there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

Lisbona 2017. Tra le vie del Bairro Alto.

QUINTO GIORNO TRA LE VIE DEL BAIRRO ALTO.
Il quinto giorno finalmente decise di andare a correre la mattina presto. Erano diciassette gradi. Fece una decina di chilometri in giù e su per i dintorni di Anjos e si diresse verso Cais do Sodré per mangiare una pastel de nata alla fabbrica dove si producono e si vendono lì per lì. Peccato che fosse chiusa, quindi dovette aspettare un’ora. Ne approfittò per prendere mezzo chilo di ciliegie, alcune delle quali un po’ troppo aspre, al mercato di Ribeira, quello tradizionale, e per farsi buttare fuori da “Second Home”, un club di lavoratori e studenti creativi aperto solo a chi avesse la tessera.
Nell’attesa che quella delle paste, dopo avere aperto il negozio, finisse di pulire anche i vetri, venne importunato da un venditore di Gesù che continuava a parlargli malgrado l’evidente volontà di non ascoltare l’importunatore. Volontà manifestata attraverso un persistente spippolamento sul telefonino condito con diversi “no” borbottati.
Del meraviglioso tour nello stadio del Benfica parlerà in un altro post e quindi facciamo un balzo temporale dalle dieci di mattina alle due del pomeriggio e trasferiamoci nello spazio tempo chiamato:”Ricerca del ristorante”. Dopo avere studiato le guide sulle migliori tascas (trattorie tipiche come se fossero vecchi bar di paese) o i migliori posti dove mangiare pesce o pregos o bifanas o roba da mettere sotto i denti, iniziò un percorso fatto di selezioni, scoperta di ristoranti chiusi (Ramir, che sembra buono ma caro), indecisioni su quali linee della metro prendere o a quale scendere. Alla fine scese al Chiado e chi s’era visto s’era visto. Trinidade? Prezzi eccessivi. Casa India? Camerieri e proprietari non lo considerarono per troppo tempo dopo la sua entrata nel ristorante, forse notando un certo spaesamento sul confine tra quelli che mangiavano al tavolo e quelli che stavano al banco come se prendessero delle cose un po’ come funziona in Spagna con le tapas. Era anche indeciso su quale piatto preferire tra polpo o baccalà e sul modo di cucinarlo, senza trascurare i gamberi. Uscì da Casa India, vide un chiosco di gelati e stabilì che quello sarebbe stato il suo pranzo, per il momento. Si erano fatte le tre del pomeriggio. Percorse il Chiado, tra tavolini pieni di gente che mangiava, piazze e chiese piene di gente che cazzeggiava, strade piene di gente che camminava o rideva, piazze con musicisti che suonavano per raccattare due soldi, senzatetto sdraiati o seduti presso i marciapiedi.
Si ricordò che avrebbe voluto andare in almeno due posti fondamentali: il convento del Carmo e il miradouro di Sao Pedro di Alcantara. Stava facendo tardi e si disse di lasciar perdere il tour, anche solo visivo, dei ristoranti.
Entrato al convento del Carmo rimase abbagliato da quella meraviglia. Si tratta di rovine. Meravigliose. La struttura della chiesa del convento che resta visibile è quella rimasta in piedi dopo il terremoto del primo novembre 1755, seguito da uno tsunami. Una parte è stata ricostruita, ma la ricostruzione è stata fermata nel 1834. Procedendo lungo la navata centrale si arriva al museo archeologico, che si trova dentro quello che era il convento. Il museo ha dei reperti interessanti, tra cui quel che era rimasto sepolto nelle macerie delle chiese del tempo. Affascinanti sono anche due scheletri di bimbi morti, per gli amanti del genere horror. Inizialmente comunque fece quel che fanno tutti: sedersi a contemplare le rovine sugli scalini che si trovano all’ingresso del Carmo. Ascoltò così anche la conversazione tra due ragazzi spagnoli e due ragazze americane che sfociò nella formazione di due coppie: una andò a visitare il museo e l’altra rimase seduta. Come seppe che i ragazzi erano spagnoli e le ragazze americane? Dai volantini informativi. Il nostro protagonista aveva in mano quello in italiano.
“Se cammini sul marciapiede lentamente, almeno non andare a zigzag” disse con la mente a un energumeno che ondeggiava insieme alla moglie mentre il nostro protagonista, uscito dal convento, si stava dirigendo verso Rossio in modo da andare a vedere la famosa trattoria Floresta e la vicina Vinho Minho. Famosa, la prima, perché citata da due autori su internet. Vide, però, una volta sceso dalla scalinata che porta a Rossio passando dal piano di mezzo della stazione, a cui finora era arrivato sempre dal basso, un ristorante vuoto che serviva del polpo alla lagairero o come diavolo si scrive. Trattasi di polpo inzuppato in aglio e olio e servito con patate. Anche il baccalà viene portato in tavola cucinato allo stesso modo. Il protagonista finora si era limitato al baccalà a bras, buono. Entrato che fu nel locale, non ordinò né l’uno né l’altro, ma dei gamberi all’aguillo, insomma aglio e olio, tanto per non smentire la cucina portoghese. I gamberi erano buoni, si sgusciavano che era un piacere e non erano per niente pesanti. Venivano serviti in un recipiente separato dal piatto. Non venne offerto alcun antipasto. Questa è una cosa che può succedere nei ristoranti portoghesi: ti viene portato dell’antipasto anche se non lo ordini e se non lo rifiuti lo paghi. Il fatto che questa volta non sia successo va a merito del Rei do Frango. Dove Frango dovrebbe essere un altro termine culinario tipico del Portogallo.
