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Lo stupore delle prese elettriche

Libero mercato, regole, esternalità, regolamentazioni.

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Da: “L’intelligenza del denaro” di Alberto Mingardi.

“il mercato è una sorta di olimpiade perpetua: comprende le specialità più diverse e assegna premi e penalizzazioni. Non c’è gioco che abbia inizio senza un regolamento chiaramente definito. È possibile tirare calci a un pallone in perfetta solitudine: ma il fatto di farlo con altri, in una partita che si gioca fra squadre, non sarebbe possibile in assenza di alcune condizioni note a tutte. Dal punto di vista «macro», il mercato non inizia e non finisce, e non ha scopi suoi propri. Dal punto di vista «micro», ogni scambio avviene nel tempo e nello spazio, e chi decide d’intraprenderlo ha le sue motivazioni. In ogni transazione si cede qualcosa per avere qualcosa. Scambiamo perché la nostra vita è immensamente migliore scambiando, di quanto lo sarebbe se non lo facessimo. L’ambizione dell’autosufficienza è tipica della povertà. Nessuno è in grado di sopperire autonomamente a tutte le proprie esigenze e a tutti i propri desideri. Le regole consentono i comportamenti «micro», che vanno a comporre il puzzle «macro».

La definizione più semplice e lineare che possiamo dare del processo di mercato è che esso è un processo di scoperta che avviene in condizione di rivalità.
Essi sono indipendenti l’uno dall’altro (liberi) e in concorrenza, in un contesto di scarsità: cercano di accaparrarsi una certa risorsa, per esempio, nella piena consapevolezza che essa non può essere ubiqua (se X ne fa uso in un certo momento, rende impossibile a Y fare lo stesso). Il fatto che beni capitali, collaboratori e consumatori siano scarsi, accende la gara competitiva. Rende necessaria quell’asta perenne che è un libero mercato. Gli attori economici hanno continuamente a che fare con l’incertezza. Le immagini nel caleidoscopio mutano di continuo. Gli attori di mercato, imprese e imprenditori in primo luogo, hanno bisogno che almeno le regole del gioco siano stabili e ferme nel tempo. Essi prendono già su di sé il peso dell’incertezza circa la bontà delle proprie scelte: possono provare ad anticipare il futuro, non prevederlo. Ma ciò è possibile se le regole del gioco consentono loro almeno di non essere incerti su alcuni fatti basilari: per esempio, che uno scambio possa, effettivamente, avvenire. Perché gli scambi avvengano è di fondamentale importanza che le persone siano ragionevolmente sicure che ciò che hanno scambiato sarà loro, a scambio concluso. Pensate agli slum di alcune grandi città, nel cosiddetto Sud del mondo. L’attività economica è frenetica: chi è povero dalla povertà vuole uscire. Si vende e si compra chincaglieria, cibo, prodotti artigianali. Nella più parte dei casi i titoli di proprietà possono essere riconosciuti dagli altri membri della comunità, legittimando così ciascuno scambio, ma non sono chiari e non sono tutelati. La criminalità diffusa mette a repentaglio il possesso dei beni dei partecipanti a questo mercato informale e le autorità pubbliche, proprio perché la rete di scambi è informale, non riconoscono i titoli di proprietà così guadagnati. Diventa impossibile accumulare un capitale, e non si riescono a compiere transazioni complesse.
La stabilità dei possessi è il cuore della vita associativa.
E’ unendo le forze, suddividendo e specializzando il lavoro, ripartendo i rischi, che troviamo uno strumento collettivo che ci consente di provare a raggiungere le nostre ambizioni individuali.
Stare insieme e scambiare ci conviene perché il mercato siamo noi.
“fanno sì che, all’asta perenne del mercato, le risorse vengano attribuite a quanti sono disponibili a pagare di più per esse, segnalando in tal modo che credono di essere in grado di farne un uso più produttivo. Una società in cui si scambia è una società mobile: i beni non passano di mano solo in società rigidamente divise in caste, dove ciascuno ha assegnato dalla nascita il loculo o il palazzo in cui dovrà rassegnarsi a vivere. Quando ciascuno dispone di poche o tante cose sue, che può mettere in gioco per scegliere quali beni o risorse acquistare, e quando ciascuno è considerato una risorsa che può farsi scegliere liberamente nei rapporti di lavoro e collaborazione che intrattiene con altri, viviamo in una società libera. Perché tutti possano godere del più ampio grado di libertà, la libertà di ciascuno deve essere egualmente limitata. Ad aiutarci a comprendere dove finisce la libertà dell’uno e dove incomincia la libertà dell’altro, è precisamente l’esistenza della proprietà. Io sono libero di distruggere un campo coltivato – se vanto su di esso un titolo di proprietà legittimo. E, simmetricamente, non sono libero di imporre il ricorso a nuove tecniche di coltivazione che migliorerebbero la resa del suo appezzamento al mio vicino di casa, anche se fosse «per il suo bene». La proprietà definisce un ambito che le donne e gli uomini possono trattare alla stregua del proprio corpo. Noi mettiamo sovente il nostro corpo a disposizione degli altri: il mezzadro presta le braccia, il pianista le mani, il fisico la materia grigia. Ma una cosa è farlo volontariamente, in un rapporto di cooperazione. Altra vederselo imporre. C’è differenza tra fare volontariato due ore a settimana e dover sottostare a un anno di servizio di leva. In un libero mercato, sono i detentori delle risorse a decidere cosa farne. Hanno accordi con il loro prossimo: non subiscono ordini.
La certezza del diritto è il singolo fattore più importante perché il processo di mercato possa avere luogo. Luigi Einaudi rese l’idea con un’immagine celeberrima: Tutti coloro che vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe avere luogo se, oltre ai banchi dei venditori, i quali vantano a gran voce la bontà della loro merce, ed oltre la folla dei compratori che ammira la bella voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe per vedere se sono di cuoio o di cartone, non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del municipio, col segretario e il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno in fiera17. In che cosa consiste la certezza del diritto? La stabilità dei possessi e la tutela degli scambi volontari (la libertà contrattuale) sono i due pilastri che garantiscono la libertà di scegliere e la libertà di farsi scegliere da parte delle persone. Non basta che queste due regole siano enunciate. Devono essere osservate: vuoi perché gli individui che compongono una certa società fanno mostra di comprenderle e accettarle, vuoi perché i carabinieri a bordo della piazza sembrano in grado, alla bisogna, di farsi valere.
Per venire alle prese con tali problemi, ogni tanto le persone si impegnano contrattualmente: ma, soprattutto, hanno a disposizione una storia di usi, di pratiche, di «tentativi» di far funzionare le cose già sperimentati in passato, che riesce a ridurre l’incertezza. Immaginando la sua fiera di paese (il suo «mercato»), Luigi Einaudi raccontava di una pluralità di soggetti che stanno ai margini della piazza. La certezza del diritto, che essi assicurano consentendo a mercanti e compratori di iniziare i propri traffici, è un oggetto un po’ più complicato del suo epifenomeno con cui spesso viene confusa: il fatto, cioè, che esistano codici scritti e liberamente consultabili da quanti vi sono sottoposti. Bruno Leoni suggeriva di distinguere fra una certezza del diritto a breve termine e una a lungo termine. È quest’ultima che davvero è necessaria a un ordine fondato sulla libertà. Nelle società contemporanee, «la legislazione è quasi sempre certa, cioè precisa e riconoscibile, finché è “in vigore”, ma non si può mai essere certi che la legislazione in vigore oggi sarà in vigore domani»18. Questo è un problema: non basta che una norma sia scritta e pubblicata, perché vi sia certezza del diritto, se un parlamento o un’autorità amministrativa possono riscriverla a piacimento. Leoni suggeriva di tornare a un’idea di certezza del diritto che egli riconduceva ai romani, per cui «il diritto non doveva mai essere soggetto a cambiamenti improvvisi e imprevedibili. In più, il diritto non doveva mai essere subordinato alla volontà o al potere arbitrario di qualsiasi assemblea legislativa o di qualsiasi persona, compresi i senatori e gli altri magistrati. Quando il diritto viene dal passato, ed è stato «ruminato» in una pluralità di esperienze, ha un grosso pregio: perde nome e cognome. Il diritto che serve a un’economia di mercato, per guadagnare in certezza, deve essere anonimo e impersonale. Anonime e impersonali sono quelle convenzioni che hanno vinto la sfida del tempo e che sono seguite e rispettate non tanto e non necessariamente perché sono state messe nero su bianco in un regolamento scritto, ma per abitudine e convenienza. Non è per la riverenza che ci ispira il codice della strada che guidiamo tenendo la destra. Anziché parlare di «certezza del diritto», gli anglosassoni sono affezionati a un’espressione rivelatrice: rule of law, regola della legge. Spesso rule of law si traduce con Stato di diritto, ma, non troppo curiosamente, della parola «Stato» nell’inglese non c’è traccia – perché la regola del diritto si riferisce a un’esperienza più vasta di quella particolare agenzia, lo Stato appunto, cui siamo soliti ricondurre l’applicazione delle norme. La più chiara e suggestiva spiegazione di che cosa sia la rule of law si deve a uno dei massimi filosofi britannici del secolo passato, Michael Oakeshott: la nostra esperienza ci ha rivelato un metodo di governo in grado di fare un uso considerevolmente parco del potere e che, di conseguenza, è particolarmente idoneo a preservare la libertà: si chiama rule of law. Se l’attività del nostro governo consistesse in intrusioni, continue o sporadiche, nella vita e nell’organizzazione della nostra società, intrusioni attuate per il tramite di arbitrarie misure correttive, non potremmo più ritenerci liberi […]. Ma un governo improntato alla rule of law (ossia, per mezzo dell’applicazione con metodi legalmente prescritti di regole consolidate che vincolino in pari misura governanti e governati), pur non risultando più debole, rappresenta il simbolo stesso di quella diffusione del potere che esso è stato costituito per favorire ed è pertanto particolarmente idoneo a una società libera.
La rule of law è parca nell’utilizzo del potere, esclude interventi discrezionali, rispetta il modo in cui la società si organizza da sé, non ammette differenze di trattamento fra chi governa e chi deve obbedire. Definisce, piuttosto, la cornice all’interno della quale avranno luogo le relazioni sociali. L’ha spiegato con chiarezza Mauro Grondona: «È alle regole estraneo uno scopo particolare; al contrario, il loro scopo è astratto, dirette come sono non a prescrivere specifiche modalità di azione agli individui, ma a permettere che questi ultimi agiscano»21. Le norme di cui ha bisogno un mercato libero sono regole del gioco: non devono essere modificabili, a piacere, dall’arbitro. Non tutti gli arbitri interventisti hanno una moglie un po’ libertina: può anche darsi che l’arbitro abbia le migliori delle intenzioni, che cerchi di dare risposta a un problema che ha visto emergere nel corso della partita. Ma che partita sarebbe, quella in cui l’arbitro può tranquillamente modificare i regolamenti mentre i giocatori sono in campo? Sarebbe una partita nella quale le squadre, piuttosto che investire denaro per contendersi gli atleti migliori, spenderebbero quattrini per disputarsi il favore dell’arbitro. L’alertness dell’imprenditore diventa la prontezza di scoprire un prezzo solo: quello di chi fa le regole.

