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Lo stupore delle prese elettriche

Limitare la concorrenza equivale a limitare la libertà.

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Da “L’intelligenza del denaro” di Alberto Mingardi

Se la divisione del lavoro funziona tanto meglio quanto più il mercato è esteso e interconnesso, le barriere servono a impiegare più lavoro di quanto sia necessario per comprare la merce gravata dalla barriera. Quindi, con la protezione, i compratori devono spendere di più di quanto farebbero in assenza di dazi o protezioni. Per tale motivo avranno meno reddito disponibile che avrebbero altrimenti potuto utilizzare per acquistare altro, per risparmiare, per investire, per aprire attività, per soddisfare altri desideri, per creare o cogliere opportunità.
Col protezionismo non utilizziamo, a livello di paese, i nostri vantaggi comparati. Continuiamo a produrre prodotti in cui altri hanno un costo opportunità inferiore e quindi non ci concentriamo in quei settori nei quali l’impiego delle risorse sarebbe migliore. Cioè in quelle produzioni in cui abbiamo vantaggi rispetto ad altri paesi. Riduciamo così sia le importazioni che le esportazioni, abbiamo meno reddito a disposizione, sprechiamo le risorse, spendiamo di più.
I politici, allora, e le associazioni di produttori, perché chiedono più protezioni e tutele? Ovviamente per comprare consenso e ottenere privilegi e rendite. C’è chi campa sulle protezioni. Le frontiere aperte creano opportunità di entrate. Prendiamo gli immigrati: potrebbero fare concorrenza ai produttori. Un’accurata gestione dei flussi, magari lasciando aperto qualche varco, invece può dare il potere di gestire le quantità e i prezzi, e quindi il commercio, ai produttori. Il dazio sposta la ricchezza dai consumatori ai produttori.
Però, se i consumatori sono più dei produttori, perché il potere politico dovrebbe favorire questi ultimi? Per il potere di decidere il gioco economico. Il decisore politico può alzare i prezzi con le tariffe o può tenerli bassi artificialmente coi sussidi alla domanda, ma in ogni caso, in questo modo, impedisce che sia il gioco di mercato e in particolare sia la massa dei consumatori a determinare i vincitori e i perdenti del gioco economico.
Il protezionismo rafforza il potere di pochi ai danni dei molti ed è per questo che è inviso a chi ha a cuore la libertà individuale.
Le imprese riescono a ottenere protezioni perché presentano alcuni benefici e nascondono i costi. Tra i beneficiari affermano che vi siano gli occupati nel settore protetto. In effetti tutelano i lavoratori attuali delle imprese attuali, i quali portano voti attuali.
Il politico può vantarsi in giro di avere difeso l’occupazione. Il problema è che se difende l’occupazione dei padri e soprattutto se difende posti di lavoro inefficienti che riducono le opportunità di crescita, il politico sta uccidendo le possibilità di occupazione dei figli.
Un Paese che si protegge dalla concorrenza estera finisce per perdere opportunità di crescita.
Ora è vero che come massa i consumatori sono più dei produttori, ma è difficile che l’acquisto di un singolo bene, anche se a prezzo maggiorato, incida sul reddito in modo tale da creare il bisogno di fondare un comitato di consumatori di quel bene che interagisca coi politici.
Un guaio ulteriore è che le barriere chiudono chi sta fuori ma imprigionano anche chi sta dentro.
Le imprese protette non percepiscono segnali di debolezza e non usano la protezione per migliorarsi, anche perché non ne sentono la necessità, finché succede qualcosa per cui i prezzi reali vengono percepiti o cadono le barriere. Va a finire che la debolezza intrinseca del settore inizierà a far chiudere le imprese, comprese quelle dell’indotto, e a far perdere posti di lavoro.
Tali posti erano ritenuti sicuri una volta, ma non perché le aziende andavano bene, bensì perché erano protette dalla concorrenza: i lavoratori dell’indotto Fiat hanno perso a suo tempo la libertà di farsi scegliere, cosa che non sarebbe accaduta se ci fossero state in Italia anche delle fabbriche Nissan o Toyota, per esempio. Sotto lo stimolo della competizione quelle aziende avrebbero potuto agire in tempo, cercando di essere sempre più competitive, acquistando know how, tecnologia, puntando sulla ricerca, migliorando i prodotti e i processi e così via.
Scegliere di non competere significa rinunciare a imparare. Inoltre come si può pensare di andare a conquistare mercati esteri quando abbiamo chiuso il nostro?
La Fiat è un esempio emblematico. Ai tempi del boom aveva circa il 90% del mercato italiano, mentre le imprese degli altri Stati europei godevano di quote non superiori al 40% nei rispettivi paesi. Una volta aperto il mercato unico, l’Italia ha mantenuto chiuse le barriere contro le auto giapponesi, che poi hanno fatto un sol boccone della quota di mercato della Fiat, una volta entrate. A rimetterci sono stati anche tutti quei consumatori che per anni hanno dovuto subire prezzi alti e prodotti di qualità scadente.
Una volta messi in condizione di poter scegliere, gli italiani lo hanno fatto, cominciando a scegliere auto di marche diverse. A quel punto, con Marchionne e Morchio, i primi due manager non orientati alla politica, la Fiat ha iniziato a depoliticizzarsi e a cercare di agire in modo concorrenziale

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