Avevo visto un annuncio in cui si cercava una financial controller. Mi sono subito presentata, forte del mio master in auditing e controllo interno, appena concluso. Non che pensassi di restare a lungo in Italia, ma avrebbe potuto servirmi come esperienza. Quell’azienda era stata comprata da una multinazionale americana e il direttore generale era statunitense. Si era subito interessato al mio curriculum e dovevo avergli fatto una buona impressione, dato che mi ha assunto. In quel posto il compito di rimettere in sesto la società non era facile, ma i miei report e i miei suggerimenti erano considerati utili, a differenza di quello che mi raccontavano molti miei compagni di università o di master che erano relegati a ruoli dequalificati, a meno che non conoscessero qualcuno. Anche lo stipendio era a valori di mercato per un controller neolaureato, sia pure a livelli italiani: quarantamila euro lordi.
Fui messa in ufficio con una signora di circa cinquantacinque anni, chiamata Luciana.
Era una donna simpatica, con cui era piacevole chiacchierare. Le piaceva chiedere cose su di me e parlare di sé e della sua famiglia, spesso intercalando il discorso con delle domande che, dopo poco, ho capito che non presupponevano una risposta: preferiva parlare piuttosto che ascoltare.
I suoi genitori la tenevano sotto pressione per ogni piccola cosa, ho saputo da altri colleghi, e lei ha imparato a esigere tutto e subito per quanto la riguardava. Tra l’altro faceva parte di quelle persone convinte che esista un solo modo corretto di fare le cose e, come chi ha una visione e una conoscenza esclusivamente giuridico amministrativa e contabile, non capiva la differenza tra significatività e precisione, tra tempestività e accuratezza, tra dati e informazioni.
Riteneva, inoltre, di essere l’unica persona capace di svolgere un certo tipo di lavoro, che credo avesse a che fare con le assicurazioni.
Non si può certo dire che non si impegnasse nel suo lavoro, ma considerava come suoi diritti alcuni comportamenti cui era abituata, come tutti in quell’azienda, che svolgeva servizi industriali per gli ospedali: la colazione in ufficio, le pause caffè, i lunghi dialoghi dopo la pausa pranzo con una collega, l’ascolto di rds, le lunghe telefonate con la figlia o con una collega che si trovava in una sede distaccata. Sorvoliamo sul fatto che le stesse cose non esitava a criticarle quando riguardavano dei colleghi. Era anche inconcepibile, per lei, disse un giorno, che degli studenti manifestassero perché volevano i diritti che erano toccati a lei e bloccassero una città anziché lavorare, quei mantenuti. Dicendo questo voglio soltanto sottolineare l’incoerenza di fondo, sia pure in buonafede. Avrei potuto dirle che loro sono precari perché le aziende e le persone devono pagare il tempo indeterminato o la pensione retributiva di altri e affrontare l’argomento degli equilibri economici parziali o dell’equilibrio economico generale, che è diverso da Paese a Paese. Il problema è che non avrebbe ascoltato molto e non avrei certamente scalfito le sue opinioni.
Mi limiterò ad accennare al fatto che faceva alcune ore di straordinario perché sosteneva di avere sempre tanto da fare e avrebbe volentieri lasciato il lavoro a qualcun altro.
Altre sue convinzioni, che forse avrebbe continuato ad avere anche dopo gli eventi che sto per descrivere erano che il proprio posto, come quello dei colleghi, fosse garantito per l’eternità, a meno che l’azienda non chiudesse, ma un’ipotesi di sostituzione sarebbe stata implausibile; che il resto del mondo guadagnava troppo; che il reddito o la ricchezza altrui erano sempre immorali; che esistevano dei ladri di lavoro; che le retribuzioni dovessero variare in funzione dell’anzianità di servizio.
Nello svolgimento del lavoro quotidiano se aveva un’esigenza o un problema non esitava a chiamare: “Scusa Valentina, puoi darmi una mano con un file Excel?”, mi disse il giorno in cui successe quello che vado a raccontare.
“Aspetta, finisco una cosa.”
“E’ un attimo”.
Andai da lei e fui meravigliata. Lei faceva i conti con una di quelle macchine da calcolo che probabilmente venivano prodotte solo per gli uffici amministrativi italiani e poi riportava il risultato sul foglio elettronico. Non solo: ma se qualcuno faceva una somma direttamente sul foglio Excel lei ricontrollava il risultato a mano. Naturalmente non aveva nessuna conoscenza delle formule, delle funzioni, per non parlare delle tabelle pivot o delle macro. In ogni caso, probabilmente, non avrebbe saputo usare gli strumenti offerti o interpretarne l’utilità.