NORME A LA CARTE

Mercato o regole? Nella discussione comune, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2007-2008, l’una cosa e l’altra appaiono inevitabilmente in tensione. La libertà di mercato «è una volpe sguinzagliata nel pollaio» (Che Guevara). Il mondo sembra destinato a spaccarsi in due: da una parte, forze minoritarie, ma vocianti, che del mercato vorrebbero fare a meno del tutto.
Parole che nel secolo passato sono state potenti calamite di consenso (socialismo, comunismo) non vengono più utilizzate per pudore, ma la sostanza è la stessa. Dall’altra, quelli che passano come i sostenitori «socialmente accettabili» del mercato, i favorevoli al mercato «ma». Ma che sia un mercato ben temperato: regolamentato, normato, sorvegliato da apposite agenzie, deputate a rendere fair il gioco economico. L’economia di mercato è considerata alla stregua di un potente composto chimico, necessario per consentire la creazione di ricchezza a vantaggio di tutta la società: però instabile, perennemente a rischio di causare un’esplosione. Le regole servirebbero, pertanto, non per definire i confini del campo di gioco nel quale gli attori economici possono provare a perseguire ciascuno i propri scopi, ma a canalizzare la reazione chimica nella direzione più opportuna: a cambiare gli obiettivi che perseguono.

Non si tratta più di norme che, come le regole degli scacchi, sono indispensabili perché i giocatori possano cominciare a spostare le pedine sulla scacchiera: non sono regole del gioco. Sono piuttosto norme che vanno a disciplinare, a indirizzare, attività che esistono indipendentemente da esse: e che mirano a condizionarne gli esiti. Più che di regole, in questo caso è opportuno parlare di regolamentazioni. Le regole, come abbiamo visto, sono astratte, generalmente applicabili, senza nome né cognome.

Si tratta di norme che condizionano l’agire degli attori economici indipendentemente da quello che fanno. Le regolamentazioni, al contrario, sono specifiche, ritagliate addosso a un singolo settore industriale. Come farebbero, altrimenti, a influenzarne lo sviluppo efficacemente? Se osserviamo l’esito del processo di mercato con umiltà, possiamo accontentarci di regole uniformemente applicabili. Faites vos jeux. Se invece abbiamo a priori un’idea della forma che deve assumere un certo mercato, dei prodotti che le imprese che lo abitano «devono» realizzare, e se pensiamo che ci sia un esito della gara competitiva buono e altri che non lo sono, necessariamente dovremo produrre regole particolari, specifiche: «regolamentazioni».

Queste norme potranno essere emanate dai parlamenti – oppure da autorità ad hoc, ciascuna delle quali tipicamente specializzata nel presidiare un certo ambito della vita economica. Quest’ultimo caso è sempre più frequente. Più le norme diventano specifiche, e maggiore è la conoscenza tecnica necessaria per scriverle e farle rispettare. È naturale, pertanto, che questo lavoro venga demandato a organismi specializzati. Ci sono casi nei quali il ricorso ad autorità di regolamentazione è inevitabile.

Immaginate di vivere in un paese nel quale la rete telefonica è stata costruita da un’impresa che era proprietà dello Stato e operava in regime di monopolio. A un certo punto, e per fortuna, quell’impresa viene privatizzata e, attraverso una «liberalizzazione», si cercano di attirare nuovi concorrenti: per avere più imprese che provano a fornire servizi di telefonia, con un’offerta diversificata, innovazione imprenditoriale e, auspicabilmente, facendosi concorrenza anche sul prezzo. La rete telefonica rappresenta un’infrastruttura fondamentale per chiunque voglia fornire quel genere di servizi. È difficile costruire una rete concorrente, non solo perché la spesa sarebbe ingente, ma soprattutto perché i fili del telefono raggiungono le famiglie sulla porta di casa, sono stati inseriti in appositi alloggiamenti quando venivano progettati i condomini, la scarsità più seria è quella degli spazi. Chiunque volesse costruire una rete alternativa, dovrebbe negoziare con ogni proprietario di un qualsiasi stabile il diritto a devastarlo per far ripassare i suoi cavi – pena il non poter servire i consumatori potenziali. In una situazione simile, è ragionevole che, chi ha costruito la rete e ora vende l’impresa che ne è proprietaria, lo Stato, tenga per sé il diritto di indirizzare l’accesso alla medesima.

