Ho iniziato a leggere la Gazzetta a quattro anni. Dicono che la leggessi obliquamente, forse per un’abitudine nata mentre vedevo babbo che leggeva e chiedevo cosa c’era scritto. Probabilmente mi piaceva il colore rosa: sceglievo le squadre di calcio in base ai colori delle maglie, per cui mi piacevano Torino, Perugia, Fiorentina. Data la notevole fede bianconera di babbo ci saranno state pressioni in tal senso, ma sarei sempre stato per squadre fortemente anti-juventine: prima il Toro, poi la Fiorentina. Era comunque scontato “dover essere” per qualche squadra di calcio: lo erano tutti.
All’inizio, comunque, la Gazzetta era solo un banco di prova e dimostrazione delle mie capacità di lettura, poi con la nascita della passione sportiva sarebbe stato un punto di riferimento. Passione sportiva? Bè. Diciamo gioco, innanzitutto. Divertimento, idealizzazioni, sogni. Mi davano un pallone ed ero contento. Ne avevo uno mio, assolutamente mio. Si chiamava Yascin, che poi avrei saputo essere (o essere stato) un grandissimo portiere. I giocatori che ho conosciuto prima sono stati due portieri: Yascin e Zamora. Non so perché. Yascin era comunque il nome ufficiale del pallone, che io chiamavo semplicemente “pallonciccio” e che finì in un torrente durante una partita giocata in piazza tra amici. Ancora era possibile e ammesso giocare a pallone nelle piazze. Forse era ancora possibile giocare. Semplicemente.
Chissà come saranno stati il mio primo tiro, il mio primo dribbling, la prima volta in cui ero ammesso a giocare coi grandi, come i grandi, tipo mio fratello. In ogni caso io giocavo volentieri anche da solo: inventavo partite, record e facevo telecronache. Anzi, più esattamente, radiocronache. L’evento della partita di coppa in tv sarebbe arrivato più tardi, mi sembra. In tv andava la nazionale, i cui ricordi datano 1978, a sei anni. Anche la mia prima partita vista allo stadio, a uno stadio importante, cioè a Firenze, risale al 1978: Italia – Turchia 1-0, gol di Graziani: non vidi molto, ma ricordo che mi incuriosivano i cori che venivano dalla curva alla mia destra: la Fiesole. Inoltre notai un certo boato quando lo speaker, all’annuncio delle formazioni, fece il nome di un certo Antognoni, uno di quelli mandati da Dio a insegnare calcio. Ce n’era uno anche nella squadra del mio piccolo paese: era un fenomeno, veramente, anche se giocava in seconda categoria. Era soprannominato “Haller”. Memorabili erano le sue sfide di punizioni con un giocatore della squadra del paese di sotto, tale Zanchini.
In effetti le prime partite e a cui mi sono appassionato sono state quelle della “squadrina”, cioè, appunto, della squadra del paese. C’erano anche dei bei tornei estivi amatoriali, di cui ricordo soprattutto i prepartita, le cene preparatorie in casa, le noccioline allo stadio, le luci, gli odori, i momenti extra calcistici, insomma.
In prima elementare sapevo le formazioni di serie A a memoria, ma in realtà ancora non ero “ferrato” sul calcio professionistico: mi interessava giocare giocare giocare, magari sognare, pensare di essere un grandissimo calciatore che porta la squadra del paese in serie A, che fa gol fantastici. Quei sogni, quelle aspirazioni, quelle imitazioni che tutti hanno, in qualunque sport, almeno fino alle soglie dell’adolescenza. Quella voglia di giocare, divertirsi, creare, non passerà mai anche se cercheranno di imbrigliarla in tutti i modi. Magari con qualcosa chiamato “tattica” e del resto necessario per vincere. Come anche altre qualità fisiche. Ma è l’arte, è il colpo impossibile, è la giocata spettacolare, è la creatività, è la fantasia che tutti sognano di saper fare e che fa delirare quando si vede che qualcuno è capace di realizzarla: qualcuno che può chiamarsi Roberto Baggio, Diego Maradona, ma anche Stefan Edberg, John McEnroe, Alberto Tomba, Debby Compagnoni (magari anche Alessia Filippi, Tania di Mario e…va bene ci sono tantissimi nomi per tanti sport.