Il nostro protagonista non andò quindi al Floresta, anche perché si trovò a Largo Santo Antonio, prese una ginginha, scoprì grazie a un gruppo di israeliani con la bandiera dove era la stella di Davide che testimoniava il massacro contro gli ebrei nel Cinquecento (se non sbaglio), di fronte alla chiesa di Santo Antonio. Tale massacro avvenne lì. Nella strada per giungere a questo Floresta neanche Google Maps dava indicazioni chiare e soprattutto sembrava troppo lontano, per uno che non aveva voglia di ripercorrere le viuzze della sera prima quando era andato a Graca passando dai labirinti dell’Alfama.
Il nostro protagonisa si mosse di una piazza usando il bus e, lasciatosi come viale non percorso quello alberato della Libertà, si inerpicò per la salita della Gloria, una di quelle ripidissime buone per le ripetute in salita. Voglio vedere come fanno a farle quando piove, sia all’insù che all’ingiù. Specialmente laddove non c’è la funicolare, come in questa. Il nostro tipo prese anche per una traversa con tre o quattro scalinate e sette ottocento graffiti, caratterizzata dall’avere i marciapiedi rotti quasi ovunque. Ripresa la salita, si avvide di graffiti e anche di una galleria urbana di arte urbana, insomma graffiti a iosa.
L’arrivo in cima alla salita fu compensato dal miradouro di Sao Pedro di Alcantara. Bellissima fu la vista, che spaziava per la città fino al castello e al solito Tago. Nella piazza non mancavano i fotografi, i selfisti, i panchinari, i tavolinisti al bar, i chioschi, la cantante chitarrista, la gente a conversare. Il nostro protagonista percorse tutta la via e quelle traverse. Ricorderà adesso i tanti negozi di artigianato, di oggettistica, di cazzate (“Amazing store”, chiuso, Bairro Arte, aperto), di antiquariato, di libri e il numero spropositato di bar e ristoranti. In alcune vie è un susseguirsi di cocktail bar, tascas, ristorantini, bar caratteristici come l’Estadio dove fanno mostra di sé vinili, macchine per la riproduzione del caffè, ricostruzioni di stadi e dove il caffè, sinceramente, è il peggiore che il nostro protagonista abbia mai bevuto in vita sua. C’è anche un parco in zona, carino in quanto parco: il Principe Real, dove la fauna umana era quella che ci si può attendere. Vale a dire bambini, saltatori con la corda, portatori di cani, avventori di bar, bariste, pomiciatori, amanti, lettori e così via.
Segnaliamo il Doce Real, definito da Time Out come il miglior locale per le empanadas di tutta Lisbona e nel quale il nostro tipo prese una specie di panino fritto ripieno di baccalà e una specie di di panino con dentro calamari. Ne fu ampiamente soddisfatto.
Segnaliamo Tia Alice, o Arroz Doce, citata come una trattoria simil bettola e rivelatasi un cocktail bar alla moda.
Segnaliamo una vera simil bettola con qualche tavolino di legno, una vecchia pronta a far da mangiare, dei pensionati in uscita sostituiti da dei giovani. Purtroppo ci manca il nome.
Il nostro andò a mangiare in un posto il cui rapporto qualità prezzo non deve essere stato il massimo, ma non ce l’avrebbe fatta a girare a vuoto un’altra ora. C’era il polpo alla Lagareiro o come si scrive, peraltro. Quindi entrò e ordinò un’altra cosa (avevate qualche dubbio?) Il polpo con gamberi era un piatto buono, saporito, ma forse un po’ troppo pesante e non erano le patate che lo contornavano a dargli pesantezza, bensì il solito inzuppamento in aglio e olio. La cameriera riccioli neri lo salutò con “ciao”, come se avesse riconosciuto l’italianità del tipo. Intanto all’uscita si erano piazzati un chitarrista dai capelli lunghi e una ragazza dai capelli corti. Anch’essa lo salutò con un “ciao”.
Il nostro sfamato protagonista, che spese ventidue euro per la cena, quindi troppi, uscì e tirò a diritto. Si ritrovò dove era partito qualche ora prima, vale a dire vicino al miradouro, presso la chiesa di Sao Roque, sempre se non ricordo male il nome. Comunque è citata nella Lonely Planet pocket, quindi ha qualcosa di valevole.
Tornò in giù verso Rossio e Restaudores passando dalla discesa della Gloria e rischiando di scivolare. Decise di entrare in un negozio di souvenir e di comprare alcuni regali. Decise anche di comprare delle pasteis de nata nel negozio della fabbrica che si trova a Restaudores: una la comprò per sé e dodici se le fece incartare. Abbiamo già discusso dei problemi susseguenti a questo acquisto in un post precedente.
Infine restava da chiudere la serata col giro classico per Rua Augusta fino a Prada do Comercio, per poi percorrere un pezzo di lungofiume, ammirare il fiume, il ponte, il cristo, le case colorate dietro di lui, le luci accese delle case dalla riva opposta davanti a lui, varie ed eventuali.
Finita la serata alla festa in Cais do Sodrè ad ascoltare musica e a lasciarsi inondare di bei ricordi, doveva iniziare l’ultima fase: la presunta clonazione e il sicuro blocco della carta di credito, da cui le venti ore fantozziane.

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