Provate a pensare all’ipotesi opposta: apertura alla concorrenza sì, ma solo «su gentile concessione» del proprietario dell’infrastruttura. Se ci sono due aziende ferroviarie in un paese, e i binari appartengono a una di queste, che li ha costruiti coi denari del contribuente, l’altra viene di fatto lasciata in balia delle sue bizze. Il ricorso a norme specifiche pensate per «stimolare» la competizione è pressoché inevitabile in tutte le transizioni, da un monopolio statale a un contesto competitivo. È inevitabile, in questi casi, che la competizione venga stimolata artificialmente, «in serra». Liberalizzare dopo aver nazionalizzato è una decisione politica, e costringe al mai facile tentativo di immaginare un mercato dove non c’è. Concentriamoci invece su un caso diverso. Quello di regolamentazioni che vengono calate su un mercato che esiste già, con l’obiettivo di correggere scambi che già avvengono. I sostenitori della regolamentazione hanno sempre motivi nobili: il più frequente è la necessità di «tutelare i consumatori».

L’argomento di base è più o meno questo. Per un consumatore, l’acquisto di un singolo bene è un atto come tanti. Corrisponde a un suo desiderio o a un suo bisogno, ma la signora che deve comprare un set di coltelli da cucina raramente affronterà uno studio della forma e delle modalità di affilatura prima di procedere all’acquisto, molto probabilmente non ha una conoscenza granché approfondita delle colle utilizzate per fissare la lama nel manico, non è detto che abbia opinioni definitive su quali materiali rendano più salda l’impugnatura. Al contrario, chi sta sul lato dell’offerta si è posto tutti questi problemi, ma le risposte che si è dato, se servono a ordinare i fattori della produzione con l’obiettivo di «massimizzare i suoi profitti», non è detto vadano anche nell’interesse del consumatore. Il quale, ignorante com’è, sarebbe facile preda di produttori con pochi scrupoli. Di qui la necessità di proteggerlo: costringendo il produttore a sciorinare tutte le informazioni a sua disposizione, oppure obbligandolo a utilizzare alcuni materiali piuttosto che altri e alcune procedure di produzione piuttosto che altre.

Ragionare così significa presumere: – che il consumatore non sia in grado di «leggere» il mercato attraverso il sistema dei prezzi; – che il regolatore sia in grado di definire quali sono le informazioni salienti, oltre al prezzo, di cui il consumatore ha bisogno per fare una scelta informata (ma che curiosamente, a quanto pare, quest’ultimo non pretende di suo); – che il modo sicuro e corretto per realizzare un certo prodotto o servizio sia definibile a tavolino, sulla base delle informazioni disponibili, da parte di un ente che pure non è direttamente interessato alla sua produzione. È evidente che tutti coloro che comprano e vendono un qualsiasi bene non hanno a disposizione esattamente le medesime informazioni. Ma la «magia» del libero mercato è che non è per nulla necessario che sia così. Tanto più un mercato è ramificato e complesso, e tanto più ciascuno di noi può servirsi delle competenze sviluppate da altri. Per sottoscrivere un contratto con una compagnia elettrica non dobbiamo esserci laureati in ingegneria elettrica. Per utilizzare un iPhone non dobbiamo studiare informatica. Per mangiare della carne non c’è bisogno di avere un’idea precisissima dell’anatomia del vitello.

Sono proprio queste asimmetrie che ci portano a scambiare. I nostri scambi sono orientati dal sistema dei prezzi, perché i prezzi ci consegnano, sinteticamente, le informazioni di cui abbiamo bisogno. È l’intelligenza (collettiva) del denaro: il mercato ci consente di fare economia della conoscenza. Non devo aver già assaggiato tutti i vini che sono nella carta di un ristorante per nutrire aspettative diverse su una bottiglia che costa quindici euro rispetto a una che ne costa quarantacinque. Quando si pone in essere una determinata regolamentazione, si assume che ci siano dettagli che al consumatore sfuggono e che non vengono correttamente rappresentati dal prezzo. In un caso del genere, si fa sostanzialmente un atto di fede nel regolatore. Perché, non appena certi dettagli diventassero rilevanti per il consumatore, essi verrebbero riflessi nei prezzi. Quando qualcosa diventa rilevante per il consumatore (l’aria condizionata di serie), si sviluppa una disponibilità a pagare.

Non è così pacifico che il regolatore faccia bene a ritenere determinate cose importanti, e invece la signora Maria sbagli a trascurarle. Magari, nelle circostanze concrete in cui la signora Maria deve utilizzare il suo set di coltelli da cucina, importanti non lo sono affatto. E quasi certamente non lo diventeranno, se il consumatore assume che stia ad altri farci attenzione. Orientando in un modo piuttosto che in un altro i processi produttivi, proibendo o consentendo l’uso di determinati materiali, la regolamentazione sottrae al consumatore l’onere di farsi un’idea, e di modificare di conseguenza le sue aspettative. Parrebbe un’operazione innocua, ma diminuisce l’incentivo del consumatore a essere attento rispetto al bene o al servizio che sta acquistando.

È ragionevole che qualcuno si proponga per livellare l’asimmetria d’informazione fra le due parti coinvolte in uno scambio. Quando facciamo un’offerta su eBay, la prima cosa che guardiamo sono i feedback incassati da un venditore. In questo modo, la casa d’aste ci presenta sinteticamente la sua storia, dandoci un’idea del grado di soddisfazione dei suoi acquirenti precedenti. Lo stesso avviene quando, passeggiando per il centro della città, vediamo un ristorante pieno e un altro vuoto. Il colpo d’occhio non ci rivela immediatamente perché i consumatori preferiscano l’uno piuttosto che l’altro, ma ci dice quale dei due ottiene il maggior gradimento. Esistono molti ambiti nei quali non ci bastano le informazioni veicolate dai prezzi. Prima di comprare un’auto nuova andiamo a leggere riviste e siti di settore.

Se le decisioni di acquisto sono percepite come importanti, il compratore non si accontenta della prima impressione. Questo crea una domanda per servizi che offrono il punto di vista degli esperti («Quattroruote») o che consentono alle persone di condividere direttamente le loro esperienze (TripAdvisor). Gli appassionati di vino compulsano «Wine Spectator» o la guida di Robert Parker prima di procedere a un acquisto di quelli seri. Gli amanti dell’opera non si perdono le recensioni sul domenicale del «Sole 24 Ore». Sono tante le situazioni in cui cerchiamo il conforto della parola di un esperto – e anche per gli esperti c’è mercato. I più abili esprimono le loro valutazioni in forma di voto, o con un punteggio percentuale: perché siamo abituati a cercare e leggere indicatori sintetici, per l’appunto a cominciare dai prezzi. Gli economisti temono il monopolio, perché il monopolista tende a limitare artificialmente la produzione per esigere prezzi più alti.

Il proprietario dell’unico pozzo nel deserto, se l’immaginiamo spietatamente calcolatore, centellinerà l’acqua ai viandanti assetati, e si farà pagare cifre sproporzionate per ogni bicchiere. Perché allora dovremmo riconoscere il monopolio della conoscenza, a cuor leggero, al regolatore di un certo settore? In un mercato libero non solo la conoscenza è dispersa, ma viene continuamente prodotta attraverso gli scambi. L’imprenditore prova ad anticipare le aspettative dei consumatori, ma non è sicuro di aver avuto ragione finché non si sottopone al loro giudizio. I suoi avversari, nella gara competitiva, interpretano a modo loro la situazione di mercato, offrendo qualcosa di diverso. Nuovi concorrenti si fanno avanti, se immaginano ci sia una domanda inespressa. Regolamentare significa, inevitabilmente, frenare questo processo, perché si riducono gli spazi lasciati allo scambio, gli spazi cioè in cui si potrebbe produrre nuova conoscenza.