Intanto vedevo tornei e creavo tornei: volavo di fantasia. Avevo realizzato il campionato mondiale di subbuteo. La finale fu Fiorentina – Liverpool e ovviamente vinsero i viola. Creavo anche giochini strani che facevo da solo (ovviamente giocavo anche con gli altri, magari a giochi convenzionali da tavolo, ma mi piaceva davvero quello delle olimpiadi di Mosca, ma poi preferivo andare a giocare a pallone, in tutti i modi possibili). Facevo i record: quanto tempo ci mettevo a mangiare una susina, in quanto tempo riuscivo a percorrere il bagno strisciando, da quale distanza riuscivo a mettere una palla in un cesto.
Giocare, inventare, fare radiocronache e poi, ovviamente, informarsi. Il primo libro sul calcio era la storia della Juventus di Vladimiro Caminiti. Colpa di babbo, ma non potevo esimermi da due passioni come la lettura e il calcio. Così seppi che la Juve aveva vinto cinque scudetti di fila, conobbi una coppia formata da Sivori e Charles. Intanto mio zio mi raccontava della squadra che non perdeva mai, o quasi: la Fiorentina del ’56. Tengo a precisare che la maggior parte della famiglia era ed è viola da parte di mamma e di babbo. All’epoca non ero ancora tifoso, però. Anzi ero molto sportivo e probabilmente sono stati due giornali a farmi provare il piacere di esserlo: la Gazzetta e il Guerino. Sarà un caso che quando sono invece diventato molto tifoso, forse troppo, abbia un po’ lasciato la lettura della Gazzetta? (Più probabilmente erano gli spostamenti per studio prima e lavoro poi, dato che appena torno ai bar del paese, prima leggo la Rosea e poi ordino il caffè).
Il secondo libro sul calcio lo sapevo quasi a memoria: la Storia del Calcio di Gian Paolo Ormezzano. Poi c’era il libro con le Regole del Calcio e poi un libro con tutte le spiegazioni sui vari sport olimpici.
Già. Perché mi piaceva imitare chi si cominciava a vedere in tv, mi piaceva giocare a vari sport, mi piaceva conoscere e informarmi, mi piacevano tutti gli sport. Ricordo, siamo attorno ai dieci anni, che mi appassionai a una partita di pallanuoto e a una di hockey e che ormai avevo una “squadra del cuore” in quasi tutti gli sport: ricordo la Paoletti Catania di pallavolo, la Scavolini Aquila di rugby, il Colonia nel calcio tedesco.
Ormai la Gazzetta era diventata un giornale da avere ogni settimana, pena il ricatto “non mangio”. Così il lunedì era per la Gazzetta e la Nazione, il martedì per il Guerino, il venerdì per Sorrisi e Canzoni. Gli altri giorni la Gazzetta la “scroccavo”. Andavo al bar e la leggevo. Non solo i titoli, come fanno quasi tutti, ma anche gli articoli. Anche gli editoriali, che mi piaceva sempre leggere proprio perché c’erano opinioni. Magari tendevo ad accoglierli un po’ troppo acriticamente: non tanto quelli della Gazzetta quanto quelli de la Nazione, ma questo è un altro discorso.
Inoltre mi piaceva sapere chi aveva scritto l’articolo. Conoscevo i nomi di Maradei, Rovelli, Cerruti, poi Arturi, Trifari, Merlo. Ovviamente Cannavò, ma anche Palombo: quando morì stetti al bar a leggere le prime due (o quattro?) pagine in cui c’erano gli articoli di commiato al precedente direttore. Mi commossi, anche.
Cominciai a conoscere i nomi dei giornalisti, dunque. Magari sarebbe interessante conoscere anche le storie, le vite. Non solo quelle che loro raccontano, ma anche le loro. Anche se in fondo, quello che conta “è la storia e non colui che la racconta”, è il saper raccontare in modo coinvolgente cosa accade, è il saper descrivere le emozioni, il saperle suscitare.
