma un kebab?”
“Sì, è lo stesso.”
“Comunque non lo so. Andiamo verso San Niccolò, che qualcosa troviamo.”
“Aspetta. Mi devo mettere a sedere.”
La ragazza va verso una spalletta che fa da argine all’Arno e si mette a sedere là sopra. Poi ci si sdraia. “Devo pensare.” Dice.
“Cosa è un aperitivo?”
“Prendi qualcosa da bere, paghi una cifra fissa, e puoi mangiare quanto vuoi. Al Rifrullo con sei o otto euro, non ricordo, hai tanta roba davvero da mangiare.”
“Davvero? Posso mangiare tanto tanto?” Fa lei, rialzandosi e ringalluzzendosi in viso.
“Sì.”
Si rimette lo zaino, rende l’altro a me e mi incita a incamminarmi verso questo Rifrullo. Dice che in quella zona ci abitava un suo amico. Entriamo nel locale. Chiede al barista più volte se può mangiare tutto quello che vuole. Lui risponde di sì.
“Ho una fame di lupo,” dice lei a me.
“Voglio un quarto di bicchiere di acqua calda,” ordina.
“Ma costa dieci euro.”
“Va benissimo. Posso mangiare tutto quello che portate più e più volte. Che bello!” “Dopo che hai finito il bicchiere d’acqua, diccelo, che te lo riempiamo.” Così farà più volte, anche dopo averlo raffreddato con l’acqua contenuta nella sua borraccia. Finirà per farsi riempire la borraccia e per farsi restituire la forchetta di alluminio con la quale aveva mangiato. Da buona attivista ambientalista porta sempre con sé le posate.
A tavola non ci facciamo mancare niente. Schiacciata, pasta al pomodoro, pasta piccante, verdure, fagioli, cinque pezzi di torta al cioccolato (“Vuoi fare il bis?”Chiedo. “Certo.” “Alziamoci.”) Facciamo il bis di ogni portata.
Mi sembra che il cameriere abbia l’accento pisano. Lo dico sottovoce a lei. La ragazza lo chiede direttamente a lui. “No. Sono di Firenze,” risponde, e va verso il banco dei cibi. Noi siamo seduti uno di fronte all’altra in fondo alla saletta sul retro dove ci sono i tavolini e le sedie in pelle per mangiare con calma in un ambiente di luce soffusa. Le chiedo se Bari è bella, ma lei dice di no. Le piace Lecce, non per niente detta la Firenze del sud. Della Puglia le piacciono Martinafranca, Gravina, Montesantangelo, Altamura, Polignano, ma tiene a ribadire che la città che ama di più nel mondo è Firenze. “Sai che è gemellata con Budapest?”
Mentre mangiamo racconta dei suoi sport praticati (ginnastica artistica, nuoto, corsa), del fatto che amava correre prima di farsi male alla gamba, che ogni tanto cammina cento chilometri in un giorno senza essersi allenata, ma soprattutto parla di un viaggio bellissimo, dice, fatto con un amico in moto in tre giorni tra il sud della Spagna e l’Ungheria.
In quei tre giorni hanno viaggiato su una moto piena di bagagli, tanto da impressionare chi li incontrava per strada. Hanno anche dormito lungo la spiaggia o ai bordi delle strade o dove capitava. Sono passati da Barcellona, Nizza, Cannes, Genova, Trento, la Slovenia. Una volta stavano dormendo sull’erba, lei ha sentito un rumore ed era la Nutella che si era rovesciata. Allora lei ha iniziato a prenderla con le mani e mangiarla perché aveva bisogno della sua Nutella.
Nel locale, intanto, hanno acceso la radio e fanno ascoltare della musica. La ragazza balla a ogni canzone e mi spiega che una di quelle è in origine un canto rom: si chiama Rumelaj.
A un certo punto tira fuori uno dei suoi due cellulari e appare un mitico e mistico Nokia old style, ancora perfettamente utilizzabile, con la sua batteria che dura per giorni e giorni.
“Adesso sono sazia. Possiamo uscire. Questo pezzo di dolce non mi va: lo incarto e lo mangio a colazione domattina.”