Se è un regolatore ad arrogarsi il monopolio della certificazione, della bollinatura di ciò che è buono e ciò che non lo è, chi vorrebbe offrire quel servizio non ha più spazi. Immaginiamo ci sia un ranking dei ristoranti, affidato a un’apposita autorità. TripAdvisor diventerebbe, alla meglio, un sito clandestino. Ciò bloccherebbe quella continua produzione di informazioni, attraverso le recensioni degli utenti, che ne è la forza. Questo però potrebbe essere un effetto accettabile della regolamentazione. Ogni tanto nella vita si pagano anche prezzi elevati, se ne vale la pena. Pensiamo per esempio a un fine più che condivisibile: la sicurezza degli automobilisti. In una società che viaggia su quattro ruote, il tema è di tale rilevanza che un po’ di sabbia negli ingranaggi del mercato parrebbe un prezzo modico da sostenere.

Per «effetto Peltzman» si intende il fenomeno per cui, là dove si introduce una protezione obbligatoria, la percezione del rischio si abbassa, incentivando comportamenti che vanno nella direzione opposta agli effetti auspicati dalla norma stessa. In altre parole, le buone intenzioni non bastano. Le prescrizioni che sono pensate per proteggerci da noi stessi, ogni tanto ci illudono al punto da renderci più spericolati. Se bastasse scrivere una buona norma perché la sicurezza stradale, o la qualità dei prodotti finanziari, migliorasse, come sicuramente è nelle intenzioni di chi quella norma l’ha scritta, il mondo sarebbe un posto molto più semplice. Invece le norme emanate dai parlamenti o i regolamenti licenziati dalle agenzie di regolazione hanno conseguenze inintenzionali: effetti che non erano stati previsti e che arrivano talora persino a vanificare lo spirito delle regole. Che una qualsiasi azione abbia effetti imprevisti da chi pure l’ha posta in essere, fa parte della vita.

Hayek prende come esempio di conseguenza inintenzionale il modo in cui si forma un sentiero in una zona disabitata: ciascun viandante cerca, da principio, quella che gli pare essere la strada migliore. Ma «per il semplice fatto di essere già stato percorso una volta, un sentiero risulta, verosimilmente, più facile da percorrere e, quindi, diventa più probabile l’ulteriore sua utilizzazione»23. È così che emergono, con il tempo, sentieri meglio tracciati e definiti: l’intenzione di chi ha scoperto il sentiero non era altro che camminare, lui, nella direzione che gli appariva più promettente. Ogni tanto le nostre azioni hanno un impatto «oltre le più rosee previsioni». Altre volte, come nel caso delle cinture di sicurezza, gli effetti smentiscono le intenzioni dei soggetti coinvolti. Se l’informazione che i decisori hanno a disposizione sul mondo che ci circonda fosse perfetta, se nulla sfuggisse alla loro comprensione, ovviamente non ci sarebbero conseguenze non intenzionali. E invece, persino coloro che sono più preparati, più informati, più zelanti, vengono sorpresi dalla realtà. C’è da scommettere che gli strateghi di Filippo II di Spagna avessero pianificato nel minimo dettaglio l’invasione dell’Inghilterra. Ma, rammenta il filosofo Alfred N. Whitehead, non conoscevano il terreno di scontro.
Finora abbiamo discusso presumendo che le regolamentazioni siano concepite e scritte nell’interesse generale. I loro fautori sembrano spesso pensare che la realtà sia in bianco e nero: da una parte ci sono i produttori di beni e servizi, che tendono a mettere il loro interesse prima della sicurezza del loro prossimo, per amor di guadagno. Dall’altra ci sono quanti le norme le scrivono e che, pur percependo un compenso per farlo, sono mossi da una più nobile concezione dell’interesse generale.

In realtà, si capisce poco della regolamentazione se non la si considera come un fenomeno istituzionale. Una sua autentica escalation ha segnato tutti i paesi occidentali negli scorsi trent’anni. In parte questo fenomeno ha seguito una logica piuttosto lineare. Siccome viviamo in un mondo in cui è normale che lo Stato sostenga, indirizzi, orienti il gioco economico, e l’economia privata nel secolo scorso ha prodotto grandi innovazioni, dalla medicina all’informatica, era impossibile che la produzione di nuove norme non la seguisse: almeno per placare l’horror vacui dei decisori politici. In parte, la crescita della regolamentazione è dovuta al fatto che essa è un’attività organizzata. La creazione e l’applicazione di norme specifiche per diversi settori economici è ormai saldamente in mano a enti che sono specializzati e tendenzialmente autoreferenziali.

Le authority hanno una missione che è stata determinata dall’iniziativa politica: tutelare i consumatori, ripulire l’aria delle città dalle polveri sottili, sorvegliare la trasparenza negli appalti pubblici o la sicurezza dei farmaci eccetera. Le scelte delle autorità di regolazione non hanno per esito diretto, come possono avere le decisioni di spesa dei parlamenti, tasse più alte per i cittadini. Piuttosto, interferendo con il sistema di mercato, «inquinano» il sistema dei prezzi: possono far lievitare i costi di un certo servizio o di un certo prodotto, possono diminuire le opportunità d’impiego per i detentori di una certa risorsa, possono perfino indurre gli operatori di mercato a sbagliare di più di quanto avverrebbe se i prezzi fossero «puliti», liberi da interferenze.

Ma raramente il cittadino comune, che paga le tasse e va a votare, sarà in grado di ricondurre chiaramente un certo problema alle attività dei regolatori. Queste attività restano nella penombra, misteri iniziatici penetrabili da pochi, note soltanto a chi le esegue, a chi le subisce, e agli avvocati di chi le subisce. Avere a che fare con una controparte strutturata, che gode del potere legale di emendare l’esito della gara competitiva, è per le aziende regolamentate un’opportunità. Come abbiamo accennato poc’anzi, se le squadre sanno che l’arbitro può cambiare le regole del gioco, investiranno un po’ meno dei propri soldi in un nuovo centravanti e ne spenderanno invece per «parlare» con l’arbitro. Ciò che più conta, per un’impresa regolata, è tenere aperto un canale con chi decide le regole con le quali giocherà: far sentire i propri argomenti, presentare il proprio punto di vista. A un certo punto, sull’introdurre o meno una certa norma o sul modo in cui essa deve essere applicata, piuttosto che sulla modalità in cui deve essere tarata una sanzione, le posizioni del regolatore finiscono per collimare con quelle di una certa azienda. Questo è inevitabile, perché la regolamentazione è una reazione al fatto che il mercato non ha uno scopo, non ha un principio ordinatore. Chi regolamenta impone al gioco economico un fine altro, un obiettivo sociale a esso esterno e, a suo modo di vedere, superiore. Maggiori sono i poteri del regolatore e maggiori saranno gli sforzi delle imprese regolamentate per portarlo dalla propria, per il principio per cui è meglio dar da mangiare a un coccodrillo che farsi sbranare. Non è necessario che un regolato sia in relazioni tali col regolatore da dichiarargli «ti bacerei in fronte», come fece Gianpiero Fiorani con il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, arbitro del sistema bancario. «Catturare» un regolatore non significa neanche metterlo a libro paga. Significa averlo convinto che l’interesse generale si sovrappone all’interesse di una o più aziende, quale che sia l’evoluzione che sta avendo il mercato. Beninteso: ogni tanto questo può essere vero, il fatto che la regolamentazione delle tariffe in un certo settore garantisca al regolato una forte remunerazione degli investimenti in innovazione, per esempio, può avere effetti positivi per tutta la società.