Iniziai a scrivere giornali. Cioè. Ho ancora tutti i quaderni in cui facevo il giornale. Tutti i giorni scrivevo qualcosa. In realtà molte erano statistiche. Mi piacevano molto i titoli, per cui mi divertivo a titolare i fatti del giorno. Facevo anche dei commenti. Soprattutto facevo dei riepiloghi a fine stagione. Riepiloghi pieni ancora di statistiche. Ero più cronachistico. Oggi scriverei più di storie, di chi magari arriva ultimo, cercherei di capire il dentro le persone, il dietro il semplice episodio di una partita (penso a Emanuela Audisio, Gianni Mura, in generale ai giornalisti di Repubblica, bè, è così adesso, che vuole farci?). Anche se a volte la partita è già un’emozione assoluta. Italia – Brasile 3-2 l’hanno vista tutti, ma è bello anche rileggerla dieci volte in dieci giornali diversi e ogni volta commuoversi. Ora potrebbe esserci l’ultimo Italia – Germania.
Quei quaderni risalgono agli anni tra l’ottantaquattro e l’ottantasette. Ovviamente il mio punto di riferimento non poteva non essere la Gazzetta. Ormai, attorno ai quindici anni, la divoravo. Mentre il Guerino cominciava a perdere colpi, secondo me.
I famosi titoli della Gazzetta. Li aspettavo. Ne ricordo alcuni: il “33 gooool!” dopo la prima giornata di un campionato di calcio che si preannunciava entusiasmante coi suoi tanti campioni, Zico, Falcao, Junior, Cerezo, Platini, Rummenigge, ovviamente Antognoni. Quelli durante il favoloso mundial ’82, quelli dedicati a Gilles Villeneuve, quelli che mi ragguagliavano sulle olimpiadi di Los Angeles mentre ero al mare dalle parti di Rimini, poi quelli successivi dedicati alla nostra grande coppia sugli sci.
Poi gli appuntamenti fissi. I lunedì di campionato e i grandi eventi. Tutti i giorni dei mondiali di calcio e delle Olimpiadi la Gazzetta (e dagli anni novanta in poi anche Repubblica) è stata un acquisto fisso. Gli altri giorni c’era il bar.
Ricordo i temi in cui cercavo di imitare i giornalisti sportivi, prendendo naturalmente voti ottimi. Crescendo, cominciavo a fare il critico verso quello che dicevano un po’ tutti. Magari avevano ragione loro, ripensandoci. Scrissi un tema sulle Olimpiadi di Los Angeles dove non mi dicevo del tutto d’accordo con chi glorificava quei successi: il fatto che mancassero molte nazioni poteva assicurarci medaglie in più. Non so se ero pretenzioso, non avendo il tema davanti e basandomi solo sui ricordi, ma anche se avessimo vinto più medaglie bisognerebbe vedere che valore avrebbero avuto in un’olimpiade dimezzata (quindi anche triste). Quanto belli sarebbero invece risultati i successi di Barcellona, Atlanta, Sidney, Atene dove si vedeva anche la maturazione di tutto il movimento sportivo italiano. Per poi rischiare di tornare indietro, anche per motivi economici e di disorganizzazione, soprattutto in certe discipline.
Le discipline. Ho esultato durante la grande stagione del mezzofondo, che al momento è data come dispersa. Ho esultato perché finalmente, a un certo punto, abbiamo avuto grandissime squadre di pallanuoto e pallavolo, maschili e femminili. Mi sono appassionato per il grande movimento che ormai abbiamo nel nuoto. Perché è risorto il nuoto. Ho esultato per una splendida vittoria contro la Spagna da parte della nazionale di basket, e poi per quella più recente contro la Lituania. Però ho anche visto tanto grande tennis e mi sono affezionato ad alcuni giocatori (Becker, Edberg, Sampras), soprattutto negli anni dell’adolescenza quando ero praticante quasi quotidiano e una racchetta fu il regalo degli esami di maturità. Tennis abbandonato poi per vari motivi, come del resto il calcio giocato, a favore del ping pong, della piscina e di un po’ di fitness, ma non è la stessa cosa.
Certo, ci sono anche state partite maledette (pallavolo contro l’Olanda, ad esempio). Poi qualcuno mi dice: “Perché? Cosa te ne viene, che non sei nemmeno particolarmente nazionalista?”. Non so. Forse è solo l’adozione di una squadra. Forse è solo l’identificazione o la simpatia verso atleti o sportivi. Tutti vorremmo diventare famosi nello sport, no? Tutti abbiamo cominciato giocando. La voglia e la capacità di giocare e divertirsi non deve mai esaurirsi. Il problema è quando la passione diventa lavoro perdendo quelle sensazioni da cui tutto è cominciato. Il problema è quando ci si perde. Non solo nello sport. Nella vita. Lo ha descritto perfettamente Emanuela Audisio nella prefazione del libro “Bambini Infiniti” e lo raccontano le sue storie in “Il ventre di Maradona” (“Una vita in rosa” ce l’ho, ma devo finirlo).