Il problema che la tormentava riguardava, in quel caso, l’ordinamento di una tabella, cosa che feci in un attimo e tornai al mio lavoro.
Ovviamente un giorno in cui io dovetti chiederle dei dati, lei si risentì dicendo di aspettare. Fu soltanto quando glielo chiese il capo, che fece il lavoro, non senza brontolare nei suoi confronti quando se ne fu andato.
Spesso parlava della sua famiglia e intavolava lunghe conversazioni. Con gli altri, perché a me non interessano certi argomenti. Discutevano in merito a dei pettegolezzi, a cosa avevano visto in televisione o ascoltato alla radio, alle condizioni del tempo, al resto del mondo che non sapeva lavorare o non capiva niente. Una volta, sapendo che io facevo volontariato per il WWF, disse di non reggere gli ambientalisti e preferire le associazioni come Amnesty che fanno cose concrete. In ogni caso, disse che in futuro sarebbe partita volentieri per l’Africa.
Il giorno prima di quello del “fattaccio” è entrata in ufficio scandalizzata perché un collega se ne è uscito dalla stanza con rabbia dopo che lei ha detto che sua figlia avrebbe speso centocinquanta euro per il concerto di Madonna quando lui ha difficoltà a tirare avanti. Lei, allora, dopo che lui era uscito, ha iniziato a inveire contro di lui, i guadagni della sua moglie, le spese che è impossibile che lui sostenga anche perché non ha neppure un mutuo a cui far fronte. Sosteneva che mandare i figli a calcio non doveva costare molto e inoltre che mantenere loro costasse poco: un po’ di benzina e che altro? Diceva che invece lei paga un mutuo e il condominio. Affermava che lui aveva detto di spendere un tot per i detersivi e lei invece pensava di pagare anche il doppio, ma non si metteva certo a fare i conti spesa per spesa. Inoltre non offriva mai niente. Concluse sentenziando che lui era malato.
Quando le ho detto che avrebbe dovuto stilare dei report mensili, si è rifituta davanti alla direzione, perché anche se tutto è importante, ci sono altre cose da fare e non ci si poteva dedicare a questi dati. Mi ha detto che avrei raccoglierli io quei dati, invece che stare a studiare tutto il giorno. Ho lasciato correre.
Il giorno successivo è arrivata una telefonata in inglese e lei ha detto che non è stata assunta per parlare in inglese, né che era tenuta a saperlo al momento dell’assunzione. L’ho riferito al direttore generale, il quale l’ha convocata, dicendo che le soluzioni ai suoi comportamenti potevano essere quelle di riqualificarsi e imparare ciò che è richiesto oggi, oppure abbassarle lo stipendio come accade in tutto il mondo a seguito di cali nella produttività individuale o nel merito (“una trentenne farebbe le stesse cose su Excel in un ventesimo del tempo, quindi lo stipendio si potrebbe abbassare di venti volte o si potrebbe semplicemente assumere la trentenne tecnologica al suo posto”, le spiegò lui), oppure si potrebbe licenziare. Il direttore annunciò, inoltre, che il capo del personale sarebbe diventato dall’indomani proprio il collega di cui lei aveva parlato male.
Lei promise che ci avrebbe pensato e che eventualmente si sarebbe fatta aiutare.
Intanto io, il direttore e il nuovo capo del personale iniziammo a vederci per vedere come ristrutturare l’azienda, possibilmente secondo i criteri del “pensiero snello”, quello reso famoso dalla Toyota. Creammo un team, spiegammo dove volevamo arrivare, chiarimmo che l’unica cosa che non avremmo potuto accettare chi non voleva partecipare, nei limiti delle sue possibilità al progetto, ma anzi si fosse messo di traverso, non attraverso la messa in campo di opinioni diverse ma rifiutando di collaborare.
Presto iniziarono a partire alcune lettere di licenziamento. Il giudice del lavoro ordinò il reintegro delle persone, la proprietà decise di vendere l’azienda a dei maneggioni italiani, nessuno fu licenziato, l’amministratore delegato tornò in America e io finii a svolgere il lavoro da controller a Londra per centodiecimila euro più benefit. Non fosse stato per Luciana, forse sarei ancora in Italia, magari in quell’azienda.