L’aspetto rilevante è però la differenza con il processo di mercato. Da una parte abbiamo un gioco aperto, nel quale non ci sono posizioni garantite a priori e nel quale tutti gli attori possono sbagliare, e imparare dagli errori l’uno dell’altro. Dall’altra un disegno predeterminato, che è stato pensato e costruito per produrre benefici a vantaggio di alcuni attori, scelti sulla base di qualche criterio non dai «consumatori», ma da un individuo con nome e cognome: il regolatore. Negli scorsi anni, soprattutto nel nostro paese, la regolamentazione è stata vista come sostanzialmente alternativa alla politica industriale. Della politica industriale lo Stato era un attore primario, attraverso tre conglomerati – l’Iri, l’Eni e l’Efim – che detenevano la proprietà di un gran numero di aziende. Il catalogo nel nostro paese è stato particolarmente vasto: telefoni e petrolio, siderurgia e autostrade, banche, ma anche occhiali da vista, sale, pubblicità televisiva, pomodori pelati, brodi e ragù, panettoni e gelati sono stati tutti «made in Ppss (partecipazioni statali)».
A un certo punto le inefficienze dell’industria pubblica, e la necessità di far cassa, hanno aperto la strada a una lunga traversata nel deserto nella quale buona parte delle partecipazioni statali è stata restituita al mercato. Lo Stato ha scelto di concentrarsi di più sulle sue funzioni regolatorie: per gestire alcune «transizioni al mercato», ma anche per perseguire fini non troppo diversi con un diverso strumento. Persino il più convinto degli statalisti non ha difficoltà ad accettare la proprietà privata dei mezzi di produzione, se lo Stato può imporre a chi li detiene di farne un utilizzo piuttosto che un altro. La regolamentazione è, in buona sostanza, la prosecuzione della politica industriale con altri mezzi. Lo Stato imprenditore sostituisce alla prontezza imprenditoriale la mentalità burocratica e per lucrare profitti «a prescindere» dalla sua capacità di avere successo si garantisce il diritto di agire in monopolio. Così facevano la televisione di Stato, la compagnia telefonica di Stato, la compagnia elettrica di Stato. Lo Stato regolatore chiude alla prontezza imprenditoriale tutta una serie di porte, per costringerla a un catalogo di comportamenti predeterminato. Così facendo limita il raggio dell’innovazione. L’innovazione non riguarda solo l’invenzione di nuovi prodotti o servizi, ma anche la scoperta di modi nuovi per realizzare, reclamizzare, migliorare prodotti o servizi già esistenti. La regolamentazione si sostituisce al mercato nel passare al vaglio le innovazioni, apre la porta ad alcune, la chiude ad altre. Ciò crea incertezza. Proprio il fatto che le norme possano cambiare di continuo, che l’arbitro possa entrare in campo, contribuisce a deteriorare la certezza del diritto e limita l’impulso degli innovatori: non sia mai che un certo cambiamento non sia gradito al regolatore. Il premio Nobel George Stigler, grande studioso di questi temi, ipotizzò che «ogni comparto produttivo o ogni professione che abbia sufficiente potere politico per utilizzare lo Stato cercherà di controllare l’entrata [dei concorrenti nel mercato]. […] molto spesso la regolamentazione verrà architettata in modo tale da ritardare le possibilità di crescita delle nuove imprese»25. In altre parole, la regolamentazione è fatta e pensata per chi c’è già: per le imprese che già operano in un certo mercato in un certo momento. Non può, in tutta evidenza, immaginare il modo e le ragioni per cui altri operatori vi entreranno, le intuizioni sulla base delle quali si muoveranno, i cambiamenti che porranno in essere. È ritagliata sugli insider, per i quali – siano punitive o protettive le intenzioni di chi regolamenta – è stata scritta. Questo ovviamente può accadere sia nel caso in cui una particolare norma sia il prodotto di un’autorità di regolazione, sia nel caso essa sortisca da un’iniziativa parlamentare. In Italia, nell’estate 2011 il parlamento ha votato una legge che regolamenta gli sconti massimi praticabili al compratore da librerie ed editori che fanno vendite dirette. In quel caso, la scelta politica era chiara: proteggere «chi c’era», le piccole librerie, dalla cannibalizzazione di internet e, in particolare, di un outsider con nome e cognome, Amazon, che, essendo appena arrivato sul mercato italiano, cercava di conquistare consumatori con sconti roboanti.
Oggi, però, Borders è fallita. Quel modello di business è stato infatti superato da Amazon, immenso negozio online, che garantisce al consumatore di poter comprare virtualmente qualsiasi volume in commercio, con tempi di recapito certi e sconti consistenti. Amazon, paradossalmente, ha fatto la fortuna dei piccoli librai. Questo colosso, infatti, per essere sicuro di soddisfare le domande più diverse, ha aperto le porte alle librerie che vogliono usare i suoi circuiti di vendita – andando ad avvicinare la domanda dei consumatori con una gigantesca rete di negozi di libri usati. Oggi assistiamo alla rivincita di Meg Ryan. Sono cambiate le condizioni esterne, e imprese che parevano destinate a passare la mano solo una decina di anni fa oggi si scoprono «adatte» al nuovo contesto competitivo. Questa scoperta non si deve a un attento regolatore, ma alle innovazioni prodottesi nel processo di mercato. È prassi comune, nel dibattito pubblico, invocare interventi esterni per «emendare» gli esiti di un certo mercato. Le situazioni cambiano e così le aziende attrezzate per sopravvivere e prosperare: questo è un mercato libero. Una regolamentazione che fissi arbitrariamente un tetto massimo agli sconti non può migliorare il processo di mercato: può rendere più agevole o più difficile la vita di alcuni singoli operatori, in un determinato contesto. Può stroncarne o sorreggerne alcuni: quelli che, nell’opinione di chi costruisce le norme, «meritano» il successo o una punizione. Un mercato è un ecosistema «robusto» nel momento in cui riesce a imparare dallo spreco e dall’errore: perché ciò possa avvenire, chi ne fa parte deve poter provare, sbagliare, eventualmente fallire. È l’ambiente che determina quali saranno le mutazioni di successo. Se le mutazioni sono indotte, non siamo più in un ecosistema: siamo in una serra. Dove basta un errore del giardiniere per sterminare un’intera generazione di piante.