Non ho mai sopportato chi criticava l’Albertone perché arrivava “solo secondo”. Non sopporto chi sminuisce atleti stando davanti alla tv perché sbagliano una gara. Mi piace molto più capire. Da un punto di vista tecnico, psicologico, umano cosa è successo: i perché delle cose, i perché e i come si vince e si perde. Soprattutto mi piace sentire racconti di uomini e donne: sia di chi raggiunge gli obiettivi (e viene citato dai responsabili del personale in sede di assunzione per un lavoro) che di chi non ce la fa (e viene stranamente dimenticato dai suddetti). Mi piacerebbe approfondire le storie di chi arriva quarto alle olimpiadi (a un punto dai campioni, direbbe Guccini) o chi è felice solo per esserci arrivato (anche il marocchino alle olimpiadi invernali o l’Egitto alla pallanuoto, anche se magari tanti atleti forti non possono partecipare per lasciare loro il posto).
C’è anche altro da dire, però. Nei primi anni novanta ho iniziato ad andare allo stadio. Ho fatto il primo abbonamento alla Fiorentina nel 1991. Sono diventato tifoso. All’inizio mi piacevano i cori, mi piaceva l’atmosfera della curva. Che in effetti, a parte i noti eccessi, è meravigliosa. I noti eccessi? Ci sono cori cattivi contro gli avversari e con la scusa che “è solo linguaggio da stadio” li ho fatti anch’io.
Intanto il calcio iniziava a piacermi sempre meno da un punto di vista tecnico. Insomma: durante gli anni novanta secondo me le partite di calcio facevano tendevano alla noia assoluta. Quasi tutte. Non so se ero io ad avere pregiudizi. In ogni caso seguivo la Fiorentina come una fede: il resto non mi interessava. Forse non ne valeva la pena. Dopo le note vicende che hanno portato i viola in c2 e poi li hanno ripescati in b mi ero così disgustato da dichiarare che io e il calcio avevamo chiuso. In fin dei conti mio nonno abbandonò il calcio a causa dello scandalo scommesse (“Ma come? Noi si sta lì a litigare e quelli decidono prima?”). Non ce l’ho fatta. Il calcio ha vinto. Il calcio, però. Lo sport. I tiri, i dribbling, il gol all’improvviso, la vittoria a sorpresa, i diversi modi per ottenerla, il fatto che comunque resta lo sport che tutti possono fare, lo sport che può essere più di altri riscatto sociale. Certo: la fantasia, le bandiere, i calciatori-uomini e non mercenari forse sono spariti. Ma io chiudo gli occhi e penso solo al fatto sportivo in sé. Quello è ancora bello. Così tante emozioni continua a regalarci lo sport che si può dire che la vita sarebbe molto più triste senza. Ricordo così il giorno del ritorno in serie A, gli ultimi europei di calcio, poi gli ultimi mondiali (compresa la Gialappa’s con cui seguo quasi tutte le partite dal 1994), le ultime olimpiadi, gli ultimi mondiali di nuoto, tutto il campionato scorso, la grande gioia di andare in ventimila a Verona per il ritorno della Fiorentina in Champions League, gioia frenata dalla paura per quello che stava per venire fuori. Qualcosa che non riuscirà comunque a distruggere niente, perché la capacità di costruzione e ricostruzione degli sport è più forte.
Ma il punto è un altro. Agli europei di calcio ho di nuovo assaporato le emozioni di vedere discrete partite di calcio. Alle Olimpiadi ho di nuovo provato le emozioni dello sport, anche indipendentemente dagli italiani (in generale ci sono sport in cui gli italiani hanno avuto alti e bassi, sono andati a cicli: ma ce n’è uno, il tennis, quello che ho praticato di più, dove ho conosciuto solo bassi. Comunque ci sono stati Sampras e prima, soprattutto, Edberg, per cui fare il tifo).
Ho saltato qualche passaggio? Semplicemente durante gli anni novanta ho abbandonato la Gazzetta, escluse le Grandi Manifestazioni. Ma soprattutto ho abbandonato lo sport. Il fare sport.
- Si ricomincia. Non crede che ne valga la pena?