Usciamo e ci dirigiamo verso il Piazzale. Lungo la salita che costeggia il Giardino delle Rose, coi suoi scalini, lei tocca i muri, abbraccia gli alberi, scambia i pini coi cipressi, ride al nome pino perché pina in ungherese vuol dire fica, racconta di un suo amico che si chiamava Pino e veniva preso in giro per questo, vede finalmente dei cipressi e apprezza quelli più giovani, più magri.
Entriamo dentro la chiesa francescana di San Salvatore al Monte. C’è una messa. Anzi. Dovrebbe essere la recita di un rosario. Osserviamo un po’ la chiesa cercando di fare silenzio. L’atmosfera è molto raccolta, rilassante, serena, bella. Prendiamo poi la strada verso San Miniato, entriamo nel cortile dell’abbazia e più della maestosità della chiesa ci colpiscono la visione di FIrenze illuminata e il campanile di una chiesa dietro l’abbazia, che suona come a dirmi che è contento che io abbia notato quella chiesetta meno maestosa. Almeno questa è la ragione che la ragazza trova per lo scampanio. Lei si fa fare delle foto sdraiata sul muricciolo da cui si vede la città, poi, mentre io contemplo Firenze, si incammina verso ovest e tornerà declamando le virtù dei cipressi giovani. Ci sediamo quindi in una panchina e osserviamo un muro coperto di erba tenuta in modo così ordinato da sembrare finta.
“Ormai non incontro più quel mio amico. Magari gli telefono. Domani sono con lui a una conferenza buddista. Adesso mi scappa la pipì. Vado dietro un albero. Rieccomi. Andiamo al Piazzale. Guarda che bella Firenze! Guarda! Hanno disegnato un cuore di erba sul piazzale! Facciamoci tante foto. Qua mi si vede una gamba. Rifammela in modo che si veda solo la faccia di me, sull’esterno.”
Nelle foto la ragazza ha un’espressione paradisiaca, di contemplazione felice.
“Scendiamo dalla scorciatoia che porta in piazza Santa Croce. Ci sono tante tombe di personaggi famosi qua. Adesso andiamo verso piazza Santissima Annunziata. Non da lì. MI piace passare da questa strada. Mi piacciono le vie strette, non quelle principali. Aspetta: facciamo una deviazione per piazza della Signoria. Senti come canta bene quella ragazza di fronte agli Uffizi. Non canta più? Ha già finito? Dai, facciamoci delle foto sotto il Davide.”
Ci incamminiamo di nuovo per via della Condotta (“voglio passare di qui,” fa.) Facciamo alcune espressioni in dialetto barese. La parola “aguand,” per esempio. Oppure un verso gutturale, come “Ehou”, che pronunciamo più volte lungo il cammino e ogni volta ne ridiamo.
“Guarda quanti pinocchi di legno in quel negozio! Voglio fotografarli tutti. Che belli! Ad ammirarli ho capito adesso tutta la storia di Pinocchio. Ma è tardi! Devo scappare. Dai muoviamoci verso la piazza. Raccontami la storia del fantasma dell’amante di Ferdinando, quello rappresentato nella statua al centro. Questa è la piazza fiorentina che preferisco: che bella quella fontana lì in mezzo! Ehi: ma sento parlare in ungherese. Quello è un filosofo. Là, in quel bar, là subito dopo avere attraversato la piazza.” La ragazza saluta il filosofo e le due ragazze che sono con lui, ma sembrano anche un po’ sorpresi e non la degnano di tanti complimenti. Lei se ne rammarica: “A me piace incontrare delle persone del mio Paese. Loro sono turisti e non se ne rendono conto, ma per una persona che per un po’ ha vissuto da emigrante è importante ritrovare nel mondo parte della propria nazione: è come sentirsi di nuovo un po’ a casa.”
Casa. Il posto dove lei sta per tornare e forse per non lasciare più, anche se dice, dopo che le ho restituito lo zaino e ha preso l’autobus per andare verso il suo alloggio di questa notte: “Tornerò sicuramente. Amo troppo Firenze.

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