ESTERNALITA’
Non tutti gli scambi hanno effetto solo sulle persone che scambiano. Si parla di esternalità quando l’attività di uno o più attori economici ha effetti sul benessere di un terzo, che non è coinvolto nello scambio e che non viene compensato per il danno subito o che non ha dovuto pagare per il beneficio ottenuto. In caso di esternalità positive (i vitigni ben ordinati delle Langhe e del Chianti), di rado si levano lamentele. Le esternalità negative suscitano invece comprensibili timori: soprattutto quando riguardano l’ambiente. Nella nostra società, la preoccupazione per la tutela dell’ecosistema è assai diffusa, e porta molti ad abbracciare critiche anche radicali dell’economia industriale. Secondo un numero crescente di persone, la produzione capitalista pianterebbe i semi di un inevitabile peggioramento delle condizioni di vita. L’ansia della generazione presente di produrre e possedere «cose» metterebbe in pericolo l’aria pulita delle generazioni future. Se esaminiamo questi argomenti prendendo come riferimento il mondo intero, la discussione si fa davvero complessa. Un problema che riguarda tutti indiscriminatamente, come il riscaldamento globale, richiede soluzioni condivise – che vengono di norma perseguite attraverso trattati internazionali. Ma le nazioni che inquinano di più tendono a essere quelle dove vi è stata meno innovazione tecnologica: i paesi di più recente industrializzazione. Ammettendo che essi contribuiscano a far aumentare i fattori di rischio, è pur vero che stanno cercando di «raggiungere» un Occidente sviluppato da tempo, e che per giunta ha la coscienza sporca di secoli di sfruttamento coloniale. Se debba avere priorità la possibilità concreta, per milioni di persone, di uscire dalla povertà industrializzandosi, o le preoccupazioni per il futuro del globo, è un dilemma etico che fa tremare i polsi. Ragioniamo su una scala inferiore: per tutti quei casi in cui c’è «inquinamento in un solo paese». Gli impianti industriali producono esternalità. Per realizzare un qualsiasi manufatto (si tratti dell’artigiano che deve azionare un tornio o di un’azienda meccanica che produce motori in serie), c’è bisogno di energia. La produzione e la trasformazione dell’energia fanno assegnamento, in linea di massima, su dei combustibili. Questi combustibili, lo dice il nome, devono essere bruciati. Bruciando, emettono fumi che si disperdono nell’aria. Le aziende non inquinano perché vogliono inquinare. Solo la caricatura di un capitalista, tipo il signor Burns dei Simpson, potrebbe produrre inquinamento per il piacere di immettere sostanze nocive nell’aria. L’inquinamento è però la conseguenza, per quanto indesiderata, di una produzione. Per realizzare un certo numero di beni, per i quali esiste domanda, le imprese devono assumere persone e, così facendo, creano occupazione e diffondono ricchezza. Lo stesso lavoro di quelle persone, però, non può avere luogo senza che si abbiano effetti meno desiderabili. In uno scambio, gli interessi di quanti vi sono coinvolti (chi compra verdura, chi vende verdura) coincidono, in un certo momento nel tempo. Ciascuna delle due parti si priva di qualcosa (insalata o denaro) per raggiungere una situazione più soddisfacente. Ma mentre questo avviene possono realizzarsi effetti negativi che colpiscono altri, che non traggono diretto beneficio dalla transazione.Immaginiamo che, ogni volta che il verduraio consegna al cliente un cestello di pannocchie, ne cada qualche foglia. L’acquirente non ne soffre, perché mangia il mais e non le foglie. Il venditore non perde merce che potrebbe vendere altrimenti. Ma la piazza del mercato, a sera, sarà ingombra di foglie, che infastidiscono la passeggiata serale degli abitanti di quella città. Che si fa? Istintivamente, diremmo che non ci sono che due possibilità. Serve un’ordinanza comunale per proibire agli ambulanti di vendere mais o (più auspicabilmente) per obbligarli a raccogliere le foglie. In alternativa, si può imporre un tributo speciale ai commercianti che partecipano al mercato: con il ricavato il comune si pagherà i costi che deve sostenere per ripulire la piazza. Il premio Nobel Ronald Coase26 ha sostenuto che le soluzioni più efficaci, per far fronte a questo genere di problemi, non sono necessariamente quelle calate dall’alto. Immaginiamo che nello stesso stabile stiano una lavanderia a gettoni e lo studio di uno psichiatra. La lavanderia a gettoni, per lavorare, deve far funzionare le lavatrici, che – concentrate in gran numero in un piccolo spazio – fanno molto rumore. Lo psichiatra ha bisogno di quiete per ricevere i suoi pazienti e parlarci. Se ragionasse come abbiamo fatto noi per la piazza del paese, lo psichiatra dovrebbe adoperarsi per far dichiarare illegale l’attività della lavanderia a gettoni. Ma questa è una strategia che gli richiede di bussare alla porta del decisore politico e potrebbe anche rivelarsi controproducente: il comune potrebbe decidere che, siccome le lavanderie a gettoni hanno più consumatori degli studi psichiatrici, sono questi ultimi che non devono aprire in loro prossimità. Se il proprietario della lavanderia e il medico riescono a parlarsi, suggerisce Coase, è possibile che si accordino fra di loro. disponibile a pagare il proprietario della lavanderia perché tenga chiuso in certe fasce orarie, oppure affinché faccia installare dei pannelli fonoassorbenti. Questa idea di Coase è stata formalizzata in un «teorema» da un altro premio Nobel, George Stigler: se i costi di negoziazione e transazione sono nulli, la contrattazione tra agenti economici porterà a soluzioni efficienti da un punto di vista sociale anche in presenza di esternalità e a prescindere da chi detenga inizialmente i diritti legali. Non è detto che la distribuzione delle risorse, e delle responsabilità che la gestione di una risorsa porta con sé, sia «quella giusta» solo perché è la distribuzione che c’è. Coase sostiene che se le transazioni necessarie alla redistribuzione delle risorse non comportano dei costi, il mercato eliminerà spontaneamente una cattiva distribuzione, producendone una nuova, migliore. Perché questo avvenga, bisogna che ci sia certezza su chi possiede che cosa. Immaginiamo che una discoteca svolga la sua attività dirimpetto a un hotel con spa che propone «trattamenti rilassanti» ai suoi clienti. L’attività del locale per anni langue fino a quando un nuovo gestore riesce a ravvivarla. La musica ad alto volume sino a tarda notte della discoteca Rossi danneggia l’albergo Bianchi, che vede ridursi la clientela che cerca un angolo di relax. Bianchi può pretendere da Rossi di essere compensato per il danno subito. In un paese con un sistema giudiziario efficiente, può rivolgersi a un tribunale per vedersi riconosciuta una compensazione economica, minacciando di bloccare l’attività di Rossi. Ma per Rossi è in tutta evidenza più conveniente accettare di pagare Bianchi per il danno che sopporta, anziché trasferire altrove la sua discoteca o farsi dettare gli orari di apertura da un giudice. Simmetricamente, potrebbe essere più conveniente per Bianchi pagare Rossi a sufficienza da indurlo a spostarsi altrove.
parlano e negoziano, il problema può risolversi in modo soddisfacente per entrambi. La piazza invece non è del signor Rossi o del signor Bianchi, ma del comune, quindi, teoricamente, di tutti gli abitanti della città, ma, concretamente, non rientra nelle disponibilità immediate di nessuno di essi. Il problema allora non è di per sé legato all’esistenza di esternalità negative: le esternalità possono essere «internalizzate» quando è chiaro chi possiede che cosa. La vera questione è che, là dove la proprietà è «collettiva», tutti sono proprietari e nessuno è proprietario. L’argomento di Coase scosse la comunità scientifica, quando il suo saggio venne pubblicato, stimolando numerosi tentativi di confutazione. Un altro futuro premio Nobel, James Meade, sostenne che non tutti i casi di esternalità erano risolvibili secondo una logica coasiana27. Meade fece l’esempio dell’apicoltura. Le api volano sui fiori di diverse colture e, pertanto, la vicinanza di un appezzamento coltivato con fiori che producono nettare beneficia gli apicoltori nella stessa area. Ma l’agricoltore non ne percepisce i benefici, e quindi ha uno scarso incentivo a seminare colture adatte. Secondo Meade, dal momento che le api non possono essere costrette a rispettare la proprietà o a tener fede ai patti stipulati per via contrattuale, non si potrebbe seguire l’approccio di Coase. È necessario o sussidiare gli agricoltori affinché piantino i fiori «utili» (agli apicoltori), o accettare l’inefficienza di questa distribuzione così com’è. In verità Steven Cheung dimostrò che da anni, e senza che nessun legislatore intervenisse, gli apicoltori e i contadini le cui attività confinavano l’una con l’altra avevano cominciato a stipulare accordi mutuamente vantaggiosi. Quando le colture producevano nettare e non avevano bisogno di essere impollinate, gli apicoltori pagavano gli agricoltori per avere il permesso di sistemare le proprie arnie sui campi di questi ultimi. Quando le colture producevano poco nettare, ma necessitavano di un’impollinazione (che ne accresce la resa), erano gli agricoltori a pagare gli apicoltori. Cheung riscontrò che esisteva una «tradizione del frutteto», senza bisogno di interventi legislativi o di accordi contrattuali. Una regola stratificata nel tempo, del genere cui facevamo riferimento. Questa convenzione prevedeva che «durante il periodo dell’impollinazione il proprietario di un frutteto vi sistema in proprio le api, oppure noleggia da altri il medesimo numero di arnie presenti nei frutteti vicini. A quanto pare, chi non lo facesse avrebbe la nomea di “cattivo vicino” e sarebbe soggetto alle più diverse noie da parte dei proprietari dei frutteti confinanti»28. Là dove è evidente chi subisce le esternalità, allora, non è detto che serva una regolamentazione – o un divieto – per risolvere il problema. Se le persone sono libere di scegliere e libere di farsi scegliere, si sviluppano diversi tentativi di risolvere il problema delle esternalità. Quando l’esperienza in un certo campo è abbondante, è probabile che vi siano buone «regole d’ingaggio» che, con il tempo, sono diventate vere e proprie convenzioni. Le regole assolvono così la loro funzione più genuina: facilitare la convivenza delle persone. C’è la situazione da teorema di Coase: le parti si accorderanno fra loro, trovando così il modo di quantificare, in una negoziazione, il danno subito da una delle due. Ma questa non è l’unica strada. Pensiamo allo smaltimento di rifiuti inquinanti. Tendenzialmente, in una società libera e con una pubblica opinione che non ha paura di alzare la voce, un’impresa che producesse rifiuti inquinanti sarebbe considerata un problema. La libera stampa, le associazioni ambientaliste, i blog sono pronti, col fucile spianato, a denunciare un comportamento ritenuto dannoso e riconducibile a un’impresa. Ciò non è privo di conseguenze. Se un’azienda è quotata, una cattiva pubblicità a mezzo stampa potrebbe avere effetti negativi sull’andamento del titolo. A nessuno piace fare affari con gente di cattiva reputazione. Magari fornitori e clienti di un’azienda che inquina da principio non leggeranno con troppa attenzione gli articoli di giornale; tuttavia, è probabile che a un certo punto comincino a essere infastiditi dall’avere a che fare «con quella gente». Sanno bene che la cattiva fama è contagiosa: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. I manager della nostra impresa allegramente inquinante, a quel punto, si troveranno con una bella gatta da pelare. Avranno difficoltà a piazzare i loro prodotti e dovranno compensare l’effetto delle denunce pubbliche con prezzi più bassi. I loro fornitori cominceranno a essere un poco riottosi: magari le loro merci, indispensabili per tenere viva la produzione, cominceranno ad arrivare in ritardo o a costare di più. A un certo punto, gli investitori inizieranno a guardare con preoccupazione alla situazione di un’azienda stretta in una tenaglia fra costi in crescita, ricavi in diminuzione, sit in di protesta. Il fatto che alcune imprese inquinino rappresenta un’opportunità per altre. Per non incorrere in uno scenario di questo tipo, esse saranno disponibili a pagare per strumenti di depurazione o per impianti che producano un inquinamento inferiore. Se la sostenibilità ambientale è avvertita come una questione importante, si crea una domanda. Nascono imprese che proveranno a vendere «sostenibilità»: impianti che consumano meno energia, consulenze per sprecare di meno, sistemi più efficienti di smaltimento rifiuti. Nel corso dell’ultimo secolo, il progresso tecnologico ha reso meno inquinante l’industria. Abbiamo imparato a costruire automobili che consumano meno e impianti di trasformazione dell’energia sempre più efficienti. L’asta perenne del mercato porta a cercare di migliorare continuamente l’utilizzo che si fa di una certa risorsa. Questo fenomeno, tutto interno al sistema di mercato, ha condotto a un abbassamento generalizzato dei livelli d’inquinamento: si pensi alle emissioni inquinanti da parte delle autovetture, di molto ridottesi negli ultimi anni. FIGURA 2.1 Concentrazioni di polveri a Milano Il decremento delle concentrazioni di polveri totali (di cui I PM10 sono circa l’80-85%) è attribuibile: 1. all’adozione di migliori tecnologie (Dpr 20, 3/88) 2. al trasferimento delle industrie 3. alla riduzione delle emissioni inquinanti primarie (ossidi di zolfo e ossidi di azoto) Fonte: Arpa Lombardia, 2006. Il grafico sopra riportato testimonia la netta diminuzione della concentrazione di polveri sottili a Milano (una città pure facile agli allarmismi sull’inquinamento), dal 1977 al 2005. Il potenziale inquinante delle autovetture è andato costantemente riducendosi e la qualità dell’aria (grazie a diversi fattori, a cominciare dall’evoluzione delle tecniche di produzione industriale) costantemente migliorando29. Che cosa accade, invece, se facciamo assegnamento sulle decisioni politiche? Da una parte, è il modo in cui funziona la politica a rendere più facile scaricare i costi di alcune
azioni su terzi incolpevoli. Se volete, l’attività politica è precisamente scaricare i costi di alcune azioni su terzi incolpevoli. In democrazia, il decisore vuole ottenere e consolidare consenso per essere eletto e rimanere al suo posto. Si spera che egli faccia l’interesse «generale», ma porsi il problema dell’interesse generale non è una strategia saggia per venire eletto. È molto più efficace farsi interprete di alcuni interessi «particolari», che possono mobilitare gruppi più piccoli, ma coesi e capaci di marciare compatti a vantaggio dell’elezione di Tizio o di Caio. Il buon tattico politico sa che il 20% è fatto di venti 1% della popolazione. La moneta con cui il politico ripaga il consenso sono per l’appunto decisioni (nuove norme, nuovi sussidi) che vanno a diretto vantaggio di un gruppo particolare. La politica genera continuamente «esternalità», alle quali la libera negoziazione fra le parti non può trovare compensazione.

ANTITRUST E COLLUSIONI POLITICHE

Le autorità antitrust, cioè favorevoli alla concorrenza, hanno successo anche tra gli economisti.
Lo Sherman Act, però, spesso citato dai favorevoli alle regolamentazioni antitrust, fu una reazione degli sconfitti dal progresso.
“il consolidamento industriale consentiva sia di sfruttare meglio le economie di scala (si hanno economie di scala quando i costi di produzione crescono meno rapidamente della produzione e, pertanto, si ottiene una riduzione nei costi unitari al crescere della quantità totale prodotta) sia di recuperare più facilmente capitali, in un contesto nel quale i mercati di capitali erano ancora molto primitivi. I detentori di risparmi da investire erano ancora una frazione piccolissima della popolazione.”
l’impressione è che gli architetti dell’antitrust fossero preoccupati dei prezzi «troppo» bassi che danneggiavano le piccole imprese in concorrenza con i trust e, allo stesso tempo, temevano che la crescita dimensionale dei trust consentisse loro di pretendere prezzi «troppo» alti: nonostante di questi ultimi li inquietassero più gli effetti allocativi (troppo denaro che entra nelle medesime tasche) che il danno per i consumatori. E tuttavia, non è facile tutelarsi, con lo stesso dispositivo legale, da prezzi che si considerano «troppo» alti e da prezzi che si considerano «troppo» bassi!
L’antitrust trovò il suo paladino in Teddy Roosevelt, un populista che costruì consenso presentandosi come difensore dei «piccoli» contro lo strapotere delle concentrazioni. Egli creò la Federal Trade Commission, cui nel 1934 si sarebbe aggiunta una sezione dedicata del dipartimento di Giustizia, per far rispettare le norme antitrust. Autorevoli studiosi hanno però sottolineato che «Roosevelt rigettò la deconcentrazione per addomesticare le grandi imprese attraverso la supervisione e la pianificazione governativa». Operò con il metodo del «colpirne uno per educarne cento» e, a dispetto del suo motto, mentre teneva in mano un grosso bastone faceva la voce più grossa ancora. I suoi obiettivi, e così quelli dei presidenti che sarebbero venuti dopo di lui, avevano poco a che fare con l’assicurare un buon funzionamento del mercato.

Prendiamo il caso di Rockefeller. Lui divenne miliardario perché aveva sviluppato una tecnologia che gli consentiva di produrre da un barile di petrolio più cherosene di qualsiasi suo concorrente. Ciò permetteva loro di fare prezzi sempre più bassi. Fra i petrolieri che non riuscirono a stare al suo ritmo, anche il padre della detrattrice Ida Tarbell. La Standard Oil era riuscita a esprimere tutto il potenziale delle economie di scala in un mondo nel quale le distanze stavano accorciandosi. Grazie alla abilità manageriali e alle dimensioni raggiunte dalla sua azienda, Rockefeller riuscì a ridurre i costi di trasporto, spuntando prezzi inferiori dalle ferrovie. La sua creatura venne dissolta nel 1911 con una iniziativa «proconcorrenziale» delle autorità, nonostante la sua quota di mercato fosse diminuita con il tempo. Questo era avvenuto proprio perché il suo successo aveva segnalato a nuovi, potenziali concorrenti l’esistenza di un mercato profittevole nel quale entrare. Non c’erano barriere legali che impedissero di cimentarsi nel settore della raffinazione petrolifera.

La strategia di praticare prezzi artificialmente bassi per portare al fallimento i propri concorrenti pare davvero singolare: la cosa più simile al masochismo economico di cui si abbia notizia. In prima battuta, essa può avere successo soltanto nel breve o nel brevissimo termine. Se un’azienda decide di non essere profittevole nel breve periodo per eliminare la concorrenza, nel medio dovrà comunque tornare a prezzi che le consentano di guadagnare. Quando questo accade, nuovi concorrenti potranno considerare l’ipotesi di entrare nello stesso mercato. A quel punto, bisogna ricominciare con le vendite a prezzi insostenibilmente bassi? Un andamento «a fisarmonica» di questo tipo leverebbe il fiato a qualsiasi impresa.

Troppo spesso l’antitrust è una sorta di velame ideologico che nasconde un’ostilità preconcetta nei confronti della grande industria. Gli economisti sono convinti che i mercati funzionino meglio quanti più sono i concorrenti. C’è del vero: se il mercato è un processo di scoperta, più sono i tentativi (e gli errori) dai quali imparare e meglio è. D’altro canto, chi può dire a priori quanti debbano essere i concorrenti, in un certo mercato? È comprensibile avere un’attitudine sospettosa verso le aziende di grosse dimensioni. Ci sono buone ragioni anche per essere convinti che il big business esibisca un forte potere di ricatto nei confronti della politica. Chi dà lavoro a molte persone è un interlocutore privilegiato dalla classe politica, che spera di farsi votare dagli impiegati di quell’azienda. In alcuni ambiti, il settore bancario per esempio, imprese divenute molto grandi si sottraggono alla possibilità del fallimento adducendo la ragione che una loro bancarotta avrebbe effetti (negativi) «sistemici»: cioè produrrebbe svantaggi anche per terzi che non hanno avuto alcuna parte nelle sue scelte in fatto di assunzione di rischi. Questo è un problema. Chi è grande, ricco e influente riesce più facilmente a «catturare il regolatore», a farsi scrivere norme a suo uso e consumo, a evitare la sanzione fallimentare nel caso commetta degli sbagli. Parrebbero essere tutti buoni argomenti per limitare artificialmente la crescita delle imprese.
Il mondo è però pieno di grandi imprese che non sono troppo grandi per fallire.
Se Apple fallisce non ci sono effetti sistemici.
Il problema è che siano i regolatori a giudicare qualcuno troppo grande per fallire. Un’impresa può diventare molto grande perché innovativa. Poi possono subentrare concorrenti che cercano di differenziare i prodotti. Un’impresa può acquisirne altre clienti o fornitrici o concorrenti per vari motivi volti a migliorarsi. Inoltre le imprese possono fare anche altre cose, entrare in nuovi business, cambiare il proprio core e così via. In ogni caso non sappiamo i perché delle scelte imprenditoriali e non sappiamo soprattutto quale sia la loro dimensione ottimale. Anche dove c’è concorrenza perfetta, come nelle edizioni dei romanzi classici, c’è differenziazione di prodotto.
Il problema non è tanto la dimensione dell’impresa, quanto il fatto che non possa fallire grazie alle decisioni discriminatorie del regolamentatore, dettate magari anche delle richieste del politico amico del grande imprenditore (sempre che il regolamentatore non sia pure lui amico dei due.)

A volte le decisioni dell’antitrust portano a buoni risultati, come per le baby bells, ma di solito le denunce all’antitrust sono date dagli sconfitti che vogliono essere protetti.
Il vero nemico dell’antitrust dovrebbero essere i monopoli legali e quelli che lo Stato costituisce o protegge.
I monopoli legali sono aziende cui il potere politico assegna privilegi particolari e costruisce delle nome per garantire tali privilegi.
Le autorità antitrust assolvono a una buona funzione quando liberalizzano e tolgono monopoli statali, per quanto questi abbiano degli amici tra i decisori politici.
Gli statalisti presuppongono di essere quelli che mettono le pedine su una scacchiera e ne definiscono le mosse con l’obiettivo di dare scacco al re. In realtà non conoscono i desideri, i bisogni, le aspettative e quindi le motivazioni delle loro scelte che nascono da decisioni interne e non o non solo da moti esterni.
Gli attori del mercato hanno obiettivi diversi non predeterminabili e volerli ingabbiare in uno schema determinato dall’esterno produce inefficienza e disordine.

TORTE FISSE E REGOLAMENTATORI
Il mercato non è un sistema di allocazione delle risorse inegualitario che toglie a chi non ha e dà a chi ha.
Questo perché la torta non è fissa. Grazie al processo di mercato è possibile che la torta aumenti. Ci saranno vincitori e sconfitti, ma nell’insieme è possibile che la torta cresca. Non si tratta di un processo in cui siamo in fila e aspettiamo che ci tocchi la nostra fetta.
E’ l’ansia di definire obiettivi e di preordinare i comportamenti che fa sì che il regolamentatore cerchi di assegnare un posto fisso ad azionisti, lavoratori, popolo, pensando che siano i più deboli. Il regolamentatore, invece, crea semplicemente il capitalismo di relazione.
“La legge universale della regolamentazione è che non esisterebbe un difetto di regolamentazione che non possa essere risolto con più regolamentazione. In realtà è il contrario.”
I regolatori non hanno intercettato comportamenti pericolosi perché non erano abbastanza informati? Non erano abbastanza informati perché i regolati non erano tenuti a fornire informazioni? I regolati non le fornivano perché le sanzioni erano inapplicate?
I regolatori sono anch’essi motivati dal profitto, ma comunque pensano che il filtro del mercato non sia sufficiente a regolarlo. Il mercato è un processo evolutivo che distingue vincitori e vinti indipendentemente dalle loro motivazioni. Il mercato ha tempi di apprendimento a volte lunghi e a volte brevi. Richiede fallimenti, sprechi, investimenti sbagliati. Il regolatore ritiene che sia necessario un arbitro che intervenga per colmare le differenze tra i più forti e i meno forti. Anche se l’esito del mercato può non piacerci, ciò non significa che un arbitro oppure noi stessi potremmo produrne uno migliore, poiché l’esito è indefinibile a priori.
Se il problema è che occorre una tutela contro i soprusi dei più grandi e potenti in modo che le persone possano sentirsi libere e responsabili delle proprie azioni, allora è meglio stabilire delle rules of law chiare e non modificabili a ogni stormir di fronda e lasciar fare alle sanzioni del mercato e far fallire chi alloca in modo inefficiente le risorse e i fattori produttivi. Il gioco dei prezzi e dei profitti serve a distinguere tra chi gestisce le risorse in modo migliore o peggiore.

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